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Articolo
27 maggio 2020 - Esteri - Italia - Panorama |
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| L’Italia lasciata in alto mare |
Fausto Biloslavo “Stiamo navigando nell’oceano Atlantico diretti a New York, dove non sarà possibile scendere a terra o effettuare il cambio equipaggio a causa della pandemia. A bordo abbiamo del personale che è in mare da otto mesi. Vogliono tornare a casa, ma teniamo duro e non molliamo. Se ci fermiamo noi, si ferma il mondo”. La voce del comandante Valerio Taiano arriva forte e chiara, via telefono satellitare, dalla nave portarinfuse Cielo di San Francisco della compagnia D’Amico. Una delle 400 unità mercantili italiane che per colpa del virus, dei porti sigillati per evitare il contagio e del blocco dei trasporti aerei non riesce a fare tornare a casa l’equipaggio. “Nell’arco del prossimo mese e mezzo si dovranno effettuare circa tremila cambi equipaggio che riguarderanno (…) imprese armatoriali con stabile organizzazione in Italia” scrive Confitarma al governo il 12 maggio sollecitando che vengano adottate le proposte dell’Imo, l’Onu del mare per superare l’emergenza. La soluzione sono i “corridoi di transito sicuro” per l’esercito di marittimi italiani costretti a navigare senza ricambio come nei film post atomici sulla fine del mondo. “Persistono serie difficoltà legate alle operazioni di imbarco, sbarco e rimpatrio dei marittimi che – come più volte rappresentato – incidono inevitabilmente sul normale recupero delle energie psicofisiche da parte del personale imbarcato, i cui contratti di arruolamento sono stati in molti casi estesi oltre la durata originariamente prevista e, in molti casi, oltre il limite massimo di 11 mesi” denuncia, Mario Mattioli, presidente della Confederazione italiana degli armatori. L’ennesima comunicazione urgente è indirizzata al ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, ma pure ai responsabile del Viminale, Luciana Lamorgese, della Sanità, Roberto Speranza e al dicastero degli Esteri di Luigi di Maio. “Il problema è molto importante e riguarda nel mondo 150mila marittimi che devono avvicendarsi. Gli italiani sono 3mila. Non dimentichiamoci che via mare viene trasportato il 90% delle merci” spiega Mattioli a Panorama. “In Estremo Oriente, dove si registra il maggiore traffico marittimo globale, è praticamente impossibile fare il cambio di equipaggi. Medio Oriente e soprattutto Stati Uniti sono in lockdown. E abbiamo avuto problemi pure in Europa dai paesi iberici, all’Inghilterra, alla Francia e alla Romania” fa notare Leonardo Piliego, capo servizio per le Risorse umane di Confitarma. La fase 2 e 3 per i marittimi sono ancora lontane. Addirittura per un connazionale malato, non per il virus, ci è voluta una settimana per farlo sbarcare in Portogallo. Equipaggi senza ricambio anche sulla rotte del Sud America, dove il contagio sta esplodendo in Brasile. “Pure in Africa occidentale ci sono problemi. Navi di appoggio alle piattaforme davanti le coste angolane non riescono a ricambiare gli equipaggi, che dovevano avere turni di poche settimane” evidenza Luca Sisto, direttore generale di Confitarma. Le autorità locali non fanno scendere a terra i marittimi costretti a bordo negli spazi ristretti di unità che sono piccole. Il primo maggio sulla motonave Blue brother, che costeggiava il Congo, il comandante ha fatto suonare le sirene riprendendo in un video la plancia con il Tricolore in evidenza e l’auspicio “che l’epidemia venga spazzata via per farci tornare a casa da dove manchiamo da troppo tempo”. In mezzo all’Atlantico il comandante Taiano della Cielo di San Francisco racconta a Panorama che “l’ultimo cambio con il sottoscritto l’abbiamo fatto a febbraio e poi ci siamo trovati in mezzo al lockdown mondiale a Suez”. Nei porti, anche nell’Europa che riparte come l’Olanda “usiamo tute, guanti, mascherine quando sale il pilota a bordo e poi la plancia viene sanificata”. Se non ci sono contagi la nave è un’isola felice spiega il capitano: “In navigazione cerchiamo di mantenere il metro di distanza e due volte al giorno tutto l’equipaggio si misura la temperatura”. Anche con sintomi minimi è previsto l’immediato isolamento e la nave va in quarantena. “I marittimi sono una