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09 febbraio 2020 - Controstorie - Italia - Il Giornale
La vita spericolata del “corsaro” Lolli finisce col carcere
Fausto Biloslavo
«Se Giulio Lolli è un terrorista io sono la regina Elisabetta», esordisce Antonio Petroncini, storico legale dell\'ultimo avventuriero, che per dieci anni ha cavalcato il caos libico provocato dalla primavera araba. La procura di Roma con il pm Sergio Colaiocco accusa Lolli di traffico di armi e terrorismo internazionale, ma lui si difende a spada tratta. Davanti al Tribunale del riesame ha protestato: «L\'accusa è incredibile. Ho sempre odiato il terrorismo e combattuto contro l\'Isis a Sirte».
Il «corsaro» bolognese è stato rispedito in Italia da Tripoli il primo dicembre, dopo due anni di gattabuia nella prigione di Mittiga, l\'aeroporto della capitale. Dal rientro a Roma, Lolli è rinchiuso a Regina Coeli, ma rischia il trasferimento nel supercarcere di Nuoro dove sono rinchiusi i terroristi islamici. «Nell\'interrogatorio del 23 gennaio ha ribadito di non avere mai fatto parte di organizzazioni terroristiche bensì governative libiche», spiega il suo legale romano, Claudia Serafini. La procura è convinta del contrario, ma Lolli è veramente un Bin Laden italiano? La sua vita sembra un film: nel 2010 fugge a Tunisi rincorso dalle inchieste sulla truffa «Rimini yacht». In pratica vendeva barche di lusso a più acquirenti compresi dei Vip. Quando scoppia la primavera araba spera di trovare rifugio a Tripoli convinto che il regime di Gheddafi sia inossidabile. Lolli arriva in porto al timone del suo yacht, Leon, ma viene arrestato nel lussuoso hotel Rixos della capitale su richiesta italiana via Interpol. Non sarà mai estradato perché scoppia la rivolta contro il regime di Gheddafi. Dopo mesi di carcere infernale, i ribelli lo liberano e lui si unisce all\'assalto a Bab al Azizya, la roccaforte del colonnello nella capitale.
Così diventa Thuwar, un rivoluzionario suo malgrado. Il nuovo governo post Gheddafi gli consegna pure un\'onorificenza assicurandogli un vitalizio. Lolli non si muove dalla Libia respingendo in tribunale le richieste di estradizione giunte dall\'Italia, dove lo attende una condanna di 4 anni e 4 mesi per bancarotta e corruzione. E un\'inchiesta per estorsione che sfocerà a breve in processo. Lolli ammette la truffa, ma respinge con forza l\'accusa di estorsione.
L\'ultimo avventuriero si converte all\'Islam diventando il «capitano Karim» e allaccia rapporti con tutti, ma viene pure rapito e tenuto in ostaggio per mesi. Grazie alla sua perizia al timone comincia a fare rotta su Bengasi stritolata dall\'assedio del generale Khalifa Haftar, che oggi attacca Tripoli. Lolli giura che le sue missioni erano solo umanitarie per portare generi di prima necessità ed evacuare i feriti.
A Tripoli si insedia il nuovo premier Fayez al Serraj. Lolli non sembra scomporsi più di tanto nel gioco degli specchi del caos libico. E si sposa con una giovane della capitale. Poi si «arruola» in una specie di polizia marittima a Tripoli autorizzata dal ministero dell\'Interno. Tutti miliziani sotto il comando di Taha Mohammed al Musrati, che ancora oggi combatte nella capitale contro Haftar nelle fila governative. Il 28 ottobre 2017 la milizia portuale viene smantellata dalla polizia salafita di Rada, forse su input italiano e Lolli finisce dietro le sbarre. A Tripoli lo condannano addirittura all\'ergastolo per terrorismo con una discutibile sentenza che non ha alcun valore in Italia. Alla fine viene espulso lo scorso dicembre.
In Italia, però, lo attende l\'amara sorpresa delle accuse per terrorismo e traffico di armi. I carabinieri del Reparto operativo speciale sono convinti che Lolli abbia nientemeno che «diretto e finanziato () l\'associazione terroristica Majlis Shura Thuwar Bengasi» come «comandante delle Forze rivoluzionarie di Tripoli». L\'accusa fa di tutta l\'erba un fascio sostenendo che la Shura di Bengasi fosse un\'organizzazione terroristica. In realtà si trattava di un cartello di gruppi diversi fra loro, dai Fratelli musulmani ad Ansar al Sharia, che è stata sciolta ed era l\'unica organizzazione inserita dall\'Onu nella lista nera del terrore. Non a caso i resti dei miliziani che hanno combattuto a Bengasi fino alla capitolazione, oggi sono in prima linea a Tripoli per difendere il governo Serraj contro lo stesso nemico di allora, il generale Haftar. L\'avvocato Petroncini ribadisce che «Giulio Lolli non ha mai dichiarato di appartenere alla Shura di Bengasi, ma di essere un Thuwar, avendo preso parte ai moti rivoluzionari che hanno deposto Gheddafi e combattuto l\'Isis a Sirte».
La seconda spada di Damocle è il traffico di armi. Il primo maggio 2017 una nave militare dell\'operazione Sophia individua il Mephisto, ribattezzato El Mukhtar, al largo di Misurata diretto verso Bengasi con un carico di armi «inclusi lanciarazzi e mine anticarro». Lolli non era a bordo, ma secondo l\'accusa è lui la mente dell\'operazione perché «aveva la disponibilità dell\'imbarcazione». Nell\'interrogatorio del 23 gennaio l\'indagato ha spiegato che di mestiere faceva il broker da 25 anni. E aveva svolto solo un ruolo di intermediazione per l\'acquisto del Mephisto immatricolato in Italia e poi consegnato ai libici con più passaggi di mano. «È da escludere che Lolli utilizzasse il Mephisto in proprio, a titolo personale, per trasportare armi di supporto ai terroristi o che fosse a conoscenza del carico bellico», spiega l\'avvocato Petroncini.
