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19 gennaio 2019 - Prima - Italia - Il Giornale
La grillina pro migranti imbarazza il governo “Vanno ringraziati”
Il viceministro agli Esteri, Emanuela Del Re, annuncia che «dobbiamo moltissimo all\\\\\\\'immigrazione in Italia», come un qualsiasi politico Pd. Poi aggiunge che si tratta di un\\\\\\\'«aspirazione naturale dell\\\\\\\'uomo» e va «protetta». Non solo: lo fa nella tana del «lupo», a Malta, che cerca sempre di rifilarci i migranti in arrivo dalla Libia anche se l\\\\\\\'isola è il porto sicuro più vicino. Per di più in occasione di un summit del Mediterraneo occidentale dei ministri degli Esteri con il rappresentante maltese Carmelo Abela, che attacca i sovranisti: «Dobbiamo combattere la narrativa secondo cui le migrazioni sono una minaccia e una fonte di paura».
Nelle stesse ore, in Italia, il vicepremier Matteo Salvini ribadisce la linea dura: «Continuiamo a sigillare i porti» per evitare le ondate di migranti degli anni scorsi. Il governo sembra che parli due linguaggi diversi se non opposti fra leghisti e pentastellati. Del Re sottolinea che tanti migranti regolari, come gli albanesi, «hanno contribuito realmente ed economicamente al nostro modo di vedere la realtà oggi con trentamila imprese e grande integrazione». In realtà anche gli albanesi, ai tempi del crollo politico ed economico del loro paese, sono arrivati ad ondate bibliche non proprio regolari. E oltre all\\\\\\\'integrazione e nuove imprese abbiamo importato dal paese delle Aquile anche una bella fetta di criminalità. 
Il viceministro grillino sposa in piena la linea maltese del summit: «Io credo che la migrazione sia un\\\\\\\'aspirazione naturale dell\\\\\\\'essere umano e che quindi vada principalmente protetta e compresa come fenomeno. Non a caso il ministro degli Esteri maltese, Abela, sostiene che bisogna trovare nuovi approcci per gestire le migrazioni, passare da quella illegale che favorisce i trafficanti di esseri umani, a quella regolare, controllata e sicura tracciata dal Patto mondiale per le migrazioni firmato all\\\\\\\'Onu». Peccato che l\\\\\\\'Italia non abbia firmato il patto, che apre le porte ai migranti economici, anche se grillini come Roberto Fico, presidente della Camera, l\\\\\\\'avrebbe voluto in contrapposizione a Salvini. A La Valletta per il summit è stata mandata Del Re e non il ministro degli Esteri, come gli altri paesi mediterranei invitati, per dare un segnale chiaro a Malta che non è ancora finito il braccio di ferro sui migranti. Il viceministro deve aver fatto finta di non capirlo allineandosi ad una linea molto simile a quella europea dell\\\\\\\'alto rappresentante Federica Mogherini invitata la Valletta. 
In contemporanea Salvini ha snocciolato i numeri delle poche decine di migranti sbarcati dall\\\\\\\'inizio dell\\\\\\\'anno in Italia rispetto al migliaio dello stesso periodo nel 2018 con il governo Gentiloni. E accusato l\\\\\\\'Europa sostenendo che «non ha ancora mosso un dito. Ho mandato un elenco di 670 immigrati pronti per essere ricollocati dall\\\\\\\'Italia. Per il momento risposte zero e quindi continuiamo a sigillare, controllare e chiudere i porti». 
A Malta il più realista è stato il ministro degli Esteri di Tripoli, Mohammed Siyala, annunciando la riduzione «delle partenze dei migranti dalle coste libiche dell\\\\\\\'80% nell\\\\\\\'ultimo anno, ma servono ancora aiuti dall\\\\\\\'Europa per fare di più. In particolare per la Guardia costiera e la marina». 
Nel frattempo la solita Sea watch, la nave dell\\\\\\\'Ong che ha scatenato l\\\\\\\'ultimo sconto sui 49 migranti soccorsi e rimasti in mare per Capodanno, è tornata nei giorni del summit al largo della Libia, proprio sulla direttrice di Sabrata, da dove partono i barconi.
[continua]

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita. Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”. Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”. Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni. Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.

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29 dicembre 2010 | | reportage
Gli occhi della guerra a Trieste
Dopo aver portato la mostra su 25 anni di reportage di guerra in tutta Italia, finalmente il 29 dicembre è stata inaugurata a Trieste, presso la sala espositiva della Parrocchia di Santa Maria Maggiore, via del Collegio 6. Gli occhi della guerra sono dedicati ad Almerigo Grilz e a tutti i giornalisti caduti sul fronte dell'informazione. La mostra rimarrà aperta al pubblico dal 10 al 20 gennaio. L'evento è stato organizzato dal Circolo universitario Hobbit con la sponsorizzazione della Regione.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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