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Reportage
05 dicembre 2012 - Esteri - Afghanistan - Panorama
Addio, mia guerra, addio

Montagne, deserto, trappole esplosive e imboscate in un paesaggio lunare di villaggi in terra e paglia dove la fanno da padroni talebani, volontari ceceni e signori della droga. È il fronte più a sud dello schieramento italiano in Afghanistan, la prima linea che alle penne nere del 2°reggimento di Cuneo è costata 4 mesi di sangue e sudore. Da base Lavaredo 500 alpini si stanno ritirando per tornare a casa a Natale. Nell’inferno di Bakwa, 32 mila anime, resteranno pochi poliziotti e soldati afghani. Dopo 10 anni di guerra di pace è l’inizio della grande ritirata che si concluderà nel 2014. Il ripiegamento da Bakwa segue quello del fronte nord a Bala Murghab e dal Gulistan, che ha riportato a casa altri 650 soldati. Per gli alpini del Doi, eredi della divisione che in Russia perse nove uomini su dieci, è un addio all’Afghanistan. Panorama ha raccolto sul campo le loro riflessioni e i loro desideri.  

DOPO TANTO DESERTO VOGLIO ANDARE SULLA NEVE

Il tenente Stefano Usseglio, 25 anni, piemontese di Mondovì, non ha dubbi: «Mi sono preparato al peggio e l’ho trovato. È stata davvero dura. Bakwa è un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Non c’è nulla a parte il deserto e qualche villaggio. Da queste parti trovi più trappole esplosive che persone». Faccia da ragazzino, ha capito dove fosse finito con il richiamo della preghiera del muezzin che lo ha svegliato il primo giorno di missione. A base Lavaredo è arrivato il battesimo del fuoco: «Siamo usciti e abbiamo trovato due Ied (ordigni artigianali). Il primo scoperto in tempo, ma il secondo è saltato, per fortuna senza provocare grossi danni al blindato con i rulli antimine davanti». Il tenente torna a casa con l’ultima colonna convinto che sarà «la missione più dura. Potrebbero attaccarci sulla via del ritorno». Non vuole dire ai suoi la data esatta del rientro in patria. «Farò una bella sorpresa» spiega il giovane ufficiale «riunendo anche i nonni che sono molto preoccupati. E poi parto con la mia ragazza per una bella vacanza.  

HO PERDUTO UN AMICO MA LO PORTO NEL CUORE

I baffetti alla Clark Gable non riescono a nascondere i suoi 23 anni. Il caporalmaggiore Erik Franza di Cuneo è radiofonista «come Tiziano Chierotti, caduto in combattimento il 25 ottobre. Io dell’88 e lui dell’89, me lo porterò per sempre nel cuore, dove nessuno può strapparcelo». Il giovane alpino è anche un disegnatore: «Ho dipinto il fiocco nero all’ingresso delle tende della nostra compagnia per ricordare Tiziano. I commilitoni mi chiedono pure i cartelli con le distanze dalle loro città. Da Cuneo a Bakwa ci sono 4.925 chilometri». A casa suo padre Guido espone il tricolore sul balcone a ogni missione. «Ne è valsa la pena, anche se ho perso un amico. Nel nostro piccolo un aiuto l’abbiamo dato a questa gente» sottolinea il caporalmaggiore. «Appena arrivo a Cuneo raduno la famiglia, la fidanzata e offro la pizza. L’importante è che stiamo tutti assieme, a portata di abbraccio». Dell’Afghanistan è rimasto affascinato: «Mi ha colpito il cielo. Una notte in trincea ho contato più di 20 stelle cadenti. Sulla spalla mi sono tatuato una stella, simbolo di noi soldati, in ricordo della bellezza di questo paese».  

LA SCARPINA DI MIA FIGLIA COME AMULETO

Il sergente maggiore Dario Milano, 37 anni, è un veterano. «Questo è il posto peggiore per la minaccia degli ordigni improvvisati» spiega il sottufficiale del 32° genio guastatori di Torino, originario di Napoli. Cacciatore di mine, sta davanti a tutti per individuare un po’ di terra smossa o il filo di un detonatore che segnalano la trappola. «In Afghanistan ho perso tre amici. Uno di loro si chiamava Mauro Gigli» ricorda il sergente. «Ero in base a Herat e ho sentito l’allarme per l’elicottero dell’evacuazione medica. Mauro stava bonificando un ordigno quando è esploso». Per trovare nel deserto la strada giusta, che non faccia saltare in aria la colonna, «mi immedesimo nella testa del cattivo». Il suo portafortuna è la scarpina da neonata di Noemi, la figlia di 4 anni, che porta sempre nel giubbotto antiproiettile vicino al cuore. Dario sta tornando a casa e deve mantenere una promessa: «Non sono mai riuscito a passare un’estate intera con la mia bambina. La porterò a Disneyland».  

