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12 giugno 2019 - Prima - Italia - Panorama
Una Difesa lasciata sola
Generali ribelli, spese della Difesa “in stato confusionale”, il decreto missioni presentato fuori tempo massimo, contratti per sistemi d’arma cruciali non firmati, costosa indecisione sui caccia F 35, il rischio di 1 miliardo in meno per gli investimenti nella Difesa, 60 milioni di euro l’anno di straordinari non pagati sono alcuni dei nodi che stanno venendo al pettine. Il simbolo “peace and love” in Parlamento, i balletti imbarazzanti a Lourdes, le entusiastiche congratulazioni alla coppia gay della Marina rappresentano solo il contorno allegorico del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Il problema vero è che il mondo militare si sente profondamente a disagio con la gestione politica del dicastero come mai è capitato prima. Panorama ha interpellato i generali ribelli, esperti e analisti, personale in servizio in quest’inchiesta su tutte le magagne della Difesa. Il ministro, il suo ufficio stampa e il portavoce non hanno neppure risposto a una richiesta di intervista. Il decreto per le missioni internazionali è stato finalmente presentato alle Commissioni parlamentari il 31 maggio e chissà quando verrà convertito in legge con il voto in aula. Un ritardo di sei mesi rispetto alla scadenza del 31 dicembre. Due in più del governo Renzi. L’aspetto paradossale è che sembra una specie di fotocopia del decreto del governo precedente di centro sinistra. La spesa è di 1 miliardo e 428 milioni di euro ed i militari impegnati sono 7.343 unità, 624 in meno rispetto al 2018. “Perchè non presentarlo prima ed evitare un duplice problema: la mancata copertura giuridica per i nostri militari impegnati all’estero e una questione finanziaria. Senza la copertura del decreto missioni i comandanti hanno le mani legati per le manutenzioni e le esercitazioni con il rischio che i mezzi non siano efficienti e i soldati preparati”  spiega Vincenzo Camporini, ex capo di Stato maggiore della Difesa, uno dei generali ribelli, che ha disertato per protesta la parata del 2 giugno. Una fonte della Difesa svela a Panorama l’arcano: “Il decreto è stato rimandato perché c’era il voto europeo e non si voleva puntare i riflettori sulle missioni all’estero, che di fatto non cambiano”. Questione minore rispetto all’handicappato budget del ministero guidato da Trenta per il 2019. Michele Nones, dell’Istituto affari internazionali evidenziava fin da aprile in un dettagliato studio, che “la gestione governativa delle spese per la difesa sembra essere ormai precipitata in uno stato confusionale”. Per un giudizio definitivo bisogna aspettare il Documento programmatico pluriennale 2019-2021, che a termini di legge doveva essere presentato in Parlamento a fine aprile, ma non ha ancora visto la luce. Al momento, secondo Giovanni Martinelli, analista del settore difesa “la quantità di risorse disponibili per gli investimenti potrebbe essere di 1 miliardo di euro in meno rispetto al 2018”. Una botta pesante, ma non l’unica: le voci “formazione e addestramento” oltre a “manutenzione e supporto” sono pure in calo. Non solo: i proventi della vendita degli immobili militari dovevano andare per il 35% al ministero della Difesa. Il governo del “cambiamento” ha stabilito che questa percentuale scenderà al 10%.  Il 6 giugno il ministro Trenta rispondendo al question time alla Camera smentisce le riduzioni, ma si riferisce a fondi stanziati i tempi lunghi: “Le assegnazioni previste consolidano una dotazione addizionale pari a 5,8 mld di euro, cui si aggiungono oltre 3,4 mld di euro provenienti dalle risorse del Ministero dello sviluppo economico”. Il bilancio è salito del 2,2% a 21.432.2 milioni di euro, ma soprattutto per l’esplosione dei costi del personale, che assorbe i tre quarti del budget a disposizione. In pratica con scarsi investimenti e soldi per addestramento e manutenzione “rischiamo di avere delle Forze armate che sono tigri di carta - sostiene Martinelli - Non solo spendiamo poco nel campo della Difesa, ma pure male”.  