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Scenari mondo
13 settembre 2018 - Esteri - Libro - Panorama
Che cosa ho capito delle guerre guardandole da vicino

La guerra è sempre brutta, sporca e cattiva, ma pure lo specchio della lotta fra il male e il bene, l’amore e l’odio, la paura e il coraggio, la follia e la ragione, la vita e la morte. Per questo ho scritto con Gian Micalessin, fraterno amico e compagno d’avventure un libro su 35 anni di reportage in prima linea, che non lascia dubbi fin dal titolo: Guerra guerra guerra

Ma che cosa ho veramente capito o imparato dai tanti conflitti vissuti e raccontati anche per Panorama? La guerra mi ha aperto gli occhi. All’inizio, quando partivo per l’Afghanistan invaso dai sovietici cantando «Vita spericolata» di Vasco Rossi, pensavo che il mondo fosse in bianco e nero, diviso fra bene e male. Non era così: dalla giungla delle Filippine con i guerriglieri maoisti al carnaio dell’ex Jugoslavia mi sono reso conto che i conflitti hanno mille sfaccettature di grigio. E soprattutto che buoni e cattivi non sono sempre separati con l’accetta, ma spesso mescolati su tutti i fronti o etichettati con troppa faciloneria dal pensiero dominante e dalla propaganda del momento. I serbi in Bosnia furono gli unici cattivi? I ribelli che hanno abbattuto Gheddafi erano tutti buoni? In Siria chi sono i buoni ed i cattivi?

Non dimenticherò mai il soldatino che in Libano nel 1982 mi sbatté contro un muro per fucilarmi, gli spruzzi rossi dei traccianti davanti ai miei piedi durante una disperata fuga da un’imboscata in Kosovo, i resti del kamikaze che mi erano piombati in testa nella battaglia di Sirte e tanti altri, drammatici, momenti di guerra. Dai conflitti (esotici, dimenticati o alle porte di casa) non so stare lontano, perché i reportage in prima linea non sono solo un mestiere. Sono la mia vita e la mia dannata, maledetta passione.

A 25 anni le collinette di cadaveri disseminate nella savana dell’Uganda mi fecero capire che ogni giornalista di guerra si trova, prima o dopo, davanti a una sottile linea rossa. O scappi e torni a casa per cercare un posto fisso e tranquillo, oppure ti accendi un cigarillo per sopportare il lezzo dolciastro della morte e ti fai amico l’orrore. Tiri fuori il bloc notes e inizi a fotografare la mattanza dei pazzi falciati mentre avanzavano cantando «Siamo immortali». Si erano spalmati il corpo con un olio magico che avrebbe dovuto fermare le pallottole.  

In guerra incontri i boia e gli eroi. Gli squadroni della morte con gli occhi iniettati di sangue in Ruanda, che facevano a pezzi le vittime del genocidio a colpi di machete. Per poi seppellirle con i bulldozer, ancora vive, in gigantesche fosse comuni. Gamba e braccia spuntavano dalla terra smossa addentate dalle fiere attratte dalla carne fresca. L’eroe è il papà di Sarajevo, che correva a zig zag fra colpi di mortaio e cecchini per trovare un po’ di latte per il figlio neonato, chiuso in cantina con la madre per sopravvivere alle bombe.

La guerra non è solo il sibilare delle pallottole, l’ondata di calore di una granata di mortaio che ti scoppia vicino o le urla forsennate di un assalto alla baionetta, ma anche l’amicizia, l’amore, i colpi di fortuna, la fede e la gioia di chi è sopravissuto. Il campo di battaglia lo riconosci pure dagli olezzi cruenti: il sudore dei combattenti che si mescola al tuo, il disinfettante degli ospedali da campo, l’urina e le carni squarciate o bruciate. L’odore della morte è inconfondibile, dolce e pungente. In Angola, durante la guerra civile si sentiva a distanza, trasportato dal vento. E gli avvoltoi che volavano in circolo erano la bussola per trovare i cadaveri. 

Guerra dopo guerra mi sono reso conto che la verità è la prima vittima dei conflitti. Nel nostro libro, Gian racconta la favoletta dei massacri del regime durante la «rivoluzione» in Romania e della caduta del dittatore Ceausescu ordita dai suoi servizi segreti. Peccato che nessuno gli credesse davanti alle immagini fake dei cadaveri spacciate per prove. In Iraq nel 2003 un sergente di una delle colonne dell’invasione Usa si era scritto sull’elmetto: «11 settembre, Dio perdona, io no». Saddam Hussein non aveva nulla a che fare con l’attacco di Bin Laden all’America, ma il sergente che faceva il vigile del fuoco a New York s’era arruolato per vendetta dopo aver visto crollare le Torri gemelle. 

La Verità forse non è alla portata di un giornalista. Per narrare la guerra con un minimo di onestà ho imparato a limitarmi a «piccole» storie che ho vissuto in prima persona, spacciandomi per profugo kosovaro durante i bombardamenti Nato contro i serbi o avanzando fra le macerie di Mosul al seguito dei soldati iracheni nella battaglia finale per liberare la «capitale» del Califfato. «Piccole» storie che magari riescono a riflettere la grande storia di una guerra. 

Dagli anni Ottanta la compagna invisibile di ogni reportage è la paura. Rambo esiste solo al cinema. Paura di saltare in aria su una mina, di venir colpito da un cecchino o da una scheggia di mortaio... L’importante è controllarla, senza scordare che un pezzo non vale la vita, che bisogna sempre tornare a casa, dove ti aspettano la tua famiglia e il tuo mondo. La vita non ha prezzo, come ho provato nei sette mesi di carcere in Afghanistan catturato dai russi durante un reportage con i mujaheddin o andando a liberare per Panorama il fotografo Mauro Galligani, ostaggio in Cecenia. Purtroppo tanti, troppi amici, meno fortunati, sono caduti sul fronte dell’informazione. Ad Almerigo, Ilaria, Maria Grazia e Raffaele uccisi per raccontare le guerre è dedicato il nostro libro. In ogni reportage Gian ed io sentiamo di averli non solo nel cuore, ma al nostro fianco.  

Mia moglie dice che è ora di appendere il giubbotto antiproiettile al chiodo, ma io non ci riesco. In fondo la guerra mi ha insegnato qualcosa di fondamentale. Ogni volta che torno a casa da un conflitto prendo il treno, che passa lungo la costiera con le rocce carsiche a picco sul mare. E, guardando dal finestrino lo splendido panorama del Golfo di Trieste, mi rendo conto di quanto siamo dannatamente fortunati a vivere in pace.