Per gli inquirenti l\'intensificarsi dei contatti dell\'italiano con i libici per il passaggio di proprietà proprio il giorno del fermo in alto mare «rendono evidente che il Lolli era coinvolto nel trasporto d\'armi accertato». La difesa evidenzia con una ricostruzione sugli orari di avvistamento ed effettivo abbordaggio dell\'imbarcazione alle 6 di sera, che i contatti dell\'ultimo avventuriero sono avvenuti prima del sequestro del carico a bordo e non viene minimamente menzionata l\'operazione della flotta europea. Non solo: in giugno, quando la stessa imbarcazione è stata di nuovo intercettata Lolli non ha fatto assolutamente nulla. La nuova battaglia dell\'ultimo avventuriero sarà dimostrare la sua innocenza e mantenere la leggenda di una vita da film.
[continua]

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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31 ottobre 2021 | Quarta repubblica | reportage
No vax scontri al porto
I primi lacrimogeni rimbalzano sull'asfalto e arditi No Pass cercano di ributtarli verso il cordone dei carabinieri che sta avanzando per sgomberare il varco numero 4 del porto di Trieste. I manifestanti urlano di tutto «merde, vergogna» cercando pietre e bottiglie da lanciare contro le forze dell'ordine. Un attivista ingaggia lo scontro impossibile e viene travolto dalle manganellate. Una volta crollato a terra lo trascinano via oltre il loro cordone. Scene da battaglia urbana, il capoluogo giuliano non le vedeva da decenni. Portuali e No Pass presidiavano da venerdì l'ingresso più importante dello scalo per protestare contro l'introduzione obbligatoria del lasciapassare verde. In realtà i portuali, dopo varie spaccature, sono solo una trentina. Gli altri, che arriveranno fino a 1.500, sono antagonisti e anarchici, che vogliono la linea dura, molta gente venuta da fuori, più estremisti di destra. Alle 9 arrivano in massa le forze dell'ordine con camion-idranti e schiere di agenti in tenuta antisommossa. Una colonna blu che arriva da dentro il porto fino alla sbarra dell'ingresso. «Lo scalo è porto franco. Non potevano farlo. È una violazione del trattato pace (dello scorso secolo, nda)» tuona Stefano Puzzer detto Ciccio, il capopopolo dei portuali. Armati di pettorina gialla sono loro che si schierano in prima linea seduti a terra davanti ai cordoni di polizia. La resistenza è passiva e gli agenti usano gli idranti per cercare di far sloggiare la fila di portuali. Uno di loro viene preso in pieno da un getto d'acqua e cade a terra battendo la testa. Gli altri lo portano via a braccia. Un gruppo probabilmente buddista prega per evitare lo sgombero. Una signora si avvicina a mani giunte ai poliziotti implorando di retrocedere, ma altri sono più aggressivi e partono valanghe di insulti. Gli agenti avanzano al passo, metro dopo metro. I portuali fanno da cuscinetto per tentare di evitare incidenti più gravi convincendo la massa dei No Pass, che nulla hanno a che fare con lo scalo giuliano, di indietreggiare con calma. Una donna alza le mani cercando di fermare i poliziotti, altri fanno muro e la tensione sale alimentata dal getto degli idranti. «Guardateci siamo fascisti?» urla un militante ai poliziotti. Il nocciolo duro dell'estrema sinistra seguito da gran parte della piazza non vuole andarsene dal porto. Quando la trattativa con il capo della Digos fallisce la situazione degenera in scontro aperto. Diego, un cuoco No Pass, denuncia: «Hanno preso un mio amico, Vittorio, per i capelli, assestandogli una manganellata in faccia». Le forze dell'ordine sgomberano il valico, ma sul grande viale a ridosso scoppia la guerriglia. «Era gente pacifica che non ha alzato un dito - sbotta Puzzer - È un attacco squadrista». I più giovani sono scatenati e spostano i cassonetti dell'immondizia per bloccare la strada scatenando altre cariche degli agenti. Donne per nulla intimorite urlano «vergognatevi» ai carabinieri, che rimangono impassibili. In rete cominciano a venire pubblicati post terribili rivolti agli agenti: «Avete i giorni contati. Se sai dove vivono questi poliziotti vai a ucciderli».Non a caso interviene anche il presidente Sergio Mattarella: «Sorprende e addolora che proprio adesso, in cui vediamo una ripresa incoraggiante esplodano fenomeni di aggressiva contestazione». Uno dei portuali ammette: "Avevamo detto ai No Pass di indietreggiare quando le forze dell'ordine avanzavano ma non ci hanno ascoltati. Così la manifestazione pacifica è stata rovinata». Puzzer raduna le «truppe» e i rinforzi, 3mila persone, in piazza Unità d'Italia. E prende le distanze dagli oltranzisti: «Ci sono gruppi che non c'entrano con noi al porto che si stanno scontrando con le forze dell'ordine». Non è finita, oltre 100 irriducibili si scatenano nel quartiere di San Vito. E riescono a bloccare decine di camion diretti allo scalo con cassonetti dati alle fiamme in mezzo alla strada. Molti sono vestiti di nero con il volto coperto simili ai black bloc. La battaglia sul fronte del porto continua fino a sera.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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