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Reportage
17 marzo 2017 - Prima - Iraq - Corriere del Ticino
Nell’inferno della Stalingrado dell’Isis
MOSUL OVEST - Il carro armato vomita una fiammata rossastra. La cannonata fa tremare tutto. L’obiettivo è un nido di cecchini delle bandiere nere, poche centinaia di metri più avanti lungo la strada ridotta ad un cumulo di macerie. “Daesh kaputt, Daesh kaputt”, lo Stato islamico è finito, urla un soldato iracheno facendo con la mano il segno della gola tagliata. In realtà il colpo di un tiratore scelto del Califfo ha appena centrato un gippone corazzato iracheno facendo fuggire l’autista. Accanto al carro di fabbricazione russa, un blindato della polizia federale spara a ripetizione con il cannoncino della torretta.  Gli “Scorpioni”, i corpi speciali della divisione di reazione rapida irachena, che da una settimana stanno avanzando a Mosul ovest sono arrivati fino al ponte Huria. Il terzo sul Tigri che congiungeva l’altra parte della città già liberata, prima di afflosciarsi sotto i bombardamenti.  L’incrocio presidiato dal carro armato, che continua a tirare cannonate è a poco più di un chilometro dalla moschea Al Nuri, dove Abu Bakr Al Baghdadi ha proclamato il Califfato nel luglio del 2014. Gli edifici sono scarnificati dagli aspri combattimenti. Mosul ovest è la Stalingrado delle bandiere nere, che pur perdendo  ogni giorno terreno sembrano non mollare mai. Il 40% della parte occidentale è già stata conquistata, ma ci vorrà ancora un mese per farla finita. Il fischio di tre razzi katiusha ci fa correre un brivido lungo la schiena, mentre si avvicina sempre più sopra le nostre teste. Uno esplode sulla seconda linea, un altro si conficca nel palazzo dove ci ripariamo, ma il terzo esplode in mezzo ai blindati iracheni a pochi metri dal negozio dove abbiamo trovato riparo. Il boato e lo spostamento d’aria ci fa barcollare. Un fumo denso e grigio avvolge tutto. I soldati urlano e dalla nebbia provocata dal razzo emergono in quattro che trascinano un corpo maciullato. I  numeri sono top secret, ma la battaglia nella “capitale” del Califfato è già costata migliaia di morti da una parte e dall’altra.  Mosul brucia con alte colonne di fumo nero che si alzano all’orizzonte su tutta la parte occidentale della città. Nel girone dantesco della Stalingrado dello Stato islamico raggiungere la prima linea è un’impresa ardita. Le truppe d’assalto hanno superato la grande arteria che porta a Baghdad e taglia Mosul ovest. Un fuoco d’inferno ci accoglie ed un colpo di mortaio piomba maledettamente vicino. La granata è esplosa dall’altra parte del muro dove tiravamo il fiato assieme alla polizia irachena. Se fossimo stati in campo aperto eravamo tutti morti. Dal cielo gli elicotteri martellano le postazioni dello Stato islamico con scariche micidiali di razzi. Le truppe jihadiste rispondono con una valanga di raffiche, razzi Rpg sugli incroci e macchine minate. Una nuvola di fumo bianco si alza davanti a noi dopo una paurosa esplosione di un kamikaze al volante di un mezzo imbottito di tritolo colpito da un drone. Il tenente dei corpi speciali, Ahmed Galeb, ha pochi dubbi: “Non importa quanti bastardi ci sono ancora. Abbiamo abbastanza munizioni per farli fuori tutti”.  La città è distrutta. Quasi ogni casa è sbrecciata dalla furia dei combattimenti. Le automobili abbandonate sono ridotte a scheletri di lamiera anneriti dalle fiamme. Per passare gli incroci devi scattare come un centometrista con i soldati iracheni che ti coprono sparando a raffica verso le postazioni dello Stato islamico. Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. Le bandiere nere minano tutto ogni volta che perdono un pezzetto di Mosul. La trappola peggiore è un cavo sottile, praticamente invisibile nascosto sotto terriccio o immondizie e puntellato di minuscoli contatti elettrici. Come ci cammini sopra li attivi e si innesca l’esplosione di mine, granate di artiglieria o plastico nascosto ai bordi della strada. Non ti rendi neppure conto di finire in mille pezzi. A Mosul ovest sono rimasti intrappolati 750mila civili, un terzo bambini. Centomila sono fuggiti dall’inizio dell’avanzata. Dalle case liberate spuntano fuori come fantasmi i sopravissuti.  “Per 10 giorni con 22 familiari siamo rimasti tappati in cantina fino a poche ore fa” racconta Abu Mohammed. I miliziani jihadisti gli avevano aperto una breccia nel muro di cinta per passare da una casa all’altra senza venire individuati.  Il sopravissuto conferma che “fra gli stranieri di Daesh (Stato islamico nda) ho visto anche occidentali, europei con gli occhi azzurri ed i capelli biondi”.  A ridosso del fronte si incrociano lunghe colonne di sfollati, che fuggono sventolando le bandiere bianche. Donne velate dalla testa ai piedi, che portano in braccio i figli nati da poco. Giovani, che hanno messo la nonna semi paralizzata dentro una carriola per trasportarla. Famiglie intere su un carretto tirato dal padre. Le organizzazioni dei diritti umani denunciano esecuzioni sommarie dei civili che scappano da parte delle bandiere nere, ma anche il pericolo di trovarsi fra due fuochi con le truppe irachene che avanzano.  I seguaci del Califfo utilizzano la popolazione come scudi umani. A Badoush a nord ovest di Mosul gli sfollati raccontano che lo Stato islamico minaccia di passare per le armi chi scappa “verso la terra degli infedeli”. E terrorizza i civili: “Le vostre donne verranno stuprate e gli uomini uccisi”. Sheima Jasen, una giovane velata arrivata a piedi con i due figli, all’aeroporto di Mosul, descrive l’odissea: “Era un inferno, una pioggia di mortai. Appena abbiamo potuto siamo scappati. Adesso che sono in salvo con i bambini mi sento rinata, finalmente libera da Daesh”. Lo sguardo sprizza felicità vera, ma non tutti sono fortunati. In un pronto soccorso di prima linea incrociamo dei civili feriti da colpi di mortaio. Un’adolescente ha il polmone forato da una scheggia ed una bambina piange invocando la mamma. Fra i feriti c’è pure un barbuto insanguinato con dei pantaloni neri strappati, ma di tipo militare. I soldati iracheni lo guardano in cagnesco convinti che sia un miliziano dello Stato islamico, che si spaccia per civile.  Fausto Biloslavo   HAMAM AL ALIL - I bisonti d’acciaio color sabbia attraversano a tutta velocità la strada coperta di macerie che porta a Baghdad da Mosul ovest. L’ufficiale iracheno che ci accompagna ordina perentorio: “No video, no foto”. I soldati americani sono barricati dentro i blindati reduci da una missione in prima linea. Sui portelloni dei mezzi hanno scritto curiosi nomi di battaglia: “Mickey, Ariel, Leo”.  Topolino, la sirenetta ed il re leone, tutti personaggi dei cartoni animati di Walt Disney amati dal grande pubblico. Corpi speciali, artiglieria, razzi a guida satellitare, raid aerei sono la punta di lancia dell’intervento occidentale al fianco delle truppe irachene per liberare la “capitale” dello Stato islamico. Le unità d’élite francesi si sono fatte addirittura filmare mentre penetrano a Mosul e controllano dai tetti le postazioni delle bandiere nere. La Delta force americana da la caccia al Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, con 25 milioni di dollari di taglia sulla testa sparito chissà dove. Altri Rambo puntano i laser fra le macerie per guidare le bombe intelligenti sganciate dai caccia della coalizione alleata. Nei momenti più intensi della battaglia sono stati lanciati anche 50 raid aerei al giorno.  