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Reportage
07 giugno 2020 - Controstorie - Italia - Il Giornale |
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La rotta balcanica scoppia Immigrati incontenibili |
Fausto Biloslavo «Non conosci qualche strada buona per arrivare a Trieste? O qualcuno con l\\\'auto, un camion che ci porti fino in Italia», chiede via messaggio vocale dalla Bosnia un marocchino, che parla italiano. Nel cantone di Bihac vive in un campo improvvisato e vorrebbe arrivare clandestinamente da noi. Trieste è la porta d\\\'ingresso dei migranti dalla rotta balcanica, che attraversano a piedi Croazia e Slovenia per spuntare in Italia. «Polterra 22 abbiamo ricevuto segnalazione di otto migranti in via Flavia», gracchia la radio a bordo del fuoristrada della polizia di frontiera di Trieste. «Quasi ogni giorno è così», sospira Lorena, assistente capo, soprannome «Calamita». Quando è di turno scova sempre gruppetti di immigrati illegali. Simpatica e innamorata della sua divisa, arriva in due minuti alla fermata dell\\\'autobus dove i migranti sono piantonati dai militari del Piemonte cavalleria dell\\\'Operazione Strade sicure. Tutti giovani provenienti dal Nepal, un\\\'anomalia rispetto al flusso principale di afghani, pachistani e pure marocchini. Gli agenti controllano gli zaini e scoprono un passaporto con un visto croato. Le scarpe dei migranti non sono infangate e non sembrano provati da una lunga marcia. «Potrebbero essere stati scaricati vicino al confine da un passeur, che li ha nascosti in un furgone», ipotizza uno dei poliziotti. Giuseppe Colasanto, dirigente della polizia di frontiera di Trieste, ammette che «dopo il lockdown per il virus sono ripresi gli arrivi dalla rotta balcanica. In queste ultime settimane i rintracci si sono susseguiti in maniera piuttosto corposa». I numeri sono un tabù, ma dall\\\'inizio dell\\\'anno si era già registrata un\\\'impennata del 23% rispetto al 2019, nonostante la pandemia. In maggio sono cinque volte tanto. Da aprile a oggi sarebbero stati rintracciati un migliaio in tutto il Friuli-Venezia Giulia. Solo nei primi giorni di giugno a Trieste sono arrivati oltre 200 migranti. Numeri ancora bassi rispetto la massa umana pronta a partire dalla Bosnia. Almeno 7.500 persone, ma fonti della polizia slovena parlano di almeno 10mila, che rischiano di trasformare Trieste nella Lampedusa del Nord Est. Shamran Nawaz è appena arrivato dopo «sei giorni e sei notti di marcia in Croazia e Slovenia». Il giovane afghano è accoccolato a terra assieme a una ventina di connazionali con alle spalle le grandi cisterne dell\\\'oleodotto alle porte del capoluogo giuliano. Un automobilista segnala un altro gruppetto di afghani, che spunta dalla strada asfaltata dopo la ripida discesa dalla collina che segna il confine con l\\\'Italia. «Ci avevano chiuso nei campi per la quarantena in Bosnia e Serbia. Finita l\\\'emergenza virus hanno aperto le porte dicendoci: Andate», rivela l\\\'afgano parlando in inglese. Poco più in là c\\\'è un bambino di 12 anni con lo sguardo già da uomo. «Li abbiamo trovati anche nascosti in un vano creato ad arte all\\\'interno di un Tir - racconta Lorena -. È chiaro che sono aiutati da organizzazioni criminali lungo tutta la rotta balcanica». Gli sloveni, dopo le accuse di lasciare passare il flusso migratorio, hanno mobilitato questa settimana 1.000 uomini al confine con la Croazia utilizzando droni, camere termiche, radar terrestri ed elicotteri. Oltre 200 migranti vengono fermati ogni settimana dopo aver passato il confine croato. Frontex, l\\\'agenzia europea per il controllo delle frontiere, calcola che i migranti in Turchia desiderosi di arrivare in Europa, quelli spostati dalle isole greche sulla terraferma e gli altri lungo la rotta balcanica sono in totale 100mila. La polizia di frontiera di Trieste è a ranghi ridotti nonostante 40 uomini di rinforzo in arrivo. Il paradosso è che la Slovenia dal 10 marzo ha bloccato tutti i valichi alzando barricate di terra anche sulle stradine del Carso per fermare gli italiani a causa del virus. I migranti, però, passano e trovano sui vecchi cartelli che indicano il confine di Stato italiano scritte in rosso «no border», no confini e «welcome refugees», benvenuti rifugiati, lasciate da qualche talebano dell\\\'accoglienza locale. Anche le riammissioni dei migranti in Slovenia intercettati alla polizia di frontiera si erano inceppate: solo due dal 15 aprile al 12 maggio. Poi sono un po\\\' riprese, ma sempre facendo melina su orari di riconsegna, certificati sanitari e numeri, con l\\\'obiettivo di riprendersi meno clandestini possibile. Il Cocusso, sul Carso triestino, è la collina dei vestiti. Zaini, maglioni, canottiere, scarpe, coperte, ma pure lamette da barba e bottiglie d\\\'acqua erano disseminate nel bosco, come un campo di battaglia. Adesso le guardie forestali hanno raccolto quasi tutto in decine di sacchi neri dell\\\'immondizia, ma nuovi indumenti abbandonati rendono l\\\'idea del capolinea della rotta balcanica. «Siamo a 3 chilometri da Trieste e circa 200 metri dalla Slovenia - spiega il vicequestore Colasanto -. Su questa collina i migranti si cambiano su indicazione dei trafficanti, gli scafisti di terra, per meglio confondersi con la popolazione e non farsi intercettare dalla polizia». A quelli rintracciati vengono subito distribuite le mascherine e trasferiti sotto un grande tendone montato dall\\\'Esercito dove sono visitati dal personale medico del 118. Poi devono fare la quarantena. I centri di accoglienza scoppiano e per questo il ministero dell\\\'Interno ha montato una tendopoli azzurra sul Carso triestino. Dietro la rete con un evidente buco, da dove diversi escono o si dileguano alla faccia dell\\\'isolamento, un gruppo giunto dal Marocco, che non è un paese in guerra, spiega il tragitto durato un anno. «Abbiamo preso l\\\'aereo per arrivare in Turchia - racconta Omar -. Poi a piedi in Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia e infine nove giorni a piedi per attraversare la Croazia e la Slovenia fino a Trieste». Il giovane marocchino tifoso della Juve vuole trovare «lavoro e una vita migliore perché amo l\\\'Italia». |
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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo
"Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti.
Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”.
Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento".
Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc.
La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos.
Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra.
Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".
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16 febbraio 2007 | Otto e Mezzo | reportage
Foibe, conflitto sulla storia
Foibe, conflitto sulla storia
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10 giugno 2008 | Emittente privata TCA | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /2
Negli anni 80 lo portava in giro per Milano sulla sua 500, scrive Panorama. Adesso, da ministro della Difesa, Ignazio La Russa ha voluto visitare a Bolzano la mostra fotografica Gli occhi della guerra, dedicata alla sua memoria. Almerigo Grilz, triestino, ex dirigente missino, fu il primo giornalista italiano ucciso dopo la Seconda guerra mondiale, mentre filmava uno scontro fra ribelli e governativi in Mozambico nell’87. La mostra, organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti, espone anche i reportage di altri due giornalisti triestini: Gian Micalessin e Fausto Biloslavo.
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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
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