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Reportage
16 settembre 2016 - Prima - Libia - Il Giornale
La cronaca e le immagini della battaglia finale a Sirte
da Sirte
Nel rudere di un palazzo in prima linea a Sirte la vampata rossastra di un'esplosione, alle spalle di un manipolo di combattenti che urla vittoriosamente Allah o Akbar (Dio è grande), ci fa ammutolire. Un kamikaze dello Stato islamico si è fatto saltare in aria con una macchina minata. Il sangue è schizzato fin dentro il rudere, che ci protegge dipingendo di rosso il soffitto. E i brandelli umani del suicida ci piombano sulla testa. I carri armati sulla strada, che erano l'obiettivo, sono intatti. I miliziani delle bandiere nere continuano a bersagliarli, inutilmente, con le mitragliatrici. I proiettili sollevano sbuffi di fumo grigio, ma non scalfiscono la corazza. Da quattro mesi 3mila uomini in gran parte di Misurata, ma giunti anche da Tripoli, Zliten, Zwara e altre città, una volta tanto unite, avanzano combattendo casa per casa con l'appoggio aereo americano. Sirte, l'ex roccaforte del Califfo sulla costa libica di fronte all'Italia, è una città spettrale ridotta a un cumulo di macerie. Poche centinaia di jihadisti votati alla morte sono ancora asserragliati nella zona residenziale di Al Jizza e in una striscia del quartiere 3. La spallata finale è questione di giorni. Sirte sarà la prima capitale delle bandiere nere a cadere.
«Secondo le nostre informazioni uno dei capi tunisini nelle sacche di resistenza si chiama Moez Fezzani. Potrebbe essere lo stesso terrorista collegato all'Italia, anche se lo abbiamo solo intercettato e non sappiamo quale sia il suo volto per identificarlo», spiega il colonnello Ismail Shoukri, comandante dell'intelligence libica nell'area di Sirte. Fezzani, veterano della guerra santa catturato dagli americani in Afghanistan (...)
(...) ha vissuto a lungo a Milano. Prima l'abbiamo scarcerato ed espulso nel 2012, poi condannato in secondo grado a 6 anni di carcere per terrorismo, ma stava già combattendo in Siria.
L'ultima avanzata ha portato alla conquista del quartiere 1 di Sirte, che si affaccia sul Mediterraneo. I vecchi carri armati di fabbricazione sovietica aprono la strada a cannonate alle katibe, i reparti libici che combattono lo Stato islamico. Il tank è piazzato in mezzo a un incrocio a un centinaio di metri dal minareto di una moschea bucherellato dai colpi, che sta in piedi per miracolo. Il cannone si alza lentamente e vomita una vampata rossastra di fuoco sollevando una nuvola di polvere. La granata fa a pezzi la postazione di un cecchino delle bandiere nere.
I combattenti avanzano appiattiti ai muri di cinta della zona residenziale e noi dietro, in mezzo a un fuoco d'inferno. Per passare da un edificio a un altro, evitando di venir colpiti, i libici più nerboruti portano delle mazze per sfondare i muri. E bisogna scalare le pareti più alte con mezzi di fortuna fino ad arrivare a pochi metri dalle bandiere nere.
Un libico anti Isis ci porta a vedere, orgoglioso, il cadavere semi carbonizzato di un miliziano del Califfo. «Forse viene dal Ciad. Ecco la fine che fa chi ci invade. Non permetteremo a nessuno di occupare la nostra terra», spiega Mohammed che parla bene inglese. Questa è un guerra dura e spietata, senza prigionieri.
I salafiti con i barboni lunghi fino al petto e i baffi rasati non si fanno fotografare, come i talebani. Però vogliono far vedere ai giornalisti che i buoni sono loro e i cattivi quelli dell'Isis, nemici giurati per la supremazia nell'Islam duro e puro.
I combattenti libici sono un'armata Brancaleone: qualcuno porta l'elmetto, altri il giubbotto antiproiettile, ma con i sandali ai piedi. Nessuno indossa un'uniforme uguale all'altro. A ogni battaglia si appiccicano addosso un nastro adesivo di colore diverso, giallo, arancione o rosso per evitare infiltrazioni e il fuoco amico. Non mancano i portafortuna, come una pecorella di pezza o un orsacchiotto di peluche. «I nostri figli vogliono che li portiamo al fronte convinti che ci proteggeranno. A noi ricordano sempre che abbiamo una famiglia e una casa dove tornare», spiegano i combattenti.
Anas Circassi, giovane, prestante, ben equipaggiato e con il turbante nero, sembra un Rambo islamico. «Noi siamo musulmani, ma i terroristi li combattiamo. L'Isis è un cancro velenoso per il mondo, per l'Islam e per la Libia», sottolinea in prima linea.
In un vicolo sono abbandonati e aggrovigliati uno all'altro tre corpi dei miliziani del Califfo, che cominciano a gonfiarsi sotto il sole. Uno, di pelle molto scura e fattezze diverse, potrebbe far parte della legione di volontari nigeriani di Boko Haram (Occidente è peccato), che combattono a Sirte con le bandiere nere. La scena più incredibile è quella di un furgoncino protetto da corazze artigianali fermo in mezzo alla strada. Sul volante è riverso il corpo di un kamikaze. La spessa lamiera davanti è ridotta a un colabrodo dai proiettili di mitragliatrice pesante. Un cecchino deve aver colpito l'autista suicida prima che si facesse esplodere. Nel cassone sul retro ci sono ancora granate di artiglieria e fili per l'innesco. Nessuno osa toccarlo per timore che salti tutto in aria.
Dopo 5 ore di battaglia torniamo indietro, ma non è facile. Un combattente di mezza età ci appare davanti come un fantasma. Dal buco di proiettile nella gola il sangue zampilla come una fontana. Si tiene ancora in piedi, ma barcolla. È stato appena colpito. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano. Sembra chiederci aiuto, ma la scena ci ha impietrito. Prima che crolli altri combattenti lo sorreggono per trascinarlo all'ambulanza. La mimetica è inzuppata di sangue. E mentre lo caricano sulla barella l'autista urla all'infermiere nel retro «ferma l'emorragia, ferma l'emorragia».
Per uscire dall'inferno seguiamo un pick up stracolmo di giovani combattenti, che dovrebbe aprirci la strada, ma si infila in un viale battuto dai cecchini. Dei container bucherellati messi di traverso non bastano a proteggerci. I colpi fischiano dappertutto sempre più vicini. Un proiettile colpisce il nostro fuoristrada con un assordante fragore metallico infilandosi nella carrozzeria a fianco del fanalino posteriore. Un'accelerata pazzesca a zig zag in mezzo al viale della morte e siamo in salvo.
Fausto Biloslavo
[continua]

