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Reportage
27 luglio 2017 - Esteri - Siria - Panorama
Raqqa 2017 come Berlino 1945
MOSUL e RAQQA - Il soldato iracheno tiene giù la testa con il dito sul grilletto della mitragliatrice appoggiata sulle macerie della città vecchia di Mosul. Si avanza sui resti dei tetti, che non esistono più, cancellati dai bombardamenti aerei alleati. L’unità d’assalto impegnata nella battaglia finale scattata all’alba del 6 luglio, che tre giorni dopo ha liberato la “capitale” del Califfato in Iraq, è appiattita fra i ruderi, mentre sibilano i proiettili dei cecchini jihadisti. Le granate d’artiglieria fischiano sopra le nostre teste, con un fruscio che ti fa venire i brividi, per esplodere sulle postazioni delle bandiere nere poco più avanti. Oltre la breccia in prima linea si apre un paesaggio lunare, di morte e distruzione, come a Berlino nel 1945. Le SS del Califfo combattono fino all’ultimo proiettile e poi si fanno saltare in aria piuttosto che arrendersi. In una calura soffocante le macerie sono disseminate di brandelli di carne e sangue dei seguaci delle bandiere nere.
Dall’orrore del fronte di Mosul all’attacco mortale su Raqqa, la prima e leggendaria “capitale” dello Stato islamico in Siria, Panorama è in prima linea per raccontare la fine del Califfato.
Cartoline dall’inferno attraverso le fotografie di Gabriele Micalizzi, che fissano paura, dolore, sangue, sudore e coraggio di battaglie che resteranno sui libri di storia.
Nel nord est della Siria le Forze democratiche appoggiate dagli Usa e dominate dai curdi dello Ypg (Unità di difesa popolare), che i turchi vedono come fumo negli occhi, hanno cinto d’assedio Raqqa. Da sud le forze governative siriane con la copertura aerea russa avanzano verso l’Eufrate per riconquistare quello che resta del territorio in mano allo Stato islamico.
Il comandante Lawand Khabat barbetta e cappellino da baseball, urla gli ordini alla radio nel dedalo mortale del fronte orientale di Raqqa. Ragazzini curdi in mimetica e giovani donne in armi delle Forze democratiche siriane scattano sul tetto piatto della casa sbrecciata dai colpi. Nel parapetto hanno aperto a colpi di mazza dei buchi dove infilare fucili di precisione e mitragliatrici. Takuschin, una ragazza curda di 22 anni con il viso acqua e sapone ed i capelli corvini raccolti in una coda spara con il kalashnikov verso le postazioni dello Stato islamico. Ad ogni colpo il rinculo la fa sobbalzare, ma continua a prendere la mira con determinazione e a tirare il grilletto.  Azadi, che significa “libertà” è la sua compagna di lotta araba con il volto rotondo da bambina. Non ha dubbi: “Sono nata a Raqqa. Daesh (lo Stato islamico nda) ci ha costretto alla fuga. Voglio liberare la città per far tornare a casa la mia famiglia”.
Il comandante ci porta più in là avanzando in una città fantasma. “Attenti a non camminare troppo vicini ai bordi della strada e seguite le nostre orme. Ci potrebbero essere trappole minate. E correte agli incroci che sono nel mirino dei cecchini” ordina Khabat, come se fosse assolutamente normale. Le case sono abbandonate e ridotte ad un groviera dalle raffiche di mitraglia. Macchine e autobus, accartocciati e anneriti dalle fiamme, sono stati travolti dall’avanzata. A 47 gradi con giubbotto antiproiettile ed elmetto vai avanti in un bagno di sudore. Niente rispetto al lezzo dolciastro della morte che ogni tanto si mescola alla polvere e ti penetra nelle narici. L’odore terribile segnala i cadaveri abbandonati o sepolti dalle macerie.
L’ingresso della postazione avanzata è barricata da sacchetti di sabbia. I combattenti curdi all’interno mostrano orgogliosi una bomba rudimentale, con bulloni attorno al tritolo e miccia, stile prima guerra mondiale, che lanciano negli scontri ravvicinati casa per casa. L’antico muro di Raqqa, alto e giallognolo, linea del Piave jihadista, è a soli 120 metri. I caccia alleati hanno aperto delle brecce e la battaglia per penetrare nella città vecchia è appena iniziata. “E’ stato un inferno. I civili vengono usati come scudi umani, ma siamo riusciti ad entrare in una palazzina di quattro piani conquistando i primi due. Sopra di noi c’erano le bandiere nere, che ci hanno investito con una valanga di fuoco. Dopo ore di battaglia abbiamo dovuto ripiegare” racconta Kara. Combattente curdo di 21 anni con la spalla fracassata è arrivato con alti due feriti sul retro scoperto di un fuoristrada, a tutta velocità. Si lamenta per il dolore al posto di primo soccorso a ridosso del fronte ricavato in un negozio abbandonato. Il volto tirato, la mimetica inzuppata di sudore e polvere, lo sguardo spento da trincea ti fanno capire quanto dura deve essere stata la battaglia.
Il minareto Al Nour sfregiato dai proiettili, appena al di là del muro, è ancora intatto e segna la prima linea delle bandiere nere. Lo scorso anno vicino a questa moschea una giovane jihadista italiana, colpevole di rapporti extra coniugali, è stata lapidata. “L’ho conosciuta nella “casa nera” per le donne straniere dello Stato islamico. La polizia religiosa l’ha sorpresa a casa di un giovane del posto, ma non stavano facendo nulla. E’ stata convinta a confessare promettendo che l’avrebbero perdonata. Lei l’ha fatto  ammettendo i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio ed è stata ammazzata a colpi di pietra” rivela Nour, una giovanissima moglie libanese dell’Isis con il volto da ragazzina incorniciato dal velo nero dalla testa ai piedi. Assieme ad altre sei consorti dei mujhaheddin stranieri di Raqqa, compresa un’indonesiana ed una cecena, è segregata nel campo profughi di Ein Hissa. Non conosce il vero nome dell’italiana lapidata, ma sottolinea che era molto giovane. Solo due ragazzine sono partite dal nostro paese attorno ai 18 anni, entrambi dal Veneto. Sonia Khediri di Treviso ha sposato l’emiro  Abu Hamza, il numero due delle difese a Raqqa ed è ancora viva più ad est nella nuova “capitale” dello Stato islamico ad Al Mayadeen dove si sono spsostati i vertici delle bandiere nere. L’altra jihadista ragazzina è “sorella Rim”, Meriem Rehaily, di Padova. Di lei non si hanno notizie certe, ma gli inquirenti sospettano che sia morta.
