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08 gennaio 2020 - Esteri - Italia - Panorama
L’onore offeso di Nassirya

Fausto Biloslavo

Medaglie mai assegnate, ma concesse ad altri solo per aver fatto il proprio dovere neanche sotto il fuoco. Benefici prima elargiti e poi tolti da un giorno all’altro. Promesse rimaste parole al vento. Sedici anni dopo la strage di Nasiriyah le ferite sono ancora aperte. Quattro carabinieri, che porteranno per sempre nelle carni i devastanti effetti dell’attacco kamikaze del 12 novembre 2003, hanno inviato a Panorama una lettera aperta, un vero e proprio “j’accuse”.

Subito dopo la strage “tutti si sono affrettati, politici, importanti cariche dello Stato e Generali, ad annunciare, (…), provvedimenti di promozione, medaglie e onorificenze per il “ruolo” svolto e come riconoscenza per le gravi ferite subite (…) Orbene, semplicemente nulla è accaduto!”. La lettera aperta è firmata da Vittorio De Rasis, Paolo Di Giovanni, Cosimo Visconti e Antonio Altavilla, quattro dei 19 feriti gravi dell’attacco terroristico contro la base dei carabinieri a Nassiryah, che è costato la vita a 19 italiani e 9 iracheni. 

Per le vittime della strage è stata coniata la Croce d’onore attribuita ai caduti e a chi ha un’invalidità superiore all’80%, come tre dei quattro firmatari del “j’accuse” inviato a Panorama. “Nulla agli altri, ma nel corso degli anni senza destare attenzione sono state, invece, attribuite onorificenze e medaglie di alto valore a militari che hanno preso parte alla missione Antica Babilonia nella varie fasi, ma anche ad alcuni presenti al momento dell’attentato del 12 novembre ancorché lievemente feriti o rimasti assolutamente indenni perché distanti al momento dell’esplosione” denunciano i carabinieri in congedo.

Di Giovanni era nella palazzina al momento dell’esplosione vicino al sottotenente Giovanni Cavallaro, che è deceduto. “Ho perso la funzionalità del braccio sinistro, una scheggia mi ha perforato il polmone e avevo un’emorragia interna. Sono uscito e non dimenticherò mai la distruzione ed il terribile silenzio” racconta il brigadiere capo in congedo a Panorama. Sul sito del Quirinale si possono spulciare le onorificenze concesse per la missione in Iraq. Ben 155 riguardano An Nasiriyah, ma quasi tutte elargite per fatti accaduti dopo la strage. “La lettura delle motivazioni è disarmante da parte di chi ha pagato con il sangue un contributo altissimo, talvolta ridicole e irricevibile risulta il tentativo di esaltare fatti o posizioni che chi ha operato sul territorio ben conosce e mai potrà credere ad una scenata immensa” scrivono i carabinieri feriti nell’attentato.

Medaglie al merito sono state concesse a chi portava “aiuti finalizzati alla ricostruzione della provincia di Dhi Qar e ad alleviare le sofferenze della popolazione locale” facendo semplicemente il proprio dovere “con generosa dinamicità” non sotto il fuoco. Un altro decorato ha ricevuto la medaglia al merito per la “grande capacità di coordinamento e controllo” dalla sala operativa, non in prima linea, durante un conflitto a fuoco di un reparto della missione Antica Babilonia. Generali e ufficiali superiori sono diventati “Cavalieri” per avere fatto il loro dovere “operando con elevatissima professionalità, incondizionato impegno ed efficace concretezza” oppure “instancabile slancio, intima convinzione, grande perizia e responsabilità”.

I firmatari del “j’accuse” puntano il dito contro le onorificenze ad alti gradi che hanno “trasformato normale attività istituzionale in atto eroico”. Al contrario chi le ha concesse è rimasto “silente davanti ad un solo e unico atto eroico appurato anche dal processo (per all strage di Nasiriyah nda): quello del sacrificio del Carabiniere Andrea Filippa che nonostante fosse certo della sua morte, a distanza di pochissimi metri dal camion (imbottito di esplosivo nda) in arrivo, ha aperto il fuoco ed evitato il totale crollo della palazzina e quindi la morte di tutti noi (…). Nessuno lo ha considerato per una medaglia al Valor Militare”. 

Il luogotenente in congedo dell’Arma, Vittorio De Rasis, non si separa mai dalla sua foto riverso sul cassone posteriore di un fuoristrada con il volto insanguinato. Gli iracheni lo stanno portando di corsa all’ospedale in gravi condizioni. “Quattro, cinque volte al mese ho ancora l’incubo della strage - racconta De Rasis - Vedo i caduti come Filippo Merlino, che dopo l’esplosione si avvicina barcollando, ma non ce la farà. O l’amico Cosimo Visconti gravissimo, che è sopravissuto”. E ricorda molto bene i colpi sparati con l’arma in dotazione “da Filippa, che grazie alla sua reazione ha fatto esplodere prima il camion”. Al carabiniere hanno dato la Croce d’onore e la medaglia delle vittime del terrorismo, “che non sono paragonabili a quella al valor militare” spiega De Rasis. I familiari dei caduti chiedono l’alta onorificenza per tutti.

Nella lettera aperta a Panorama i quattro carabinieri alzano il velo sulle operazioni combat della missione di pace in Iraq, rimaste nascoste per motivi politici. “Situazioni di contrapposizione e guerriglia con elementi ostili, tutti documentabili (…) anche con foto e video che hanno lasciato morti e feriti a terra ma di cui non bisognava fare parola” si legge nel testo. De Rasis racconta di quando con la sua squadra è andato a liberare Enzo, un italiano legato ai servizi che era stato arrestato dalla milizia del partito sciita Dawa al Islamia.

