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12 agosto 2020 - Interni - Italia - Panorama
Vergogna incisa sulla pietra
“La scritta “Tito” sul monte Sabotino non solo ha caratteri cubitali, ma viene pure rinfrescata da giovani comunisti sia sloveni, che, talvolta, italiani - spiega a Panorama il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna - Alzare gli occhi e vedere ogni giorno il nome di chi ha inflitto profonde ferite ancora aperte e sofferenze alla nostra gente non è storia, ma provocazione”. Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, il capoluogo isontino venne occupato dalle forze di Josip Broz Tito, che deportarono 665 goriziani, compresi esponenti del Comitato di liberazione non allineati con l’espansionismo jugoslavo. E per questo spariti per sempre nel nulla.
Il 13 luglio si è svolta la “storica” visita alla foiba di Basovizza del capo dello Stato, Sergio Mattarella, mano nella mano con il presidente sloveno, Borut Pahor, il primo dell’ex Jugoslavia. Però, fra gli osanna alla riconciliazione politicamente corretta e le pesanti recriminazioni non è stato stigmatizzato il fatto che a Trieste e Gorizia ci sono ancora due enormi scritte “Tito” sulle alture slovene affacciate sul Carso. E nel capoluogo giuliano, alcune targhe inneggiano alla “liberazione” di Trieste da parte del IX Corpus del maresciallo jugoslavo. In realtà furono 40 giorni di annessione con infoibamenti e deportazioni. Da quest’anno l’amministrazione comunale ha voluto ricordare ufficialmente la ritirata dei titini, il 12 giugno, come “giornata della liberazione della città dall’occupazione yugoslava”. 
In questi tempi di furia iconoclasta dei talebani d’Occidente, in nome del politicamente corretto, che abbatte le statue di Cristoforo Colombo e vorrebbe la stessa fine per quella di Indro Montanelli a Milano, nessuno punto il dito contro le targhe che inneggiano all’occupazione titina di Trieste.
Sulla strada per Zolla, a due passi da Trieste, una lapide ricorda l’arrivo dei titini: “Qui combatterono per la liberazione del Carso triestino e da qui il 28 aprile 1945 partirono verso Trieste le unità della 30° Div. del 9° Korpus” dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. La targa è stata affissa dall’Associazione nazionale partigiani. Alcuni ex missini la picconarono, ma furono condannati e costretti a ripagarla nuova.
Una targa simile è stata posta nell\'abitato di San Giuseppe della Chiusa, alla periferia della città, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale, ma nel 2005, non nel tragico e divisivo secolo scorso. Sotto una rigorosa stella rossa, la dicitura bilingue, ricorda con orgoglio che nel maggio-giugno 1945 i combattenti di uno dei battaglioni di Tito, che occuparono Trieste, erano stati ospitati nel paese. E addirittura a Sgonico, sul Carso triestino, la scuola elementare statale di lingua slovena si chiama “1 maj 1945”. Non si tratta della festa dei lavoratori, ma dell’inizio dell’occupazione di Trieste da parte dei titini. Sul monte sloveno Cocusso, come davanti a Gorizia, campeggia la scritta bianca in pietra, Tito, ma in verticale. Nel 2015 era stata fatta a pezzi dai militanti di Casa Pound e poi ripristinata.
“Noi ci siamo liberati il 12 giugno del 1945 da Tito, ma sloveni e croati si sono scrollati di dosso l’ex Jugoslavia nel 1991 - osserva Paolo Sardos Albertini presidente dell’associazione patriottica Lega nazionale - Le targhe, le scritte, le bandiere e le bustine con la stella rossa dei titini esibite ad ogni primo maggio a Trieste sono offensive anche per loro”.
I peggiori massacri di Tito furono compiuti con il quarto di milione di prigionieri di guerra croati, sloveni, serbi, compresi civili, fatti fuori dopo la fine del secondo conflitto mondiale. L’ultima prova dei crimini di guerra titini è venuta alla luce il 20 luglio con la riesumazione dei resti umani di 814  persone nella foiba di Jazkova, in Croazia. Non solo combattenti che si erano arresi, ma medici, infermieri e suore prelevati dagli ospedali di Zagabria. E non mancano le ossa di giovanissime donne e bambini, probabilmente familiari dei “nemici del popolo” trucidati dai boia titini.
Sulle targhe che inneggiano all’occupazione il sindaco del capoluogo giuliano, Roberto Dipiazza, dichiara a Panorama: “Non faccio più battaglie di retroguardia. Il giorno dopo i presidenti italiano e sloveno sulla  foiba di Basovizza è venuto a trovarmi il nostro ambasciatore a Zagabria. E abbiamo concordato che andrà coinvolto anche il capo di stato croato in una futura opportunità a Trieste per un altro segnale forte sulla tragica storia del ‘900”.
Si spera con meno concessioni imposte rispetto alla “riconciliazione” con gli sloveni (vedi articolo su panorama.it). Sardos Albertini non ha dubbi: “Il mio auspicio è che il presidente della Croazia venga sulla foiba così sarà ufficialmente sancito il ricordo non solo di tutti gli italiani, ma anche di sloveni e croati vittime di Tito”.
Fausto Biloslavo

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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16 marzo 2012 | Terra! | reportage
Feriti d'Italia
Fausto Biloslavo racconta le storie di alcuni soldati italiani feriti nel corso delle guerre in Afghanistan e Iraq. Realizzato per il programma "Terra" (Canale 5).

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03 febbraio 2012 | UnoMattina | reportage
Il naufragio di nave Concordia e l'allarme del tracciato satellitare


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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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