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11 febbraio 2020 - Prima - Italia - Il Giornale
Foibe, la sinistra fugge dalla commemorazione Vauro choc: propaganda
L a sinistra perde il pelo, ma non il vizio. La delegazione Pd alla foiba di Basovizza, monumento nazionale sul Carso triestino, se ne è andata sdegnata dalla celebrazione del giorno del Ricordo. Il motivo? Stavano prendendo la parola troppi esponenti del centrodestra che hanno cariche istituzionali. A rincarare la dose ci ha pensato il vignettista Vauro bollando il ricordo delle foibe e dell\\\\\\\'esodo come «un volgare e trucido strumento di propaganda sovranista e neofascista».
La spianata davanti alla foiba di Basovizza era piena di gente ieri, fra esuli, cittadini e scolaresche per celebrare il giorno del Ricordo. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D\\\\\\\'Incà ha portato il saluto del governo ed erano presenti Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Quando ha cominciato a parlare Maurizio Gasparri, di Forza Italia, in rappresentanza del Senato con delega istituzionale, la pattuglia del Pd se è andata via per protesta. Forse avrà dato fastidio che Gasparri puntasse il dito contro chi, come il Partito comunista, sapeva e ha negato a lungo le foibe. «Ci vollero 35 anni perché Basovizza diventasse monumento nazionale - ha ricordato Gasparri -. Ci vollero 59 anni perché fosse istituito con legge dello Stato il Giorno del ricordo. Quanto ci vorrà perché scompaiano quelle sacche deprecabili di negazionismo militante biasimate giustamente dal presidente Mattarella?».
La delegazione del Pd, composta da Debora Serracchiani, Luigi Zanda, Tatjana Rojc, il vicepresidente del Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia Francesco Russo e la segretaria dem di Trieste Laura Famulari, hanno lasciato la cerimonia. Zanda ha denunciato «un eccesso di toni di propaganda da parte di altri, incluso il senatore Gasparri che non era lì per rappresentare la sua parte politica ma l\\\\\\\'intero Senato». Serracchiani ha twittato: «Il #GiornodelRicordo deve rimanere una solennità in cui si condivide pietà e giustizia, non un palcoscenico per la destra sovranista». Un assist per Vauro Senesi che si è scatenato: «Concordo con la Serracchiani: La pietà per le vittime non può diventare uno strumento auto-assolutorio o di propaganda becera». Il vignettista per l\\\\\\\'occasione trasformato in storico spiega che la colpa è del «progetto fascista di sostituzione etnica, un genocidio». La solita tesi tanto cara ad una bella fetta di sinistra, che giustifica le foibe come reazione al fascismo.
Ieri è sceso in campo anche Silvio Berlusconi, che su Instagram ha scritto: «Non dimentichiamo le vittime delle foibe, coloro che furono condannati ad una morte atroce per la sola colpa di essere italiani e di non volersi assoggettare alla tirannide». E ricordato che fu il suo governo nel 2004, grazie al parlamentare triestino di An, Roberto Menia, ad ottenere dal Parlamento l\\\\\\\'istituzione del «Giorno del Ricordo a perenne monito sulle tragiche conseguenze dell\\\\\\\'ideologia comunista e del nazionalismo esasperato».
Le alte cariche istituzionali hanno commemorato il 10 febbraio senza se e senza ma. La presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ha parlato di «episodi che proseguirono anche dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, potendo quindi essere considerate le più gravi stragi di italiani compiute in tempo di pace». Roberto Fico, presidente della Camera dei deputati, ha ammesso che «gli atti criminali compiuti dalle forze nazifasciste nella Jugoslavia non possono essere in alcun modo considerate quale giustificazione delle atrocità commesse contro gli italiani inermi». Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha chiesto «ancora una volta scusa per l\\\\\\\'oblio che ha inghiottito per decenni questa sciagura nazionale».
Fratelli d\\\\\\\'Italia, con Giorgia Meloni, e la Lega hanno colto l\\\\\\\'appello del Giornale al capo dello Stato, Sergio Mattarella, di revocare la più alta onorificenza italiana concessa a Josip Broz Tito, mandante delle foibe. A Strasburgo i due partiti hanno chiesto con un\\\\\\\'interrogazione alla Commissione Ue, «se reputi che tale onorificenza sia coerente con i valori ed i principi espressi dal Parlamento europeo».
[continua]

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04 luglio 2012 | Telefriuli | reportage
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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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