categoria un po’ dimenticata, non solo in questo caso. A Roma ci considerano lavoratori di serie B” osserva Taiano, 30 anni di Gaeta. Una task force ad hoc dell’ International marittime organization (Imo) ha preparato il piano ed i protocolli “per creare dei corridoi preferenziali sulle maggiori rotte ed effettuare i cambi in date coerenti per trasportare una massa critica di equipaggi” spiega Mattioli. Nell’ultima comunicazione urgente al governo \"si propone di valutare la possibilità che l’aeroporto internazionale di Roma Fiumicino sia designato quale hub italiano attraverso il quale consentire il transito” dei marittimi che sbarcano e devono rientrare in patria o si imbarcano. Il 3 giugno dovrebbero riaprire gli aeroporti italiani, ma in grandi scali sia aerei che marittimi come Singapore sono stati rifiutati marittimi in transito anche se effettuavano il tampone per il Covid-19. Il rompighiaccio Laura Bassi che naviga in Antartide per l’Istituto nazionale di oceanografia di Trieste è approdato in Nuova Zelanda il 20 febbraio, a ridosso dell’incubo pandemia. Nove marittimi a bordo da ottobre dovevano sbarcare, ma la prima prenotazione utile di un volo dalla capitale era per fine marzo. Alla fine sono riusciti a partire il 9 aprile con la Qatar airways, unica compagnia operativa da Auckland via Doha e Londra. “Poi grazie ad un volo Alitalia organizzato dalla Farnesina sono arrivati in Italia” raccontano dalla società armatrice Argo. A bordo è rimasto il comandante, Diego Denardi, ligure di 41 anni, con personale in mare da dicembre che dovrebbe fare un turno massimo di 4 mesi. “Ho attraversato zone a rischio pirateria, il mare in alla burrasca, i ghiacci dell’Antartide, ma un’emergenza del genere non l’avrei mai immaginata” spiega il capitano. “Il nostro pensiero va alle unità off shore in Africa o alle grosse navi mercantili che vivono situazione veramente pesanti - spiega l’ufficiale - Noi marittimi siamo ottimi contribuenti, ma come cittadini ogni tanto chi governa si dimentica che esistiamo”. E per la nave oceanografica il problema si ripropone: “Il primo volo disponibile per il ricambio è il 15 giugno - spiegano dalla compagnia - Se l’equipaggio subentrante partirà poi dovrà comunque fare 14 giorni di quarantena ad Auckland. Il personale che sbarca, se va tutto bene, arriverà in Italia la prima settimana di luglio”. Quest’estate dovranno ripartire anche le crociere, ma il governo non ha ancora deciso nulla. “Al momento è tutto bloccato - dichiara il presidente di Confitarma - Chiediamo una riapertura a tappe iniziando con i porti italiani, ma non vorremmo che le nostre navi passeggeri finiscano per essere svantaggiate rispetto ad altre bandiere”. |
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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”.
Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus.
Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”.
Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso.
Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”.
Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”.
L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.
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10 giugno 2008 | Emittente privata TCA | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /2
Negli anni 80 lo portava in giro per Milano sulla sua 500, scrive Panorama. Adesso, da ministro della Difesa, Ignazio La Russa ha voluto visitare a Bolzano la mostra fotografica Gli occhi della guerra, dedicata alla sua memoria. Almerigo Grilz, triestino, ex dirigente missino, fu il primo giornalista italiano ucciso dopo la Seconda guerra mondiale, mentre filmava uno scontro fra ribelli e governativi in Mozambico nell’87. La mostra, organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti, espone anche i reportage di altri due giornalisti triestini: Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.
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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz e tutti i caduti sul fronte dell'informazione
Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.
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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
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