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Articolo
06 maggio 2017 - Prima - Italia - Il Giornale |
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| Al Moas salvare vite conviene: un affare da 2 milioni di utili |
Q uasi 2 milioni di euro girati alla multinazionale dei fondatori dell\\\'Ong, che salva i migranti, per noleggio delle navi, oltre un milione di affitto per due droni, 400mila euro per marketing e pubbliche relazioni. E dal 3 aprile addirittura un aereo di pattugliamento, che sarebbe stato pagato dalla fondazione del figlio del patron di Ryanair. Dai bilanci 2014 e 2015 della discussa organizzazione non governativa Moas (Migrant offshore aid station) con sede a Malta si scoprono costi e giri di soldi sorprendenti. «A mio avviso è un\\\'operazione imprenditoriale più che umanitaria. Uno straordinario business» spiega a il Giornale, Paolo Romani, presidente del gruppo di Forza Italia in Senato. Il bilancio del primo anno di attività è introdotto da Martin Xuereb, ex direttore della Ong ed ex capo di stato maggiore di Malta. Proprio lui presentò Moas al ministero della Difesa a Roma. Nel 2014 le donazioni sono di appena 56.659 euro, veramente esigue. I fondatori, l\\\'italo-americana Regina Catrambone e suo marito Christopher, hanno sempre detto di aver tirato fuori di tasca loro 8 milioni di dollari. Tutti pensano che sia una donazione a fondo perduto per salvare i migranti in mare e portarli in Italia. A tal punto che il presidente della Repubblica concede a Regina, lo scorso 14 ottobre, l\\\'onorificenza di Ufficiale dell\\\'Ordine al Merito della Repubblica Italiana: «Per il contributo che attraverso l\\\'Ong Moas offre nella localizzazione e assistenza dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo». In realtà i bilanci raccontano un\\\'altra storia. Nel 2014 la società privata dei coniugi Catrambone, Tangiers International Ltd, sborsa 1.554.875 euro «per le spese operative». Un\\\'altra compagnia del gruppo paga altri 174.022 euro per costi amministrativi. E compare il primo drone, simile ad un mini elicottero, che costa 633.043 euro. L\\\'anno dopo saranno due per un prezzo considerato troppo alto dagli esperti. Nel 2015 piovono 5.700.000 euro di donazioni. Nell\\\'introduzione al bilancio si scopre che l\\\'Ong lancia i droni per cercare i barconi partiti dalla Libia e «quando il vascello in difficoltà viene localizzato, l\\\'equipaggio della Phoenix invia le coordinate la Centro di soccorso marittimo di Roma». Non il contrario, come i rappresentanti della Moas hanno sostenuto nell\\\'audizione in Commissione Difesa del Senato. «È chiaro che con aerei e droni fanno una ricerca attiva dei barconi. E poi avvertono Roma» spiega Romani, che fa parte del Copasir, il comitato parlamentare per il controllo dei servizi segreti. A bilancio vengono iscritti 1.200.000 euro in uscita per i due costosi droni. Dal 3 aprile, come ha rivelato il settimanale Panorama in edicola, l\\\'Ong ha annunciato sul suo sito l\\\'utilizzo «per la prima volta di un aereo di pattugliamento» alla ricerca dei barconi. I soldi arriverebbero dalla One foundation, un\\\'organizzazione no profit irlandese voluta da Declan Ryan, il figlio del fondatore della compagnia aerea low cost Ryanair. Peccato che dal 2013-2014 la fondazione irlandese avrebbe praticamente chiuso i battenti dopo l\\\'esaurimento dei fondi. Nel 2015 salta agli occhi anche la spesa di 412.698 euro per «marketing e pubbliche relazioni». A pagina 10, punto 9, si trova la sorpresa. «Dato che Moas è gestita da ReSyH Limited, che fa parte del Gruppo Tangiers International LLC (gruppo Tangiers)» l\\\'Ong ha pagato 1.865.556 euro di «charter fee», si suppone noleggio nave alla multinazionale dei fondatori. E sparisce il costo dell\\\'equipaggio. Non solo: «Oltre a quanto sopra, 855.428 euro sono stati ricaricati a Moas dalle parti collegate per spese». Le «parti collegate» sono sempre il gruppo Tangiers. «Alle nostre domande in Commissione difesa hanno negato l\\\'evidenza della distribuzione di quasi metà dell\\\'utile del 2015 al gruppo Tangiers - spiega Romani - E stiamo parlando di una multinazionale dell\\\'intelligence e di assicurazioni in zone di guerra». In pratica quasi due milioni di euro dei donatori vanno a finire nella casse delle società private dei fondatori, come se il salvataggio in mare dei migranti fosse un normale business di investimenti e rimborsi. Peccato che sul sito dell\\\'Ong spicchi il faccione di un bambino e l\\\'appello: «Il tuo aiuto dà loro speranza. Da quest\\\'anno puoi donare il tuo 5 per mille a Moas. Aiutaci a salvare altre vite in mare». |
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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre.
Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato.
Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano.
Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca.
“Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria.
Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman
Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida.
L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane.
La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....
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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
Foibe, conflitto sulla storia
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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”.
Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus.
Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”.
Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso.
Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”.
Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”.
L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.
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20 giugno 2017 | WDR | intervento |
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.
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