FACCIO PIOVERE BOMBE MA SONO UNA BRAVA RAGAZZA

Il caporalmaggiore Clementina Riva ha compiuto 30 anni il 16 ottobre, a Bakwa. Dura come un uomo, comanda la squadra tiro dei mortai da 120 mm della compagnia Tempesta. I suoi alpini l’hanno soprannominata «Spack» perché «pretendo il massimo, ma in fondo sono una brava ragazza». Sulle spalle ha missioni in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e davanti ai suoi occhi sono sfilati i sei caduti del 2° reggimento negli ultimi 10 anni di guerre di pace. «Non voglio vedere altre bare avvolte nel Tricolore, ma anche se ce ne andiamo dall’Afghanistan spero che il paese non ripiombi nel Medioevo » auspica la biondina in mimetica. A Bala Murghab la sua squadra ha lanciato 350 bombe da mortaio: «Ci vogliono 40 secondi prima che arrivino sull’obiettivo. Sai che tiri su delle persone, ma li bombardiamo per salvare i nostri amici». A casa correrà ad abbracciare i genitori, che vivono con una pensione di 400 euro al mese, il fratello disoccupato e «la mia gatta Priscilla, che sta meglio di tutti».  

CON LA MISSIONE SALDERÒ IL DEBITO PER LE CURE DI MIO PADRE 

«Prima di partire non avevo mai preso un volo di linea. Mi si è aperto un mondo» esordisce Massimo Iacovella, 25 anni, di Savona. Barbone da alpino e sorriso sempre pronto, sta appollaiato in ralla, fuori dalla botola del blindato, con la sua mitragliatrice Browning. «Avevo già vissuto degli scontri a fuoco a Bala Murghab e sentito fischiare le pallottole, ma il 25 ottobre a Siav è stata tutta un’altra storia» ricorda il primo caporalmaggiore, che ha visto cadere davanti ai suoi occhi Tiziano Chierotti e altri tre alpini rimasti feriti. «I colpi impattavano sulle corazze dei blindati o schizzavano sotto» racconta il rallista. «Il rumore dei razzi Rpg era assordante». La battaglia con i talebani che avevano infiltrato due dei loro tra le fila dell’esercito afghano è scoppiata furiosa. «Mi è preso un colpo quando ho visto Luca, che dormiva nella branda vicina alla mia, a terra assieme a Tiziano, che aveva la mano rossa di sangue. Non potevo scendere, dovevo rimanere in ralla e sparare per coprirli». Fino a quando non metterà piede a Herat con l’ultima colonna non vuole pensare a casa. «Sei alla fine solo quando ti imbarchi sul volo» sottolinea Max. Prima di arruolarsi era un muratore. «Non ho scelto di fare il soldato solo per i soldi, ma la paga mi serve» spiega. «Al primo infarto di mio padre Vito avevo 17 anni. È rimasto disabile e aveva bisogno di cure costose fino al suo ultimo giorno. Per garantirle, la mia famiglia ha fatto un prestito in banca. I soldi di questa missione mi serviranno per saldare il debito».  

RINGRAZIA IL CIELO SAMUELE, QUI I BIMBI SONO SFORTUNATI

Classe 1981, pugliese e orgoglioso di essere alpino, il capitano Francesco Lamura non dimenticherà mai l’Afghanistan. A 23 anni vide saltare in aria i primi due caduti del reggimento vicino a Kabul e pensò: «A casa non torniamo». Il 25 ottobre, a Siav, è stato ucciso Tiziano Chierotti, il suo radiofonista. «Ho visto l’inferno» ricorda. «Una raffica è passata fra me e un poliziotto afghano ferendolo a una gamba. Poi ho sentito alla radio: uomini a terra, uomini a terra!». Il capitano della 23a compagnia ricorda che «Tiziano faceva il soldato per passione ed era innamorato di Eleonora. Ogni sera le scriveva qualcosa sul suo diario». Dell’Afghanistan non gli resterà solo un ricordo di sangue e sudore: «Mi hanno scattato una bellissima foto mentre davo da bere a un bimbo di 2 anni. Ho pensato quanto sia fortunato mio nipote Samuele, che ha la stessa età, a vivere in pace in Italia». In patria «la prima cosa che farò è andare a trovare la famiglia di Tiziano. Poi dovrò mettere a posto casa: il prossimo anno mi sposo».  