Sul fronte occidentale di Raqqa cinta d’assedio le strade polverose in mezzo alle case basse e devastate nascondono l’orrore. Il corpo di un miliziano dello Stato islamico dal volto scarnificato rivolto verso il cielo è abbandonato con indosso le giberne delle munizioni ancora intatte. In mezzo alla strada, da un piccolo cumulo di sabbia spunta la mano rattrappita di un altro cadavere jihadista fatto a pezzi da un colpo di mortaio. Ad un centinaio di metri, oltre le linee curde, sventola la bandiera nera vicino all’ “università” dello Stato islamico che veniva utilizzata come poligono. Terra di nessuno e zeppa di mine. Se i curdi cercano di avvicinarsi per tirare giù la bandiera nera vengono bersagliati dai cecchini jihadisti.
Nella casa diroccata utilizzata come trincea incontriamo due volontari italiani, che combattono da otto mesi nell’offensiva per la liberazione di Raqqa. Al posto dei nomi veri si presentano con quelli di battaglia curdi. Botan, il più giovane sui 30 anni, ha fatto il volontario con la protezione civile in un recente terremoto in Italia. Non ha detto alla famiglia che si arruolava nel nord est della Siria con il Ypg, le Unità di difesa popolare curde. “Contro le bandiere nere e per i diritti del popolo curdo non c’è altra scelta che imbracciare le armi” spiega l’italiano, che indossa un mefisto color sabbia per non farsi riconoscere. Cekdar Agir, suo compagno d’avventura, ha 42 anni ed è un anarchico di Torino condannato per le violenze No Tav. Baffoni biondi e occhi azzurri perlustra, assieme ai miliziani ragazzini, le case abbandonate sul fronte occidentale di Raqqa con mitragliatrice pesante e nastro di proiettili. “Mi sono arruolato nella rivoluzione curda e combatto contro il fascismo delle bandiere nere” dichiara l’anarchico torinese. La dozzina di volontari italiani che hanno imbracciato le armi nel nord est della Siria sono in gran parte di sinistra. L’aspetto curioso è che il No Tav combatte al fianco di ex legionari francesi o marines (il 50% dei volontari stranieri), che si sono arruolati per vendicare gli attentati dei terroristi islamici in Occidente.
Uno degli italiani del manipolo di volontari è stato ferito ad un braccio da un proiettile e pure Botan ha rischiato grosso: “Dopo un’esplosione ho spostato un mezzo ed un cecchino ha centrato il parabrezza da 700 metri. Pochi centimetri più in là e sarei morto”.
Il tonfo dei colpi di mortaio in uscita diventa quasi un’abitudine. Gli americani sono annidati a ridosso del fronte in postazioni off limits ai giornalisti da dove garantiscono la copertura d’artiglieria all’assedio di Raqqa. Dal cielo i caccia a stelle e strisce piombano come falchi sugli obiettivi delle bandiere nere. Le bombe da 500 chili esplodono con un fragoroso boato sollevando una nuvola di fumo grigio o rossastro. Senza l’appoggio aereo americano sarebbe impossibile conquistare la “capitale” dello Stato islamico. Ogni tanto incrociamo fuoristrada camuffati con il color sabbia del deserto, i finestrini oscurati e antenne satellitari sul tetto dei corpi speciali Usa, che intervengono sui fronti più ostici e danno la caccia ai vertici del Califfato. Sopra le nostre teste abbiamo visto i velivoli Osprey, una via di mezzo fra aereo ed elicottero, che trasportano le unità scelte dei marines e la Delta force. A Kobane, a ridosso del confine turco, gli americani, che nel nord est della Siria sarebbero un migliaio hanno messo in piedi una base con tanto di pista di atterraggio.
Le donne più coraggiose della battaglia di Raqqa sono 15 yazide arrivate da Sinjar, la città occupata dalle bandiere nere nella loro fulminea avanzata in Iraq del 2014. Il loro popolo è stato massacrato dai seguaci del Califfo, che bollano gli yazidi come “adoratori del diavolo”. Cinquemila yazide, anche minorenni, sono state rapite, stuprate e vendute come schiave del sesso fra i mujaheddin dello Stato islamico. “Vogliamo liberare le nostre sorelle ed i bambini ancora in mano ai terroristi. Per questo siamo in prima linea nella storica battaglia di Raqqa” spiega Daniz Shangal comandante dell’unità di amazzoni yazide. Tutte in mimetica, kalashnikov e rigorosamente senza velo ostentano i lunghi capelli scuri allineate dietro un camion cisterna saltato in aria. Shangal, poco più che ventenne, è già una veterana con i capelli corvini raccolti in una treccia. Ti guarda dritto negli occhi quando spiega che “il nostro popolo ha subito un genocidio” ed i miliziani dello Stato islamico “sono dei mostri. Per questo non mi farei mai prendere viva”.
Anche i cristiani vogliono regolare i conti con il Califfato e sono schierati in prima linea a Raqqa con le Forze democratiche siriane. Un chilometro oltre la loro postazione si notano gli alti pali dell’illuminazione dello stadio dove i seguaci del Califfo eseguivano le decapitazioni in pubblico. “I cristiani sono stati massacrati o rapiti e le chiese distrutte. Per questo combattiamo” dichiara Abud, il comandante sbarbatello di un reparto assiro. Nel bunker ricavato su un tetto le pareti sono piene di slogan e hanno disegnato pure un teschio consapevoli di sfidare ogni giorno la morte. “A Raqqa c’erano due chiese profanate da Daesh (il Califfato nda) - sottolinea il comandante ragazzino - Ed in città vivono ancora dei cristiani costretti a convertirsi all’Islam. Li libereremo”. Un omaccione alla Rambo piazza la mitragliatrice puntata sulle bandiere nere ed un giovane combattente mostra con orgoglio la croce tatuata sul braccio.
Da via Talabya, nel centro di Raqqa, è appena scappato Mohammed ferito alle braccia dai proiettili dell’Isis. Tunica araba lacera e sporca non vuole farsi riprendere per timore di rappresaglie. La sua famiglia è rimasta nei quartieri controllati dalle bandiere nere. “Sono scappato attraverso i tunnel scavati sotto la città vecchia - racconta  il sopravissuto - Quando mi hanno visto hanno cominciato a sparare, ma sono corso verso le linee curde sventolando la bandiera bianca”. Il nocciolo duro dell’ultima difesa di Raqqa, come le SS a Berlino, è composto da combattenti ceceni ed estremisti islamici cinesi. Mohammed che si è salvato per miracolo non ha dubbi: “Continuano a dire che vinceranno, ma lo Stato islamico è finito”.
Fausto Biloslavo