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01 luglio 2019 | TG4 | reportage
#IoNonStoConCarola
“Io non sto con Carola”, la capitana trasformata in eroina per avere violato la legge. E bisognerebbe dirlo forte e chiaro per rompere questa illusione di solidarietà maggioritaria pompata ad arte dalla sinistra, da Ong talebane dell’accoglienza, una bella fetta dela Chiesa e dai pezzi da novanta del facile buonismo radical chic come Saviano, Fazio, Lerner e Murgia. Per non parlare del governo tedesco e francese, che con una faccia di bronzo unica, ci fa la morale sulla capitana. Ovviamente è passato sotto silenzio un sondaggio del 27 giugno su Rai3, non proprio una rete mangia migranti, che svelava come il 61% degli italiani fosse contrario all’attracco della nave Sea watch a Lampedusa, ancora prima dell’epilogo forzato deciso dalla capitana. Se al volante della tua automobile trovi lungo la strada un carabiniere con la paletta che intima l’alt, cosa fai? Accosti e non sfondi il posto di blocco. Se speroni la macchina dell’Arma vieni rincorso armi in pugno e ti arrestano, ancor più se a bordo hai dei clandestini. E nessuno si sognerebbe di alzare un dito in tua difesa con pelose giustificazioni umanitarie. Carola Rackete ha sfondato il blocco ordinato dal Viminale, violato la legge, speronato una motovedetta mettendo in pericolo la vita dei finanzieri a bordo e la stanno trasformando in un’eroina dei due mondi. Non solo: da oggi potrebbe essere libera e bella. Un mondo alla rovescia dove le Ong si sostituiscono agli stati e fanno quello che vogliono calpestando la sovranità nazionale del nostro paese. Per non parlare del paradosso che Sea watch, grazie al polverone sollevato, ha pure incassato oltre un milione di euro con raccolte fondi in Germania e in Italia per la difesa dell’eroina dei due mondi. Carola ha agito in stato di necessità per “salvare vite umane” sostegno i suoi fan. Ma se vogliamo salvare veramente i migranti in Libia, a cominciare da quelli rinchiusi nei centri di detenzione, dobbiamo continuare a riportarli a casa loro come sta facendo a rilento e fra mille difficoltà una delle agenzie dell’Onu, difficile da paragonare a SS moderne. E non andarli a prendere al largo della Libia come ha fatto la capitana, che rimane indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. E piuttosto che sbarcarli in Tunisia il posto più vicino a sicuro li ha portati dritta, dritta in Italia per creare un caso politico usando come paravento “le vite salvate in mare” La dimostrazione è la pattuglia di parlamentari di sinistra salita a bordo in favore di telecamere. L’obiettivo finale dei talebani dell’accoglienza è tornare a spalancare le porte dell’Europa agli sbarchi di massa del passato con 170mila arrivi all’anno in Italia Non si tratta di parteggiare per Salvini o il governo, ma di smetterla di farci prendere in giro trasformando la capitana che ha violato scientemente la legge in un’eroina. Per questo gli italiani, primi fra tutti i moderati dotati di buon senso, dovrebbero dire forte e chiaro “io non sto con Carola”.