A Mosul sarebbero almeno 500 i soldati americani al fronte in appoggio alle truppe irachene. Una bella fetta fa parte dell’ 82° divisione avio trasportata, “Teschio e serpente”. Nella base di Hamam Alì, pochi chilometri a sud di Mosul sono almeno un centinaio i fanti dell’aria al comando del tenente colonnello John Hawbaker. La base è ricavata vicino al fiume Tigri, che taglia in due la roccaforte assediata del Califfo in una raffineria distrutta dai combattimenti.  “Siamo arrivati il 16 febbraio” spiega il sergente che di scorta simile a Gunny interpretato da Clint Eastwood. Nei campi davanti alla base sono piazzati dietro trincee di terra gli obici della batteria Charlie. Potenti cannoni semoventi, che tirano granate da 155 millimetri in grado di colpire tutta Mosul. “Abbiamo già sparato diverse centinaia di colpi” ammette il capitano Geoffrey Ross, che comanda l’artiglieria. La sua unità del 2° battaglione dell’82° divisione arriva da Fort Hood in Texas. La missione è semplice secondo il giovane ufficiale con giubbotto antiproiettile ed elmetto: “Garantire la potenza di fuoco alle truppe irachene per liberare Mosul. Li aiutiamo a sconfiggere l’Isis, un barbaro nemico”.  Un Maxx pro, i nuovi blindati anti mine degli americani, apre il portello posteriore e scende una squadra di paracadutisti rientrata da una missione. Nei momenti di pausa dei combattimenti si scherza, si ride o si parla con i familiari negli Stati Uniti via computer. Un soldato di colore tira fuori una grande A rossa per ricordarci che viene dall’Alabama. Il tenente colonnello Hawbaker, che sembra un moderno John Wayne, parla chiaro: “Le forze irachene sono forti. Lo Stato islamico è debole ed intrappolato. Non ha via di fuga. Gli iracheni vinceranno”.  Grazie all’aiuto alleato, che si è rivelato cruciale. Anche l’artiglieria francese martella le postazioni dello Stato islamico. Dall’ex base aerea di Saddam Hussein a Qayyara, 60 chilometri a sud di Mosul, gli americani hanno schierato gli elicotteri d’attacco Apache con i missili Hellfire, fuoco d’inferno. Oltre alle batterie di Himars, i razzi a guida satellitare che colpiscono l’obiettivo con estrema precisione riducendo al minimo i danni collaterali delle vittime civili. I corpi speciali italiani che assistono la divisione di reazione rapida di Baghdad hanno l’ordine di tenersi ad un minimo di 7 chilometri dalla prima linea. Dal Kuwait decollano 4 caccia italiani e due droni per individuare e filmare gli obiettivi come postazioni di mortaio, comandi e garage dove si assemblano le macchine minate. A differenza dell’Italia altri paesi come Inghilterra, Nuova Zelanda, Canada, Australia e pure Finlandia hanno dispiegato i loro reparti d’elite in prima linea, al fianco degli iracheni, nella storica battaglia che segna l’inizio della fine del Califfato. Fausto Biloslavo    ERBIL - “I cristiani in Iraq rischiano l’estinzione. Per questo vanno aiutati a tornare nei loro villaggi da poco liberati, ma distrutti dallo Stato islamico”. L’appello è di padre Thabet Mekku, 41 anni, profugo ad Erbil con il suo gregge dopo l’avanzata delle bandiere nere in Iraq nell’estate del 2014. Si è fatto ordinare sacerdote con il nome di Paolo, lo stesso del suo vescovo martire per mano jihadista nel 2008, prima della nascita delle bandiere nere. E adesso è responsabile per i caldei della diocesi di Mosul “capitale” sotto attacco del Califfo. Perché i villaggi cristiani nella piana di Ninive, liberati dall’offensiva contro lo Stato islamico, sono ancora disabitati? “La situazione di questi villaggi è miserabile. Le infrastrutture sono distrutte, le case bruciate o danneggiate. E’ impossibile viverci senza acqua ed elettricità. E per di più Mosul non è ancora stata liberata. I cristiani