DOPO TANTO ORRORE VOGLIO AVERE UN FIGLIO

Barbetta afghana e bandana mimetica, il sergente Antonio Cerchiello non si scompone per la puzza di escrementi della stazione di servizio diroccata. Il pensiero ritorna a un giorno infame del 2010, quando due alpini saltarono in aria su una trappola esplosiva sul fronte nord, a Bala Murghab. «Ho visto volare il mitragliere, che si è miracolosamente salvato assieme a pezzi del blindato», racconta il sergente della 22a compagnia Impavida. «Poi ho avuto l’ingrato compito di tirare fuori dal Lince il corpo del mio amico Massimiliano Ramadù, avvolgendolo in un telo mimetico. Quando lo abbiamo caricato su un elicottero Black Hawk il mitragliere americano ha fatto il saluto militare. È stato toccante. Lo racconterò a mio figlio». A 30 anni, tiratore scelto, ha un solo obiettivo adesso che torna a casa: «Avere un piccolo pargolo da mia moglie Giuseppina». Lei lo aspetta a Brezza, un paese di 1.500 anime in provincia di Caserta, dove si trasferisce a casa dei suoceri a ogni missione. «A Bakwa abbiamo rischiato ogni giorno. Una volta ci hanno sparato addosso da un villaggio dove avevamo appena portato medicine, giubbotti, scarpe» racconta. E con un sospiro aggiunge: «non ho mai odiato il nemico. Di questo posto preferisco ricordare il sorriso dei bambini. Per noi è un addio all’Afghanistan, ma sarebbe bello, se tornasse la pace, portare in vacanza la mia famiglia».   

ABBIAMO VINTO CON SCUOLE E OSPEDALI

Intervista al generale Dario Ranieri. 

Dal 14 settembre il generale Dario Ranieri è il comandante Nato del settore ovest dell’Afghanistan, dove sono dispiegati 3.600 soldati italiani. Dal punto di vista umano gli rimarrà impressa «la riconoscenza della gente afghana. Espressa attraverso piccoli gesti e sguardi che hanno superato la barriera linguistica, dicendo “non abbiamo avuto un periodo di pace così lungo da tanto tempo”. Guardando a noi, la missione ci ha fatti crescere rendendoci protagonisti in un contesto internazionale complesso, conservando il tratto tipico del militare italiano, quello della solidarietà». 

La transizione, a cominciare da Bakwa, sta funzionando? 

“Con gradualità. Prima che la missione cambi natura, abbiamo ancora 2 anni per completare la transizione. Nella regione occidentale a guida italiana, già oltre il 70 per cento dei distretti è passato sotto la responsabilità delle forze di sicurezza afghane, mentre stiamo facendo fronte comune con le autorità locali per concentrare gli sforzi nelle aree più critiche”. 

Dopo oltre 10 anni, abbiamo vinto o abbiamo perso? 

“Stiamo vincendo, lo dicono i numeri. Da quando è iniziata la missione Nato, il numero di scuole è cresciuto del 1.300 per cento, il numero di studenti è sette volte superiore, più di 3 milioni di bambine vanno a scuola mentre prima era loro vietato, la possibilità di accesso alle cure mediche è aumentata di 10 volte. Sul fronte della sicurezza, l’esercito e la polizia contano oggi su 330 mila effettivi, quando 10 anni fa erano marginali. Tutto questo non è avvenuto senza sacrifici e molto rimane da fare. Ma non sono stati sacrifici vani”. 

Dopo la fine della missione Nato nel 2014 quale sarà il nostro impegno? 

“La missione finirà nella sua configurazione attuale, tuttavia il ruolo italiano potrà continuare con una componente civile e con una militare di supporto alle forze di sicurezza afghane. Questo è un copione che dev’essere ancora scritto, ma non da noi militari”.