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01 aprile 2011 | TG5 | reportage
Diario dalla Libia in fiamme
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27 marzo 2011 | TG4 | reportage
Diario dalla Libia in fiamme
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radio

08 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
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12 maggio 2011 | Nuova spazio radio | intervento
Libia
Che fine ha fatto Gheddafi?
Il colonnello Gheddafi è morto, ferito oppure in perfetta forma, nonostante le bombe, e salterà fuori con la sua ennesima e prolissa apparizione televisiva? Il dubbio è d’obbligo, dopo i pesanti bombardamenti di Tripoli. Ieri è ricomparaso brevemente in un video girato durante un incontro, all'insaputa dei giornalisti, nell'hotel di Tripoli che ospita la stampa internazionale.

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26 aprile 2011 | Radio 101 | intervento
Libia
Con Luxuria bomba e non bomba
Il governo italiano, dopo una telefonata fra il presidente americano Barack Obama ed il premier Silvio Berlusconi, annuncia che cominciamo a colpire nuovi obiettivi di Gheddafi. I giornali titolano: "Bombardiamo la Libia". E prima cosa facevamo? Scherzavamo con 160 missioni aeree dal 17 marzo?

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29 aprile 2011 | Spazio Radio | intervento
Libia
Piegare Gheddafi e preparare l'intervento terrestre
Gli americani spingono con insistenza per un maggiore coinvolgimento dell’Italia nel conflitto in Libia, non solo per passare il cerino politico agli europei. L’obiettivo finale è piegare il colonnello Gheddafi e far sbarcare una forza di interposizione in Libia, con ampia partecipazione italiana. Un modello stile ex Yugoslavia, dove il contingente occidentale è arrivato dopo l’offensiva aerea.

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09 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
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