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Fatti
23 marzo 2017 - Esteri - Iraq - Panorama
Tra i soldati italiani che riconquistano Mosul senza darlo a vedere

 

Fausto Biloslavo da Mosul

I mezzi blindati anti mine color sabbia e senza insegne sono allineati dietro un reticolato in un’anonima casa nell’entroterra di Mosul, circondata da uno spesso muro di cinta. La zona è sotto controllo della divisione di reazione rapida irachena, che sta avanzando nel cuore della «capitale» del Califfo. Un militare risponde, in inglese, che non ci sono soldati italiani. In realtà questa è la base avanzata dei nostri corpi speciali schierati sul fronte di Mosul, in appoggio alle truppe irachene, ma con il divieto di combattere in prima linea. Un pugno di incursori del 9° reggimento d’assalto paracadutisti Col Moschin, dopo aver addestrato le unità d’élite che avanzano contro le bandiere nere, ora fornisce agli iracheni informazioni di intelligence, aiuto logistico e consigli sui piani di battaglia a livello tattico.

Panorama li ha incontrati a meno di 10 chilometri dalla linea del fuoco, dove non possono andare per ordini draconiani giunti da Roma e dettati da motivi politici. Il governo italiano, con l’approvazione del Parlamento, preferisce mantenere un basso profilo nella storica battaglia che segna l’inizio della fine dello Stato islamico. Altri Paesi come gli Stati Uniti del nuovo presidente Donald Trump, la Francia, l’Inghilterra e addirittura la Nuova Zelanda e la defilata Finlandia dispiegano corpi speciali in prima linea al fianco degli iracheni, potenza di fuoco di artiglieria, caccia bombardieri, droni e perfino elicotteri da attacco.

Il generale Thamer al Husseini, baffoni alla Saddam, comanda la divisione irachena arrivata a poco meno di un chilometro dalla moschea Al Nouri nel centro storico di Mosul, dove Abu Bakr Al Baghdadi nel luglio del 2014 ha proclamato il Califfato. L’alto ufficiale ci offre l’aromatico tè iracheno spiegando che i suoi reparti d’assalto «hanno l’appoggio logistico italiano». E convoca due dei nostri militari, che sul primo momento sbiancano quando ci vedono. In mimetica da deserto senza mostrine, non possono né parlare delle operazioni, né fornire nome e grado. Si limitano a dire: «Sapevamo che eravate in zona, ma non ci aspettavamo di incontrarvi».

Il generale Thamer spiega che i corpi speciali italiani «hanno addestrato 5 mila dei miei uomini e ci danno appoggio al fronte, anche se non come fanno gli americani». I nostri due droni disarmati e i quattro caccia bombardieri, che decollano ogni giorno dal Kuwait, individuano gli obiettivi dell’Isis da colpire per favorire l’avanzata delle truppe irachene. L’aviazione ha il divieto politico di bombardare. Il lavoro sporco lo fanno gli alleati, a cominciare dagli americani. I corpi speciali schierati in Iraq provengono dal 9° Col Moschin, dagli incursori del Comsubin della Marina e dai commando del 17° stormo dell’Aeronautica. A Baghdad operano anche i carabinieri del Gruppo intervento speciale. Il contingente italiano impegnato in Iraq (circa 1.500 militari) è secondo solo agli americani come numero di uomini. Cinquecento bersaglieri della task force Praesidium garantiscono protezione alla strategica diga di Mosul a 12 chilometri dalle postazioni delle bandiere nere. I nostri militari hanno già addestrato 20 mila iracheni e curdi. «La coalizione ha il compito di sconfiggere Daesh (il Califfato nda) sottolinea il generale Francesco Maria Ceravolo, vicecomandante dell’alleanza dei 63 Paesi occidentali presenti in Iraq. Gli italiani sono principalmente impegnati nell’addestramento delle forze di sicurezza irachene e, con l’aviazione dell’esercito, per il recupero di personale isolato o disperso nel Nord dell’Irak. Anche a Mosul, se necessario». Le squadre di corpi speciali a ridosso del fronte non possono avvicinarsi alla linea del fuoco, ma forniscono «supporto a domicilio», come spiega la Difesa in linguaggio politicamente corretto. 