hanno paura e non si sentono sicuri. Per questo esitano a tornare”. Chiedete protezione per tornare a vivere nelle vostre case? “Nel 2014 le truppe irachene e pure i peshmerga curdi si sono dileguati davanti all’avanzata dell’Isis. I cristiani vorrebbero protezione da parte della comunità intrenazionale con dei caschi blu armati. In alternativa potrebbero sentirsi sicuri con una forza di sicurezza cristiana, che garantisca l’ordine nella piana di Ninive grazie ad un’amministrazione e statuto speciale. Il patriarca ha lanciato l’idea concreta di osservatori internazionali come era successo nel 1991 con il Kurdistan minacciato dal regime di Saddam Hussein”. Quante case sono distrutte? “Ciascun centro sta compilando una lista dei danni. A Karamles, uno degli storici villaggi cristiani, per esempio, il 60% degli edifici non è abitabile. Alcune case sono rase al suolo e altre solo danneggiate. Su 700 abitazioni 240 case sono state bruciate e 100 distrutte. Il problema è che tutte le abitazioni sono state saccheggiate. Quello che rimane è inutilizzabile, come se fossero passati i barbari”. Come possiamo aiutare i cristiani della piana di Ninive e di Mosul? “Ciascuna parrocchia potrebbe adottare una casa. Vogliamo cominciare a ristrutturare quelle poco danneggiate. Se una parrocchia raccogliesse 10mila euro può aiutare una famiglia cristiana a tornare nel suo villaggio”.  Quanti sono i cristiani costretti alla fuga nel nord dell’Iraq dalle bandiere nere e come vivono? “All’inizio erano oltre 120mila persone, quasi 25mila famiglie comprese quelle fuggite a Baghdad o nei paesi limitrofi. La chiesa solo ad Erbil (capoluogo del Kurdistan iracheno nda) paga  l’affitto a circa 5mila famiglie. In diversi casi tre famiglie sono costrette a dividere un appartamento. Un nucleo familiare deve vivere in una stanza di 4 metri per 4. Non è facile. Ed i prezzi dell’affitto arrivano anche a 650 dollari al mese per appartamento, che è tanto da queste parti”. Cosa vogliono veramente i cristiani? “Tanti sperano di andarsene per sempre dall’Iraq, ma molti desiderano tornare nelle proprie case se ci fosse una possibilità concreta e sicura. Il villaggio di Teleeskof, che è rimasto poco tempo nella mani dello Stato islamico, ma a lungo sulla linea del fronte si sta ripopolando. Centosettanta famiglie sono già rientrate e altre 660 sono pronte a farlo”. Quanti simboli cristiani sono stati cancellati nella piana di Ninive? “Ogni chiesa, monastero, cimitero, asilo dei bambini cristiani è stato al 90% distrutto o danneggiato. Nessun cimitero si è salvato dalla profanazione. I terroristi hanno scoperchiato le bare cercando oro o preziosi. L’abbattimento delle croci e lo sfregio di ogni immagine sacra serviva a cancellare la memoria della cristianità nella piana di Ninive”. Temete che altri possano occupare i vostri villaggi? “Questo timore esiste. Nella pianura di Ninive c’è la presenza di una minoranza di musulmani sciiti. Pensiamo che siano aiutati dal governo o dall’estero per occupare sempre più terreno. Siamo preoccupati che possano prendere possesso dei villaggi cristiani. Basta vedere i posti di blocco all’ingresso dei villaggi dove sventolano le bandiere delle milizie sciite”. Una visita del Santo padre sarebbe importante? “Per noi cristiani rappresenterebbe una “bomba” di incoraggiamento. Un gesto che infonderebbe coraggio nei nostri cuori. Qualcosa di enorme che ci aiuterebbe a resistere per non far morire la cristianità in Medio Oriente”. L’offensiva per liberare Mosul è l’inizio della fine dello Stato islamico? “Mosul era la capitale dell’Isis in Iraq. Quando verrà liberata lo Stato islamico sarà sconfitto militarmente, almeno da noi. Ma per debellare la loro ideologia ci vorranno anni”. Come sono