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12 settembre 2013 | Tg5 | reportage
Maaalula: i tank governativi che martellano i ribelli
Il nostro inviato in Siria, Fausto Biloslavo, torna nel mezzo dei combattimenti fra le cannonate dei carri armati

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12 settembre 2013 | Tg5 | reportage
Diario di guerra ia Damasco
Tadamon la prima linea a 500 metri dai vicoli dove i bambini giocano a pallone.

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10 settembre 2013 | Tg5 | reportage
L'inferno di Jobar alle porte di Damasco
Alle porte della capitale siriana il nostro inviato racconta il sobborgo ridotto a un cumulo di macerie, nella zona dove sono state usate le armi chimiche.

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02 dicembre 2015 | Radio uno Tra poco in edicola | intervento
Siria
Tensione fra Turchia e Russia
In collegamento con Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. In studio conduce Stefano Mensurati.

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23 gennaio 2014 | Radio Città Futura | intervento
Siria
La guerra continua


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02 luglio 2015 | Radio24 | intervento
Siria
La famiglia jihadista
"Cosa gradita per i fedeli!!! Dio è grande! Due dei mujaheddin hanno assassinato i fumettisti, quelli che hanno offeso il Profeta dell'Islam, in Francia. Preghiamo Dio di salvarli”. E’ uno dei messaggi intercettati sulla strage di Charlie Hebdo scritto da Maria Giulia Sergio arruolata in Siria nel Califfato. Da ieri, la prima Lady Jihad italiana, è ricercata per il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale. La procura di Milano ha richiesto dieci mandati di cattura per sgominare una cellula “familiare” dello Stato islamico sotto indagine da ottobre, come ha scritto ieri il Giornale, quando Maria Giulia è arrivata in Siria. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ha spiegato, che si tratta della “prima indagine sullo Stato Islamico in Italia, tra le prime in Europa”.

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