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Reportage
30 settembre 2014 - Attualità - - Il Giornale
Spesi 850 milioni per Kabul. Ora l’Italia rischia di sprecarli
Il gurka con giubbotto anti proiettile, radio e dito sul grilletto del kalashnikov ci scorta nella fortezza della Cooperazione italiana ad Herat. Dodici temibili guerrieri nepalesi di una compagnia privata garantiscono la difesa di due palazzine attorniate da alte e possenti mura di cinta sovrastate dal reticolato nel centro città. Sembra di essere in una specie di Fort Apache presieduto in questi giorni da un solo cooperante. Dall'ambasciata a Kabul giurano che è un caso, ma solo a metà ottobre arriveranno due rinforzi. Sette macchine blindate languono nel parcheggio interno ed in caso di necessità si corre in un bunker sotterraneo.
L'ordine tassativo è di non avventurarsi nei distretti fuori città infestati da talebani. La sede blindata della Cooperazione ci costa 500-600mila euro all'anno. E gli italiani non possono neanche controllare i progetti nell'entroterra. Negli ultimi dieci anni abbiamo investito nello sviluppo dell'Afghanistan la bellezza di 810 milioni di euro, compresi 150 di crediti ancora da utilizzare. A questi vanno aggiunti i 46,4 milioni della Difesa per progetti civili.
Ieri si è insediato a Kabul il nuovo presidente, Ashraf Ghani, accolto da un attacco suicida nei pressi dell'aeroporto della capitale. Nel 2014 la sicurezza è precipitata anche ad Herat dopo dieci anni di sangue e sudore sputato dai nostri soldati. I funzionari americani, che vivono a Camp Arena, la base italiana vicino all'aeroporto, prendono l'elicottero per raggiungere il consolato in città ad una ventina di chilometri.
L'ospedale pediatrico di Herat costruito da zero dalla Cooperazione, a 13 chilometri dal centro città, è considerato un fiore all'occhiello dalla Farnesina. Come tiriamo fuori la video camera veniamo circondati da una piccola folla di afghani, che non vede l'ora di protestare. «È troppo lontano. Chi ha avuto l'idea di un ospedale in una zona così isolata? E le medicine che ci fanno pagare costano troppo» sbotta Ahmad, barbone nero che ha la figlia ricoverata. Il direttore dell'ospedale, Mir Wais Abidi, si lamenta che il progetto iniziale prevedeva più reparti e apparecchiature. Firoz Frotan, tecnico di laboratorio, alza il velo sul vero problema: «Il 90% del personale vuole il trasferimento perché l'ospedale è in una zona insicura».
Alla periferia di Herat gli italiani hanno finanziato la creazione di un secondo «giardino delle donne», dove il gentil sesso dovrebbe levarsi il burqa ed intraprendere attività imprenditoriali. I militari hanno speso 70mila euro per asfaltare la strada deserta fino all'ingresso. Per quelle interne, su un'area di tre ettari, ci ha pensato la Cooperazione. La palazzina nel mezzo è una specie di abbandonata cattedrale nel deserto. Mahijooba Haschemi, responsabile del progetto, ammette: «Le donne sono poche e vengono solo di venerdì, giorno di festa. Abbiamo bisogno di nuove donazioni per avviare l'iniziativa». Anche fra le 83 scuole costruite dalla Cooperazione civile e militare ci sono problemi, ma gli italiani non sono in grado di fornire una radiografia attuale. Secondo le autorità locali nel distretto di Shindad, tre della decina di scuole italiane sono fuori uso. Un paio distrutte dai combattimenti. Ad Adrashkan una delle quattro scuole è stata finita a metà e non funziona. I talebani avrebbero chiuso alcune classi femminili.
Un fallimento sarebbe il progetto italiano di sostituire lo zafferano con l'oppio. «Abbiamo buttato centinaia di migliaia di euro per un'idea frutto di una sparata mediatica - conferma un addetto ai lavori - con il risultato che le piantagioni di papavero sono aumentate».
Luciano Pezzotti, ambasciatore italiano a Kabul, è convinto che «ci sono ben più luci che ombre. Sulla sede della Cooperazione ad Herat faremo una riflessione, ma continueremo ad investire nello sviluppo». Dei 150 milioni di crediti, 92 saranno destinati alla strada Herat-Chest-i-Sharif e 30 per l'ampliamento dell'aeroporto. I progetti sono in ritardo a causa dei mesi di stallo politico a Kabul, ma con le strade la fortuna è scarsa. Per i 136 chilometri di asfalto nella provincia di Bamyan abbiamo stanziato i primi 36 milioni di euro nel 2003. Altri 57 milioni servono per il secondo tratto, che dovrebbe essere finito nell'agosto 2015, dodici anni dopo.
[continua]

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02 ottobre 2008 | Premio Massimo Ficuciello | reportage
Soldati e giornalisti
Un piccolo contributo fotografico al premio in memoria del “Capitano Massimo Ficuciello”, caduto nella strage di Nassiryah. Nell'occasione il Centro studi americani di Roma ha organizzato un mini convegno sui rapporti fra i media e le forze armate. Dove ho parlato del mio rapporto di "amore e odio" con gli ufficiali della pubblica informazione.

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27 giugno 2007 | Tg2 | reportage
Esercitazione per giornalisti embedded
Sahariana immacolata, capello scapigiato, fumo di bombe all'orrizonte. E' questa l'immagine dell'inviato di guerra che la tv ha portato nelle case degli italiani. Invece il giornalista embedded è tutt'altro. Basti pensare che per diventare inviati di guerra occorre una rigorosa disciplina. Proprio per questo a Udine è stato organizzato un corso per addestrare i nuovi cronisti a evitare le gaffe raccontate dai militari. La giornalista veterana di missioni di guerra in tacchi a spillo che si fa prendere da una crisi isterica su un mezzo militare durante un conflitto a fuoco oppure il cameramen che nel carro armato apre la bottiglia dell'acqua mettendo ko la sua sofisticata macchina per le riprese. Ecco è proprio per evitare i classici esempi della letteratura fantozziana che riguarda gli inviati di guerra raccontata a mezza voce dai soldati italiani che è nato il corso sul "Comportamento e sicurezza dei media in operazioni" organizzato nel corso dell'esercitazione "Cormor 2006" dalla Brigata Pozzuolo del Friuli: si sono messi fianco a fianco, per la prima volta in Italia, una trentina di appartenenti alla riserva selezionata, giornalisti di guerra, tra i quali un veterano come Fausto Biloslavo,inviato di guerra de Il Giornale, e aspiranti tali. "Quello degli inviati di guerra e dei militari - sottolinea il capitano Ettore Sarli, responsabile pubblica informazione della Brigata, - sono due mondi che devono lavorare un po' meglio assieme per conoscersi e riuscire a contemperare le reciproche esigenze". Perché l'imperativo è sempre quello di garantire la sicurezza dell'operazione in corso ed evitare che la presenza del giornalista al seguito possa rivelarsi controproducente. Perché i giornalisti embedded devono innanzitutto vincere la sfida della fatica, quella di muoversi sempre, anche con temperature che superano i 60 gradi, con giubbotto antiproiettile ed elmetto del peso di 12 chili complessivi. E quella della paura. "Se un giornalista vuole realmente essere embedded - sottolinea Biloslavo - deve sapersi muovere e comportare esattamente come un militare, uscendo in qualunque tipo di operazione".

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