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09 febbraio 2011 - Album - Italia - Il Giornale
Quelli che chiedono a Napolitano di far sparire via (o piazza) Tito
Via il nome di Tito dagli 11 comuni d’Italia che ancora dedicano una strada al maresciallo ju­goslavo, boia di istriani, fiumani e dalmati. Non solo: bisogna can­cellare le alte onorificenze con­cesse dal Quirinale negli anni passati al capo partigiano ed ai suoi carnefici, che si sono mac­chiati del sangue italiano. Lo chiedono al presidente Giusep­pe Napolitano, il sindaco di Ca­lalzo di Cadore, Luca de Carlo ed il suo assessore Antonio Da Col.Due«giovani»,nati negli an­ni settanta, che hanno deciso di onorare con una denuncia forte il Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo. «Sarebbe un segnale fonda­mentale per ricomporre le trage­die della storia, se Lei decidesse di accogliere il comune sentire delle nostre genti, - scrivono a Napolitano- ritirando le onorifi­cenze a Tito ( oltre che ai suoi co­lonnelli) e contestualmente di­sponendo la rimozione in tutto il Paese dei toponimi a essi intito­lati ». Le vie dedicate a Tito, in giro per l’Italia, sono almeno 11, se­condo una ricerca dell’Associa­zione degli esuli Venezia Giulia e Dalmazia. A Reggio Emilia tro­neggia la via Josip Broz Tito. Il 25 gennaio è stata respinta una ri­chiesta di Pdl e Lega di cancellar­la. «Nonostante tutto è stato un grande statista» ha detto Luca Vecchi, capogruppo del Pd. In Emilia Romagna c’è una folta concentrazione di strade dedica­te al maresciallo: a Parma, affian­cata a via Anwar Sadat, il presi­dente egiziano ucciso dai jihadi­sti, a Campegine e Montecavo­lo. Via Maresciallo Tito spicca anche a Cornaredo, in Lombar­dia. In Sardegna a Nuoro e ad Us­sana, in provincia di Cagliari. A Palma di Montechiaro (Agrigen­to), gli amministratori hanno su­perato se stessi ricordando Tito in compagnia di altre due vie de­dicate a Che Guevara e Mao Tse Tung. Lo scorso anno i comuni italiani che omaggiavano il man­dante delle foibe e dell’esodo erano 12, ma il sindaco di Scam­­pitella, in provincia di Avellino, ha promesso di proporre al Con­siglio comunale di abolirla. Gli amministratori di Calalzo che si sono rivolti a Napolitano hanno chiesto che vengano tol­t­e anche le onorificenze conces­se dall’Italia a Tito ed i suoi boia, come aveva denunciato il Gior­nale domenica raccogliendo la protesta degli esuli.
«Presidente - concludono De Carlo e Da Col nella lettera al Quirinale - nell’anno delle cele­brazioni per il 150˚ dell’Unità d’Italia,sarebbe un atto che final­mente contribuirebbe a sanare in parte la ferita del confine orientale, rendendo il giusto tri­buto alle migliaia di vittime».

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26 agosto 2023 | Tgcom24 | reportage
Emergenza migranti
Idee chiare sulla crisi dagli sbarchi alla rotta balcanica.

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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz
e tutti i caduti sul fronte dell'informazione

Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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