[continua]

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24 novembre 2001 | Studio Aperto - Italia1 | reportage
Gli orfani di Kabul
Gli orfani di Kabul

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20 maggio 2007 | Terra! | reportage
I due che non tornarono
Due “fantasmi” resteranno legati per sempre alla brutta storia del sequestro e della liberazione di Daniele Mastrogiacomo. I fantasmi degli ostaggi afghani, gli ostaggi di serie B, il cui sangue pesa meno di quello di un giornalista italiano, come ci hanno detto fra le lacrime i loro familiari ed in tanti a Kabul (…) Gente comune, interpreti ed autisti del circo mediatico che ha invaso per qualche settimana l’Afghanistan e si è dissolto quando il giornalista di Repubblica è tornato a casa sano e salvo. I due fantasmi di questa brutta storia si chiamano Sayed Agha e Adjmal Naskhbandi, i compagni di sventura afghani di Mastrogiacomo che non sono più tornati a casa. I tagliagole talebani non hanno avuto un briciolo di pietà a tagliare loro la testa in nome del Jihad, la guerra santa. (…) Non si capisce cosa aveva da esultare il giornalista italiano, il 20 marzo, quando è sceso dalla scaletta dell’aereo che lo aveva riportato in patria, alzando le braccia al cielo come se avesse vinto un incontro di pugilato all’ultimo round. Alle spalle, sul campo di battaglia, aveva lasciato sia i vivi che i morti: Sayed il suo autista decapitato quattro giorni prima e Adjmal l’interprete rimasto vivo, ma ancora nelle grinfie dei talebani. (…) Purtroppo con il destino già segnato di una condanna a morte che servirà solo a seminare ulteriore zizzania politica in Italia ed in Afghanistan. Fin dal 5 marzo, quando sono stati inghiottiti in tre nella palude talebana della provincia di Helmand, i riflettori erano puntati solo sull’ostaggio eccellente, Daniele Mastrogiacomo. (…) Una prassi nei casi di sequestro dove chi ha il tuo stesso passaporto vale di più dei disgraziati locali che si trascina dietro. Loro se la cavano, si pensa spesso, ma in questo caso non è stato così. Il miraggio di guadagnare un pugno di dollari accompagnando un giornalista straniero a caccia dello scoop l’hanno pagato con la vita. Sayed aveva 25 anni e quattro figli, di cui il più grande Atifah ha solo sei anni. L’ultimo, il quinto che la moglie rischiava di perdere quando ha saputo del sequestro del marito, è nato un giorno prima del funerale del padre. Sayed faceva l’autista e pensava che non fosse tanto rischioso portare in giro Mastrogiacomo in una zona che conosceva come le sue tasche, perché c’era nato e ci viveva. Invece non aveva fatto i conti giusti con i talebani che per vecchie ruggini familiari e con l’accusa di spionaggio l’hanno processato secondo la legge islamica e condannato a morte. (…) Il 16 marzo i tagliagole hanno detto ai tre ostaggi che andavano a fare un giro, ma Sayed doveva sentire che era arrivata la sua ultima ora. Quando l’hanno fatto inginocchiare, a fianco di Mastrogiacomo, nella sabbia, in tunica bianca e con una benda rossa sugli occhi, non si agitava, sembrava rassegnato. Il giudice islamico ha letto una sbrigativa sentenza in nome di Allah ed il boia al suo fianco ha buttato il poveretto nella polvere, di traverso, per decapitarlo meglio. Nella mano destra del boia è apparso un coltellaccio ricurvo per segargli il collo. Sul corpo inanimato della vittima, come se fosse un burattino sena fili i tagliagole solitamente appoggiano la testa e si fanno riprendere soddisfatti. Ci sono voluti 11 giorni ai familiari per recuperare la salma, senza testa, perché nessuno gli ha dato una mano. (…) “Tutto il mondo ci ha dimenticato e si è occupato solo del rilascio del giornalista italiano in cambio di cinque criminali. Sayed e Adjmal lavoravano con lo straniero. Lui è stato liberato e per gli afgani cosa si è fatto?” ci ha detto amaramente Mohammed Dawood il fratello dell’autista ucciso. Adjmal aveva 23 anni e si era sposato da poco. Faceva il giornalista, non solo l’interprete e nelle zone talebane c’era già stato. Non abbastanza per salvarsi la pelle ed evitare di finire in una trappola assieme all’inviato di Repubblica. Con Mastrogiacomo ha diviso le catene ed i dolori del sequestro. (…) Nello scambio con cinque prigionieri talebani detenuti nelle carceri afghane era previsto sia Mastrogiacomo che Adjmal. A tutti e due il capobastone dei tagliagole che li tenevano prigionieri aveva detto “siete liberi”. Invece qualcosa è andato storto e