ridotte le chiese a Mosul ovest? “Quelle già liberate nella parte Est della città sono ridotte a chiese fantasma. In alcuni casi hanno addirittura scalpellato via il marmo dal pavimento. Nella parte ovest si trovano i nostri luoghi di culto storici, che risalgono al IV secolo. Non sappiamo come siano ridotti, ma i combattimenti sono aspri e si rischia che vengano rasi al suolo dopo essere stati profanati e saccheggiati dall’Isis. Ancora prima della battaglia la chiesa di Santa Maria, nel nord ovest di Mosul, sembra sia stata spianata per fare un parcheggio”. La presenza millenaria dei cristiani in Iraq è a rischio? “Purtroppo sì. Molti cristiani scelgono di emigrare anche clandestinamente. Ai tempi di Saddam eravamo più di un milione  e mezzo e adesso siamo ridotti ad appena 300mila”.   Fausto Biloslavo  
[continua]

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06 marzo 2010 | Rai News 24 | reportage
I morti di Nassiriya
Sei anni dopo la strage non si fermano le polemiche sulla mancata sicurezza della base e sulle responsabilità dei comandanti.

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28 settembre 2015 | Terra! | reportage
Il fronte del parto
In onda su Rete 4 la puntata "Avanti c'è posto" del settimanale tv di Toni Capuozzo sull'immigrazione e le sue cause. Uno dei servizi è il mio reportage di dieci minuti sul fronte nel nord dell'Iraq fra battaglie contro le bandiere nere, tendopoli dove i profughi vogliono partire per l'Europa, paracadutisti della Folgore che addestrano i curdi ed i monuments men italiani, che proteggono il patrimonio archeologico dell'umanità.

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18 novembre 2015 | Virus Raid due | reportage
Speciale terrorismo
LE IMMAGINI DELLA BATTAGLIA DI SINJAR NEL NORD DELL'IRAQ VICINO AL CONFINE SIRIANO, CHE HA SPACCATO IN DUE IL CALIFFATO. COLLEGAMENTO SULL'INTERVENTO DI TERRA: "SPAZZARE VIA IL CALIFFATO NON E' IMPOSSIBILE, MA NON ABBIAMO GLI ATTRIBUTI E LA VOLONTA' POLITICA DI UNIRE LE FORZE"

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14 giugno 2014 | Radio24 | intervento
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L'avanzata del Califfato
Il califfato con Baghdad capitale, Corano e moschetto, mani amputate ai ladri, nemici crocefissi, tasse islamiche, donne chiuse in casa ed Occidente nel mirino con l’obiettivo di governare il mondo in nome di Allah. Questo è lo “Stato islamico dell’Iraq e della Siria” (Isis), che sta conquistando città dopo città rischiando di far esplodere il Medio Oriente.

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06 ottobre 2015 | Zapping Rai Radio 1 | intervento
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Raid italiani in Iraq?
Raid italiani le ipotesi:Paolo Magri dir.Ispi,Fausto Biloslavo corrispondente Il Giornale.

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31 ottobre 2010 | Nuova Spazio Radio | intervento
Iraq
Wikileaks dice quello che si sa già. Per tutti è un grande scoop
I rapporti Usa che smonterebbero la versione italiana di un episodio della battaglia dei ponti ad An Nassiryah e la morte accidentale di un paracadutista in Iraq sono la classica tempesta in un bicchier d’acqua. Le rivelazioni di Wikileaks sugli italiani della missione Antica Babilonia derivano dagli stessi rapporti scritti dal nostro contingente, che lungo la catena di comando arrivavano fino al quartier generale americano a Baghdad. E altro ancora.

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26 agosto 2010 | Radio Anch'io - Radio Uno | intervento
Iraq
Missione compiuta?
Il ritiro del grosso dei soldati americani lascia un paese ancora instabile, ma la missione è in parte compiuta.

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