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29 marzo 2017 | Matrix | reportage

La battaglia di Mosul

MOSUL - Il razzo Rpg arriva all’improvviso, con un sibilo mortale, tracciando nell’aria una scia rossa. Per fortuna schizza sopra le nostre teste e va a schiantarsi in mezzo alla strada ad una settantina di metri con un boato fragoroso. Le bandiere nere stanno perdendo la madre di tutte le battaglie, ma non mollano. Mosul brucia con alte colonne di fumo nero che si alzano all’orizzonte su tutta la parte occidentale della città, dove le truppe irachene avanzano da domenica in una brutale battaglia. Nel girone dantesco della Stalingrado del Califfo raggiungere la prima linea è un’impresa ardita. Le truppe d’assalto hanno superato la grande arteria che porta a Baghdad e taglia Mosul ovest. Un fuoco d’inferno ci accoglie ed un colpo di mortaio piomba maledettamente vicino. La granata è esplosa dall’altra parte del muro dove tiravamo il fiato assieme alla polizia irachena. Se fossimo stati in campo aperto eravamo tutti morti. Un blindato protegge i giornalisti con la sua corazza avanzando lentamente per farci passare la strada verso Baghdad. Gli elicotteri martellano dal cielo le postazioni dello Stato islamico con una scarica micidiale di razzi. Nonostante la valanga di fuoco che li investe i miliziani jihadisti combattono metro per metro. In una casa usata come base quattro cadaveri dei seguaci del Califfo sono mezzi bruciacchiati. “I corpi speciali italiani, che ci hanno addestrato ripetevano sempre: “Quando attaccate non date tregua al nemico. Non lasciate che si riorganizzino. E’ quello che stiamo facendo” spiega orgoglioso il capitano Abdul Wahad. La sua unità, gli Scorpioni, è un reparto d’elite della divisione di reazione rapida, che sostiene il grosso dell’offensiva nel quartiere di Dawasa. I corpi speciali italiani hanno addestrato 5mila uomini della divisione secondo il comandante, generale Thamer al Husseini. L’alto ufficiale spiega che l’unità d’assalto “ha l’appoggio logistico italiano”. In pratica droni e intelligence garantiti da una modesta presenza di corpi speciali italiani. I nostri, però, hanno l’ordine tassativo da Roma di stare lontani dal fronte, almeno 7 chilometri. Diversi soldati iracheni addestrati dagli italiani portano sulla giubba lo stemma degli incursori del 9° reggimento Col Moschin. E quando ti incontrano dicono subito: “I love Italy”. A Mosul ovest i razzi iracheni fendono l’aria come una fiammata con una parabola che va a finire sulle teste dei combattenti jihadisti esplodendo in nuvole di fumo nero. I blindati sparano con mitragliatrici e cannoncini per coprire l’avanzata degli Scorpioni, i Rambo iracheni. In certi momenti non si sente niente per il crepitare furioso delle mitragliatrici. I proiettili delle bandiere nere li riconosci dal sibilo troppo vicino. Un’esplosione più forte delle altre fa tremare l’aria. La nuvola enorme di fumo bianco si alza verso il cielo un isolato più in là. E tutti gridano “machina minata, macchina minata”. Un drone, un caccia o un elicottero hanno individuato il kamikaze che stava arrivando verso le linee irachene al volante del “mostro” d’acciaio imbottito di tritolo facendolo saltare in aria. Nella strada parallela alle nostre spalle un altro suicida del Califfo è stato centrato alla testa prima di immolarsi per Allah. Il corpo giace ad un passo dalla macchina corazzata artigianalmente e ancora zeppa di esplosivo. L’obiettivo dell’avanzata sul fronte centrale è la sede del governatore di Mosul trasformata in centro di comando e controllo dello Stato islamico. Nella notte fra lunedì e martedì i corpi speciali iracheni l’hanno preso d’assalto. Il giorno dopo si combatte ancora, ma la palazzina bucherellata di colpi è praticamente caduta. L’obiettivo ha una grande importanza simbolica e strategica. Anche il museo archeologico distrutto dalla furia iconoclasta dello Stato islamico è stato liberato. Pure dalla chiesa di Santa Maria del perpetuo soccorso le bandiere nere si sono ritirate davanti alla travolgente avanzata irachena. Attorno al palazzo del governatore sono ancora annidati i cecchini jihadisti. I tiratori scelti dei corpi speciali li danno la caccia piazzati dietro le finestre della corte talebana del Califfato. Ogni colpo ci fa scoppiare i timpani. Lungo la strada un soldato iracheno ci mostra le piccole, ma micidiali granate, che le bandiere nere sganciano dai droni usati a centinaia per cercare di fermare l’avanzata. Una casa utilizzata come base dagli artificieri che preparano le macchine minate è una trappola. Fili quasi invisibili sono collegati a proiettili d’artiglieria e mortaio. Se non li vedi sei morto. In mezzo alla strada verso il palazzo del governatore una bomba d’aereo ha provocato un enorme cratere inghiottendo asfalto e automobili ridotte a lamiere contorte e carbonizzate. Poco più avanti un civile barbuto spunta dall’uscio di casa bucherellato dalle schegge. “Per 10 giorni con 22 familiari siamo rimasti tappati in cantina fino alla liberazione poche ore fa”. Abu Mohammed racconta che i miliziani jihadisti controllavano la lunghezza della barba, almeno un palmo di mano. “Fra gli stranieri di Daesh (Stato islamico nda) ho visto anche occidentali, europei con gli occhi azzurri ed i capelli biondi” spiega il sopravissuto. La moschea Al Nuri, dove Abu Bakr al Baghdadi ha proclamato il Califfato nell’estate 2014, è a soli 2 chilometri dal fronte dell’avanzata delle truppe irachene. www.gliocchidellaguerra.it


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