La lettera aperta elenca gli scontri maggiori, quasi tutti taciuti all’opinione pubblica: “Gli innumerevoli conflitti a fuoco avuti dalle squadre dell’Unità di Manovra (acquartierata nella palazzina oggetto dell’attentato), l’attacco a diverse unità presso la sede del comando di Polizia locale con l’incendio del mezzo dei Carabinieri e del personale Rumeno, la battaglia alla fabbrica del Ghiaccio, la liberazione di ostaggi (…) fino allo scontro per il pagamento delle pensioni”. E aggiunge un particolare scabroso sulla reazione degli iracheni: “Non possiamo dimenticare quanti il 12 novembre subito dopo l’esplosione, nonostante il persistere di un altissimo pericolo, si sono prodigati o solo hanno evitato di sparare sulla popolazione che si era riversata nella base non solo per aiutare ma anche per depredarla di tutto, comprese le armi dei colleghi ormai deceduti”. 

I quattro carabinieri gravemente feriti si chiedono “perché tutto questo è stato cancellato? Perché solo alcuni sono stati insigniti dell’Ordine Militare e delle Medaglie (…) pur non avendo compiuto azioni di rilievo?”. I firmatari si allacciano all’attualità: “Lo stesso meccanismo utilizzato nell’erogazione di encomi a pioggia solo per alcuni ruoli di “rilievo” è una prassi”.  

Il riferimento è ai 130 encomi solenni, un record assoluto, concessi dal precedente ministro delle Difesa, Elisabetta Trenta. Roberta Pinotti, un’altra donna che ha guidato il dicastero ne ha concessi solo un trentina in quasi cinque anni. Per Trenta non è mancato l’encomio last minute firmato il 5 settembre un attimo primo dell’arrivo del nuovo ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Il destinatario è il colonello Francesco Greco, capo della Pubblica informazione e comunicazione, “per la preziosissima e leale collaborazione assicurata ai Vertici del Dicastero”. Greco viene citato nella lettera dei feriti di Nasiriyah per la seconda parte del “j’accuse” sui benefici previdenziali prima concessi e poi cancellati. “Ad oggi è sceso un assordante silenzio, il Colonnello Greco incaricato di seguire la cosa non risponde più al telefono e nuove richieste inviate al neo Ministro della Difesa sono cadute nel vuoto” sottolineano i carabinieri. La beffa è chiara: “Ad un certo punto il Ministero della Difesa decide (…) di non erogare più le pensioni privilegiate ai feriti, sostituendole con emolumenti privi di alcuni benefici che hanno costretto alcuni militari a dover restituire le somme percepite”. Il governo Berlusconi le aveva concesse, ma poi nel 2010 le ha tolte, per chi veniva gestito dalla Difesa, tagliando cifre che variano da 300 a 600 euro mensili a seconda del grado e anzianità di servizio. A differenza dei feriti che fanno capo all’Inps. Nel 2018, “l’allora Ministro della Difesa Elisabetta Trenta, sollecitata dalla Presidenza della Repubblica, riceve alcuni militari in un tavolo tecnico per risolvere la questione” scrivono i carabinieri. Uno dei partecipanti è Di Giovanni: “Dopo timide ammissioni di alcuni e risposte riluttanti di altri si chiudono i lavori con la promessa di mettere fine all’evidente amputazione di benefici”. Il tempo passa e il colonnello Greco viene indicato come referente, ma le promesse cadono nel vuoto. Di Giovanni commenta amaramente: “Non ci si può permettere di prendere in giro chi ha pagato un prezzo sulla propria carne”.


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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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14 marzo 2015 | Tgr Friuli-Venezia Giulia | reportage
Buongiorno regione
THE WAR AS I SAW IT - L'evento organizzato dal Club Atlantico giovanile del Friuli-Venezia Giulia e da Sconfinare si svolgerà nell’arco dell’intera giornata del 10 marzo 2015 e si articolerà in due fasi distinte: MATTINA (3 ore circa) ore 9.30 Conferenza sul tema del giornalismo di guerra Il panel affronterà il tema del giornalismo di guerra, raccontato e analizzato da chi l’ha vissuto in prima persona. Per questo motivo sono stati invitati come relatori professionisti del settore con ampia esperienza in conflitti e situazioni di crisi, come Gianandrea Gaiani (Direttore responsabile di Analisi Difesa, collaboratore di diverse testate nazionali), Fausto Biloslavo (inviato per Il Giornale in numerosi conflitti, in particolare in Medio Oriente), Elisabetta Burba (firma di Panorama), Gabriella Simoni (inviata Mediaset in numerosi teatri di conflitto, specialmente in Medio Oriente), Giampaolo Cadalanu (giornalista affermato, si occupa di politica estera per La Repubblica). Le relazioni saranno moderate dal professor Georg Meyr, coordinatore del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Università di Trieste. POMERIGGIO (3 ore circa) ore 14.30 Due workshop sul tema del giornalismo di guerra: 1. “Il reporter sul campo vs l’analista da casa: strumenti utili e accorgimenti pratici” - G. Gaiani, G. Cadalanu, E. Burba, F. Biloslavo 2. “Il freelance, l'inviato e l'addetto stampa in aree di crisi: tre figure a confronto” G. Simoni, G. Cuscunà, cap. B. Liotti

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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