Adjmal non è più tornato a casa. Quando la sua anziana madre ha capito che era ancora ostaggio dei talebani ha avuto un infarto. (…) Per non turbare il successo a metà della liberazione di Mastrogiacomo la grancassa di Repubblica aveva annunciato anche la liberazione di Adjmal e gran parte dei media hanno abboccato all’amo, ma non era vero. Qualche giorno dopo, quando Adjmal mancava tristemente all’appello, sempre Repubblica ha cercato di accreditare la teoria che era stata la sicurezza afghana a farlo sparire per interrogarlo. Anche questa volta non era così. (…) I talebani volevano sfruttare ancora un po’ il povero interprete per tenere sulla graticola il governo di Kabul e quello di Roma, che a parole ha chiesto la liberazione di tutti, ma nei fatti si è portato a casa solo il giornalista italiano. “Sono felice per la liberazione di Daniele, perché la vita di un uomo è stata salvata da un pericolo mortale. Allo stesso tempo sono arrabbiato, perché non ci si è occupati con la stessa attenzione di mio fratello” ci diceva Munir Naskhbandi assieme ad amici e cugini quando il giovane interprete era ancora vivo. Tutti, però, sapevano che il governo del presidente afghano Hamid Karzai non avrebbe più liberato un solo talebano in cambio dell’ostaggio. Per non lasciarsi testimoni afgani alle spalle a dare un’ultima scossa i tagliagole hanno condannato a morte anche Adjmal. La decapitazione di rito è avvenuto un giorno qualsiasi per loro, ma ancora più amaro per noi, la domenica di Pasqua e resurrezione. Attorno ai fantasmi e all’unico sopravissuto di questa storia non mancano le zone d’ombra, che prima o poi andranno chiarite. Rahmattulah Hanefi, l’uomo di fiducia di Emergency, che ha fatto da mediatore è stato arrestato dai servizi segreti afghani il giorno dopo la liberazione di Mastrogiacomo. (…) Il fratello di Sayed Agha, l’autista decapitato, aveva puntato subito il dito contro di lui. Amrullah Saleh il capo dei servizi di Kabul è ancora più duro e dice: “Abbiamo le prove che Hanefi è un facilitatore dei talebani, se non addirittura un loro militante travestito da operatore umanitario”. (…) L’uomo di Emergency avrebbe fatto cadere in una trappola Mastrogiacomo, sarebbe stato una quinta colonna dei tagliagole e avrebbe abbandonato Adjmal al suo destino. Le prove, però, non si vedono e fino a quando non verranno rese note non sapremo se si tratta di una ritorsione contro Emergency troppo blanda con i talebani, oppure un’innominabile verità che schizzerebbe fango su tutti, compreso il governo italiano. Un’altra ombra di questa vicenda è il canale parallelo di mediazione ingaggiato da Repubblica fin dalle prime ore del sequestro. Uno strano free lance italo inglese, Claudio Franco e la sua spalla afgana, hanno mediato per la liberazione. (…) Gino Strada, fondatore di Emergency, sente puzza di servizi segreti e non vuole averne a che fare. La strana coppia rispunta nell’area riservata dell’aeroporto militare di Kabul, quando arriva Mastrogiacomo appena liberato ed in viaggio verso l’Italia. Qualcuno della Nato li ha appena “estratti” dal sud dell’Afghanistan. Franco scatta foto esclusive di Mastrogiacomo mentre sale sul Falcon della presidenza del Consiglio, che lo riporterà a casa. Le immagini non vengono mai pubblicate e sul canale parallelo di mediazione viene steso un velo di silenzio. C‘è voluto un negoziato per avere questa fotografia di Sayed Agha con tre dei suoi cinque bambini. Nell’immagine c’era pure la moglie, ma i familiari, da buoni pasthun, non potevano farla vedere a degli stranieri (…) per di più infedeli. Alla fine hanno tagliato via la moglie e sono rimasti i bambini. Non vedranno più loro padre, morto nella provincia di Helmand, in Afghanistan, (…) per fare l’autista ad un giornalista italiano, Noi preferiamo ricordarlo così, (…) da vivo, con i suoi figli.

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23 giugno 2011 | Rainews24 | reportage
Il ritiro annunciato degli americani
Il presidente Usa, Barack Obama, ha annunciato il ritiro a scaglioni di 30mila militari americani entro l'estate del 2012. In Afghanistan resteranno circa 70mila soldati Usa, oltre alle forze degli alleati Nato. Il problema non è il ritiro di 30mila uomini, ma se c'è ancora la volontà di vincere.

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04 gennaio 2012 | Radio24 | intervento
Afghanistan
Parlano le armi sussurrano le diplomazie


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