La punta di lancia della feroce avanzata nel quartiere di Dawasa, all’ingresso di Mosul ovest, è l’unità Scorpioni. Il capitano Abdul Wahad ci spiega sotto un fuoco d’inferno: «L’abbiamo imparato dai corpi speciali italiani: “Non date tregua al nemico. Non lasciate che si riorganizzi. Incalzatelo sempre”». Uno dei soldati iracheni di scorta al generale Thamer ci mostra orgoglioso sulla mimetica lo stemma degli incursori del Col Moschin, la daga fra fronde di quercia e di alloro. «I love Italia» dice sorridendo, probabilmente senza aver idea della valenza storica del simbolo: nella prima guerra mondiale apparteneva agli arditi e Gabriele D’Annunzio lo utilizzò per i legionari dell’impresa di Fiume. Solo alla fine del 2015 è stato «sdoganato» tornando sulle mimetiche degli incursori italiani.

Se i nostri non combattono, ci pensano gli americani a scatenare una valanga di fuoco sulle bandiere nere. La batteria Odino solleva una nuvola di sabbia, mentre lancia i suoi missili sulle postazioni dello Stato islamico a Mosul ovest. Sette razzi che schizzano verso il cielo con una lingua di fuoco e un boato pauroso dalla base americana Qwest nell’aeroporto di Qayyara, a 60 chilometri dalla «capitale» sotto assedio del Califfo. «Da dicembre abbiamo lanciato centinaia di razzi. Il margine di errore è di due metri. Il nostro appoggio di fuoco fa la differenza nella storica battaglia per liberare Mosul» afferma il tenente americano Mary Floyd. Ventiquattro anni, occhi celesti e lentiggini, la soldatessa è orgogliosa di far parte dell’unità Thor, che lancia i razzi Himars a guida satellitare. Gli americani schierati sul fronte di Mosul sono 1700. Almeno 500 in prima linea nelle cinque basi avanzate di artiglieria, dei corpi speciali e dell’82° divisione avio trasportata «Teschio e serpente». Un reparto leggendario che fu paracadutato in Normandia, e partecipò anche alla campagna d’Italia e alla battaglie delle Ardenne. Il tenente colonnello John Hawbaker, che ricorda John Wayne, non ha peli sulla lingua: «Gli iracheni vinceranno. Lo Stato islamico è debole e intrappolato. Non ha via di fuga». Sul tetto di un edificio sbrecciato dai colpi, davanti all’aeroporto raso al suolo di Mosul, osserva la battaglia. 

Tre possenti blindati color sabbia superano la strada che porta a Baghdad da Mosul Ovest, piena di macerie. L’ufficiale iracheno che ci scorta urla: «No video, no foto». I soldati americani sono barricati dentro i mezzi, reduci da una missione . Sui portelloni dei blindati hanno scritto curiosi nomi di battaglia: Mickey, Ariel, Leo. Ossia Topolino, la Sirenetta e il Re leone: tutti personaggi dei cartoni animati di Walt Disney.

La Delta force americana dà la caccia al Califfo, Abu Bakr al Baghdadi, sparito nel nulla con 25 milioni di dollari di taglia sulla testa. Gli specialisti JTac illuminano i bersagli con i laser per guidare i bombardamenti. Nella prima metà di marzo gli alleati hanno lanciato 202 attacchi aerei in Iraq, nell’area di Mosul. Ogni raid ha colpito più obiettivi, come macchine minate, centri di comando, nidi di cecchini, mortai, lanciarazzi e basi dei droni armati dell’Isis. Al fronte è impegnata anche l’artiglieria francese e i corpi speciali di Parigi si sono fatti persino filmare mentre entrano a Mosul. A combattere in prima linea sono schierati, a differenza degli italiani, anche canadesi e australiani. La differenza la fanno gli elicotteri Apache del 4° squadrone dello storico 6° cavalleria, che da gennaio hanno sferrato oltre 200 attacchi a Mosul. 

Il capitano pilota Lucas Gebhart si presenta davanti ai suoi elicotteri nella base di Qayyara con il cappello dei cavalleggeri dei tempi della guerra civile americana. «Garantiamo appoggio di fuoco agli iracheni e alle truppe della coalizione alleata che entrano in contatto con il nemico» spiega senza tanti fronzoli il giovane ufficiale. «Non dimenticherò mai questa battaglia» ammette. «Colpire le macchine minate non è facile per il tempo troppo breve di allarme della minaccia kamikaze». Gli sfollati iracheni da Mosul raccontano che le bandiere nere usano le loro case per sparare con le armi pesanti. Poi scappano prima del bombardamento che distrugge tutto. Per il capitano dei cavalleggeri dell’aria, il momento più difficile è stato «quando abbiamo ingaggiato il nemico, ma loro hanno preso un’intera famiglia usandola come scudo umano. Li ho visti quando il missile era in aria, già lanciato, ma sono riuscito a deviarlo all’ultimo momento per evitare di colpire i civili». 

 

[continua]

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