E ci ritroviamo con soldati sempre più “vecchi” grazie alla marea di marescialli poco operativi, che il ministro Trenta vuole aumentare. Un concorso straordinario sfornerà nuovi marescialli rendendo impossibile abbattere drasticamente il numero entro il 2024 per raggiungere un totale di 150mila uomini nelle Forze armate. Nonostante il capo di Stato maggiore dell’Esercito, Salvatore Farina, ha dichiarato l’8 maggio che bisogna “prevedere una modifica normativa per dare impulso al ringiovanimento se si vuole contrastare il trend della categoria dei graduati proiettata verso breve ad un’età media di oltre 45 anni”. Anche altre parole dell’alto ufficiale rischiano di restare lettera morta: “Per quanto riguarda le capacità ed i sistemi d’arma l’obiettivo è avere un esercito sempre più moderno allo stesso livello delle forze armate consorelle competitive a livello internazionale. Un aspetto che non può prescindere da un’importante spinta negli investimenti a breve per consentire un rapido ammodernamento”. Il grande punto di domanda sono i fondi effettivi che metterà a disposizione il ministero dello Sviluppo economico, a favore della Difesa, guidato da Luigi Di Maio. Per ora ha cancellato il programma di rinnovamento della difesa contraerea Camm-Er, che costa mezzo miliardo, ma spalmato fino al 2031. Nel 2019 basterebbe stanziare 25 milioni di euro. Il sistema attuale, Spada, è oramai obsoleto e senza i nuovi missili non potremmo neanche ospitare summit internazionali, Olimpiadi e Mondiali. Ovvero i grandi eventi che dopo l’11 settembre impongono sistemi di difesa aerei adeguati. Si rischia che basi, aeroporti e le nostre missioni all’estero restino sguarniti. Trenta non ha risposto ad una lettera degli inglesi del novembre 2018, controparte nel programma Camm Er. Un harakiri tenendo conto che la produzione garantirebbe allo stabilimento di Mbda (25% Leonardo, ex Finmeccanica) assunzioni e commesse per molti anni nello stabilimento di Fusaro, in provincia di Napoli, collegio elettorale del vice premer Di Maio. “Siamo di fronte a dilettantismo e inadeguatezza. E il 90% degli alti ufficiali in congedo la pensa come noi” spiega a Panorama un altro ribelle, l’ex generale Leonardo Tricarico, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica. Il governo \\\"non garantisce l\\\'efficienza dello strumento militare, non sostiene i programmi di ricerca e sviluppo della Difesa. E vuole irrigidire le esportazioni delle nostre industrie militari”.  Un’altra grana è l’acquisizione dei caccia bombardieri F 35. Dopo un anno di chiacchiere il ministro della Difesa non ha ancora deciso come tagliare, o meno, la commessa di 90 velivoli da combattimento per sostituire i 100 che stanno diventando obsoleti. Il 30 maggio Trenta ha dichiarato al Senato che entro il 2022 arriveranno 28 caccia e 13 già consegnati sono “completamente finanziati”. Secondo Silvio Lora Lamia, che segue da esperto il progetto fin dagli anni novanta, “l’ F 35 è nato male come programma militare industriale. E’ costoso anche nell’ammodernamento e parte dei pezzi di ricambio sono inutilizzabili. Però l’indecisione del governo e soprattutto della Difesa sugli ordini dei prossimi anni creano un grosso problema di pianificazione operativa ai militari in termini di gruppi di volo e addestramento piloti. E andrà a finire che pagheremo di più”. Alla base di Grottaglie dell’aviazione navale per gli F 35 hanno già speso 20 milioni di euro, ma i lavori sono sospesi da due anni. “La famosa relazione costi benefici è ferma sul tavolo del premier Conte come la Tav - spiega Lamia - Nessuno ha ancora deciso cosa fare”. Anche i carri armati Ariete dovrebbero venire sostituiti. I ricorrenti interventi di manutenzione stanno aumentando i costi. “L’esercito è a pezzi” osserva con Panorama un ufficiale operativo. Sul tavolo del ministro ci sono diversi contratti in attesa di firma, come la tecnologia per il Soldato del futuro, ribattezzato “soldato sicuro”, un sistema innovativo teso a migliorare le tattiche di combattimento e l’incolumità del militare. Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore durante la prima guerra del Golfo, pure lui generale ribelle che non si è presentato alla parata del 2 giugno, è convinto che “i problemi della Difesa sono l’ultima ruota del carro per la politica. Chi è in in servizio attivo non lo può dire pubblicamente, ma è sfiduciato, in grande stato di disagio”. Anche per il fiore all’occhiello dell’ utilizzo “duale” delle Forze armate nella missione Strade sicure, che impegna in Italia circa 7mila uomini, più di tuti i soldati all’estero, ci sono problemi. Il generale Francesco Ceravolo come Cocer dell’esercito, ovvero rappresentante dei militari, ha fatto presente al premier Conte e al ministro Trenta in un incontro del 24 maggio che non vengono pagati gli straordinari. “Circa sei milioni di ore  all’anno, di cui solo due remunerate, mentre le rimanenti dovrebbero essere recuperate dal personale (con periodi di licenza ndr) - ha detto il generale - ma non  è possibile a causa di concomitanti impegni operativi”. In definitiva lo Stato deve ai militari di Strade sicure “60 milioni di euro” all’anno. E si tratta in gran parte della truppa, che ha il reddito più basso. La “rivolta” degli ex generali contro il ministro della Difesa non si limita ai tre ribelli del 2 giugno. Giorgio Cornacchione, che comandò l’operazione Antica Babilonia in Iraq, dove Trenta era capitano della riserva selezionata, si è scagliato contro la balzana idea del premier Conte di rinunciare a cinque fucili per delle borse di studio pacifiste. Il generale Nicolò Manca, ex comandante dei dimonios della leggendaria brigata Sassari, ha dichiarato “che la decisione ministeriale di dedicare la parata del 2 giuro al tema dell’inclusione è una notizia da non credere”. Antonio Li Gobbi, ex alto ufficiale che viene dal Genio guastatori, ha attaccato il ministro Trenta prendendo le difese del generale Paolo Riccò, pluridecorato in Somalia e Afghanistan. Riccò è finito sotto inchiesta interna per avere abbandonato la cerimonia del 25 aprile a Viterbo in segno di protesta per il discorso di un esponente dell’Associazioni partigiani, che ha accusato i soldati italiani di avere ammazzato più civili dei talebani. L’ex generale Gabriele Carta, a nome di 6mila membri delle associazioni combattentistiche in Sardegna ha scritto al Capo dello stato esprimendo “lo scontento che deriva dall’entusiastico messaggio di congratulazioni che la ministra Trenta ha voluto dedicare alla coppia di due marinaie” che si sono sposate in divisa.  La responsabile della Difesa si è limitata a dire in Parlamento che “le molteplici attestazioni di stima arrivate a livello istituzionale e dai cittadini per lo svolgimento della festa della Repubblica dimostrano l\\\'infondatezza delle critiche”. Però sono pochi gli alti ufficiali in congedo intervenuti a suo favore. L’ex ammiraglio Giuseppe Lertora ha puntato il dito contro “una sorta di lobby diretta contro il Ministro” composta dai generali ribelli del 2 giugno. I veri pretoriani di Elisabetta Trenta sono gli esponenti dei sindacati ancora non riconosciuti da una legge ad hoc, che hanno ricevuto il via libera dalla responsabile della Difesa. Sinibaldo Buono, neo sindacalista dell’Aeronautica, ha elogiato “la svolta epocale voluta strenuamente dal ministro”. Trenta farebbe bene ad occuparsi di meno di sindacati e di più della decisione presa cinque anni fa da tutti i paesi della Nato, su spinta dell’amministrazione Obama, di aumentare le spese per la difesa al 2% del Pil entro il 2024. Oggi il bilancio è poco sopra l’1% e il raddoppio appare una missione impossibile. Non a caso il 17 febbraio davanti alle Commissioni Difesa di Camera e Senato, il capo di Stato maggiore, generale Enzo Vecciarelli aveva lanciato l’allarme spiegando che in caso contrario “dovremo rinunciare non solo all’ efficienza di molti sistemi ma, già dal prossimo futuro, anche ad interi profili capacitivi”. L’agenda recondita dei grillini sembra puntare a una specie di smilitarizzazione dimostrata dalla censura al video considerato combat per il 4 novembre, festa delle Forze armate, manifesti della Difesa per il 2 giugno e altre ricorrenze con uomini in divisa, ma senza un’arma come se usassero le cerbottane per combattere e fossero una protezione civile rafforzata. Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa e consigliere per le politiche di sicurezza del ministro dell’Interno Matteo Salvini ha scritto in un editoriale: “Tutti elementi che indicano una visione assai limitata del comparto Difesa, una visione pacifista da oratorio e “casa del popolo”, ma oggi quanto memo inadeguata anche solo a comprendere le sfide attuali”.   Fausto Biloslavo

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05 febbraio 2015 | Porta a Porta | reportage
IN RICORDO DELLE FOIBE E L'ESODO LA PUNTATA DI PORTA A PORTA


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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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