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05 maggio 2017 - Interni - Italia - Il Giornale
L’ammiraglio difende le Ong. Sentito dai dati Ieri un’altra nave “pizzicata” una acque libiche
FAUSTO BILOSLAVO e Valentina Raffa
La Guardia costiera rivendica il controllo della flotta delle Ong nel recuperare i migranti. Ed il suo comandante, ammiraglio Vincenzo Melone spiega davanti alla Commissione Difesa che le operazioni di soccorso dei barconi si sono estese «dai 500mila chilometri quadrati di competenza italiana ad un milione e centomila, praticamente metà del Mediterraneo». Il motivo è che la Libia non ha mai dichiarato la sua area di soccorso e con il caos post Gheddafi sarebbe incapace di farlo. E così ci becchiamo noi tutti i migranti. L\'alto ufficiale ribadisce «che le unità navali a nostra disposizione non ce la fanno e dunque dobbiamo chiamare a raccolta chiunque navighi in vicinanza di un evento Sar (ricerca e soccorso), mercantili e navi delle Ong».
La rappresentante di Moas, una delle organizzazioni sotto accusa, sempre in Commissione difesa, dichiara addirittura che l\'«unica eccezione per entrare in acque territoriali libiche è quando viene esplicitamente richiesto da Roma».
E ieri la nave Aquarius di Msf e Sos Mediterranee si trovava un quarto di miglio dentro le acque libiche.
L\'ammiraglio Melone ha difeso a spada tratta le Ong ribadendo che non costituiscono un fattore di attrazione per i trafficanti. Peccato che una serie di dati, grafici e tabelle del rapporto 2016 preparato proprio dal suo comando dimostrino, di fatto, il contrario. Lo scorso anno le navi delle Organizzazioni non governative battono le altre flotte, mercantili e militari, raccogliendo in mare 46.796 migranti, tutti sbarcati in Italia. L\'esplosione degli interventi delle Ong è evidente dal numero di migranti soccorsi nel 2014, appena 1450.
Il numero di interventi di soccorso nel 2016 coordinato dal Centro nazionale di coordinamento di Roma si è impennato, grazie alla mobilitazione delle Ong, con un aumento del 52% rispetto all\'anno prima.
A pagina 9 del rapporto è stato pubblicato un grafico che dimostra come dal 2014 si sia invertito il ruolo fra mercantili e navi delle Ong nel soccorso ai barconi. Gli armatori da tempo si lamentavano dei costi dei salvataggi che significano cambi di rotta e ritardi.
Un\'altra leggenda buonista smentita dai dati riguarda la diminuzione dei decessi in mare grazie alla mobilitazione delle Ong. L\'aumento dei barconi e degli arrivi dal 2015 al 2016 nel Mediterraneo centrale corrisponde, secondo i dati della guardia costiera, ad un aumento delle perdite del 23% da 2913 a 4215 morti. Un\'altra beffa dimostrata è la scomparsa dei veri profughi di guerra, i siriani, dagli arrivi dalla Libia fra le prime sei nazionalità dei migranti. Nel 2016 i primi sono i nigeriani seguiti da eritrei e dai migranti economici della Guinea, della Costa d\'Avorio e del Gambia.
Alle pagine 18 e 19 le cartine con l\'indicazione della posizione delle flotte di recupero dei migranti mostrano chiaramente come i soccorsi si siano avvicinati sempre più alle coste libiche grazie alle navi delle Ong.
Proprio ieri si è registrato l\'ennesimo «sconfinamento». Alle 14.10 nave Aquarius di Sos Mediterranèe/Msf si trovava un quarto di miglio all\'interno delle acque libiche. Dal comando della Guardia costiera di Roma hanno risposto che c\'era attività in mare senza confermare se stava avvenendo in acque territoriali di un altro paese. Su «misteri» del genere indaga la procura di Catania, che ha aperto un\'indagine conoscitiva sull\'attività delle Ong ed i loro finanziamenti. Al vaglio del procuratore capo, Carmelo Zuccaro, c\'è anche lo spegnimento dei trasponder da parte di alcune navi e le comunicazioni via radio che sarebbero state intercettate tra i trafficanti di vite umane ed una Ong. Oltre alla verifica dell\'eventuale avvicinamento di alcune navi umanitarie alle coste libiche per fare da calamita ai barconi dei migranti.
[continua]

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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05 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
Islam, matrimoni forzati e padri assassini
Nosheen, la ragazza pachi­stana, in coma dopo le spranga­te del fratello, non voleva spo­sarsi con un cugino in Pakistan. Il matrimonio forzato era stato imposto dal padre, che ha ucci­so a colpi di mattone la madre della giovane di 20 anni schiera­ta a fianco della figlia. Se Noshe­e­n avesse chinato la testa il mari­to, scelto nella cerchia familia­re, avrebbe ottenuto il via libera per emigrare legalmente in Ita­lia. La piaga dei matrimoni com­binati nasconde anche questo. E altro: tranelli per rimandare nella patria d’origine le adole­scenti dove le nozze sono già pronte a loro insaputa; e il busi­ness della dote con spose che vengono quantificate in oro o migliaia di euro. Non capita solo nelle comuni­tà musulmane come quelle pa­chistana, marocchina o egizia­na, ma pure per gli indiani e i rom, che sono un mondo a par­te.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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