image
Articolo
17 ottobre 2019 - Prima - Italia - Il Giornale
“Qui i fascisti non entrano” Cacciato il nostro giornalista
A Trento si aggirano gli spettri degli anni di piombo, quando alla facoltà di sociologia studiava Renato Curcio e all\\\\\\\'orizzonte si profilava il terrore delle Brigate rosse. Non mi hanno sparato, per fortuna, com\\\\\\\'è (...)
(...) capitato al fondatore di questo giornale, Indro Montanelli, ma forse il vulnus brucia ancora di più. Un gruppo di facinorosi di estrema sinistra è riuscito a impedire che prendessi la parola alla facoltà di sociologia. Da giorni facevano cagnara e hanno appeso uno striscione all\\\\\\\'ingresso con lo slogan «fuori i fascisti dall\\\\\\\'università». La firma è del Cur, Collettivo Universitario Refresh, che ieri ha postato tranquillamente su Facebook una frase di Ulrike Meinhof, eroina della Raf, i terroristi tedeschi durante la guerra fredda. La mia colpa? Essere un uomo «nero» come dimostrerebbe la militanza nel Fronte della gioventù di Trieste, 40 anni fa, quando portavo i calzoni corti, fino agli articoli sul Giornale.
L\\\\\\\'aspetto più grave è che la stessa università ha deciso di piegarsi alla violenta minoranza trovando un cavillo formale e vietando l\\\\\\\'accesso all\\\\\\\'Aula Kessler del Dipartimento di sociologia. Ovviamente all\\\\\\\'ultimo minuto mentre stavo arrivando in treno dopo ore di viaggio. L\\\\\\\'aspetto tragicomico è che a invitarmi era stato un gruppo studentesco di centrosinistra, che voleva parlare della crisi in Libia. E proprio loro sono stati «incolpati» di non avere compilato correttamente le carte. Alla fine un funzionario dell\\\\\\\'università che neppure si è fatto vedere, mi ha confermato al telefono, un\\\\\\\'ora prima della conferenza, che era saltata. Nonostante i costernati ragazzi che mi avevano invitato fossero nati ben dopo il crollo del muro di Berlino mi sembrava di non essere più nel 2019 in un paese libero, ma di avere fatto un salto nel tempo tornando al buio e alle prevaricazioni degli anni settanta.
A sociologia non sono neppure potuto entrare perché giravano picchetti di balordi giunti anche da fuori. La Celere e la Digos schierate poco lontano non erano in grado di fare nulla di fronte al calabraghismo dell\\\\\\\'università, che si era piegata ai nipotini di Curcio e compagni.
Nel delirante volantino che hanno fatto circolare ero tacciato come fascista con allusioni false e tendenziose alla strage di Bologna. Per non parlare delle bugie sulla collaborazione con la casa editrici Altaforte, che in ogni caso non costituirebbe un reato. Un altro grave indizio di fascismo è avere presentato un fumetto dedicato a Norma Cossetto, la martire istriana delle foibe, decorata alla memoria dal presidente Ciampi con la medaglia d\\\\\\\'oro al valor civile. Il filo centrale della trama nera è scrivere sul Giornale articoli critici sulle ong. Alla fine del volantino hanno pubblicato la mia faccia doverosamente a testa in giù con questa frase: «Biloslavo non deve entrare in università». E così è stato.
Per sgombrare il campo da qualsiasi dubbio sul fascismo penso che sia morto e sepolto nel 1945 con Mussolini a piazzale Loreto. Nato nel 1961 guardo sempre avanti e mai indietro, punto e basta.
L\\\\\\\'amico triestino, Maurizio Manzin, professore ordinario di filosofia del diritto nella vicina facoltà di giurisprudenza, mi ha offerto coraggiosa ospitalità nell\\\\\\\'aula dove svolgeva la sua lezione. Si è parlato di giornalismo di guerra e libertà d\\\\\\\'espressione, che sociologia non ha saputo garantire.
L\\\\\\\'unico conforto di una giornata da anni di piombo è stata la mail arrivata dal Rettore dell\\\\\\\'università di Trento mentre rientravo a casa in treno. Paolo Collini, che era all\\\\\\\'estero, è mortificato da quanto accaduto e ha parlato di pignoleria dei funzionari. Senza peli sulla lingua ha ammesso che a sociologia ci sono degli studenti e pure personaggi estranei all\\\\\\\'Ateneo, che vivono nella nostalgia di una stagione che non esiste più. Il Rettore ha ribadito che l\\\\\\\'università rimane un luogo aperto e libero, anche se al sottoscritto questa libertà è stata negata. E mi ha invitato a tornare a Trento per la conferenza vietata dagli estremisti di sinistra. Accetto volentieri a patto che si tenga a sociologia nell\\\\\\\'aula negata dall\\\\\\\'Ateneo per timore dei violenti.
Di tutta questa storia rimane la profonda amarezza per un Dipartimento universitario, che dovrebbe essere tempio del sapere e della tolleranza, ma per quieto vivere o semplice pavidità si è piegato agli intolleranti. E soprattutto non è stato in grado di difendere fin dall\\\\\\\'inizio, a spada tratta, la libertà di parola. 
[continua]

video
24 novembre 2015 | Rai 1 Storie vere | reportage
Terrorismo in Europa
Dopo gli attacchi di Parigi cosa dobbiamo fare per estirpare la minaccia in Siria, Iraq e a casa nostra

play
07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

play
18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

play
[altri video]
radio

03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


play

[altri collegamenti radio]




fotografie







[altre foto]