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05 giugno 2024 - Esteri - Italia - Panorama
In vacanza col pericolo
Venerdì 17 maggio un gruppo di turisti occidentali girava per il bazar di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Il viaggio, incosciente, li aveva portati ad ammirare le nicchie, vuote, scavate nella roccia delle gigantesche statue di Buddha fatte saltare in aria e prese a cannonate da Osama bin Laden nel 2001. Uomini armati hanno preso di mira il gruppo uccidendo tre turisti spagnoli e ferendo altri otto occidentali e guide afghane. Del gruppo vacanze estreme facevano parte anche norvegesi, lituani e australiani. L’attacco è stato rivendicato dallo Stato islamico del Khorasan, la costola afghana del Califfato, che considera i talebani troppo mollaccioni.
“Morire in Afghanistan per turismo è assurdo. Viaggiare significa sapere apprezzare il mondo. Non è necessario andare alla ricerca di un posto pericoloso per provare il brivido della scoperta” commenta Nicola Minasi, a capo dell’Unità di crisi della Farnesina. E lancia l’allarme per l’Italia: “Di recente è emersa una forte tendenza da parte di alcuni privati che organizzano tour turistici di gruppo in zone sconsigliate, come nel caso di qualche settimana fa a Socotra, o da appassionati di “dark tourism”, turismo basato su viaggi in luoghi pericolosi o percepiti come tali”.
Una quindicina di turisti milanesi, bergamaschi, veneti e un riminese avevano scelto la natura incontaminata dell’isola yemenita, assolutamente sconsigliata dal ministero degli Esteri. L’aereo settimanale è saltato, secondo la Farnesina, “a causa del conflitto in corso” con gli Houti yemeniti che minacciano a colpi di missile Israele e le navi commerciali nel Mar Rosso. Niente di irreparabile, ma i turisti hanno cominciato a far girare appelli sui social, resi allarmanti dai media, chiedendo aiuto per il rimpatrio.
“È successo negli anni che siano saltati dei voli. Socotra è molto pubblicizzata da varie agenzie di viaggio come isola paradisiaca, ma non tutte informano i turisti sui rischi e conseguenze del viaggio, come non poter più entrare negli Usa con la semplice procedura on line (Esta). E’ un luogo sicuro, ma fa pur sempre parte dello Yemen anche se qualche turista neppure sapeva che ci fosse una guerra nel paese” racconta Eleonora Sacco, passione per i viaggi fin dai 18 anni. A Socotra ha lavorato a lungo come guida. “Si può andare ovunque nel mondo, ma devi essere consapevole di rischi e pericoli - sottolinea la blogger di viaggi - C’è gente che va in Somalia e ovviamente ha bisogno di una scorta armata. Mi chiedo se il gioco valga la candela quando metti a repentaglio anche vite altrui”.
Una serie di agenzie, in alcuni casi fai da te, pubblicizzano in rete viaggi ad alto rischio. “Afghanistan ring” è una proposta “a partire dai 4400 €” per il “ritorno nel paese più iconico e tormentato dell’Asia centrale”. Il viaggio dura due settimane e si dorme anche in “guest house molto basiche”. I mezzi di trasporto definiti “in sicurezza” sono Suv o Minivan.
Fra le tappe Bamyan dove è avvenuta l’imboscata ai turisti, Kandahar, capitale storica dei talebani infestata anche dai 23 gruppi terroristici segnalati nel paese dall’Onu. “L’apertura al turismo dei talebani segna un importante segnale di ripresa - si legge su una delle proposte di vacanze afghane - In questo contesto la destinazione si considera meta davvero imperdibile”.
Flavio Ferrari Zumbini, fondatore del blog “turismo estremo”, sostiene: “In questo momento andrei più volentieri in Afghanistan piuttosto che ad Haiti” in mano alle gang criminali. A Bamyan c’è già stato nel 2018 “partecipando alla maratona organizzata da una Ong con le ragazze afghane per dimostrare che lo sport è uno strumento di rivalsa”. Il blogger romano dei viaggi estremi sostiene di avere visitato tutti i paesi del mondo scrivendo un libro. “Nello Yemen non tornerei. In Hadhramaut, la regione infestata da Al Qaida, alla mia guida è partito un colpo per sbaglio che gli ha mozzato un dito. Il timore del rapimento c’era e se mi fosse capitato qualcosa non ne valeva la pena” sostiene il giramondo. “C’è tanta voglia di avventura. Il viaggio in un posto pericoloso, esotico, è una specie di status symbol, un distinguersi dalla massa - spiega Zumbini - Però qualcuno impazzisce per uno scarafaggio in stanza oppure se non trova l’acqua calda”.
Un’altra agenzia on line propone il Sud Sudan “alla scoperta di una zona geografica poco esplorata, misteriosa e affascinante”. Oltre la guerra civile al Nord, la Farnesina evidenzia che “la situazione è estremamente instabile in particolare a Bor e a Pibor, a causa dei combattimenti tra comunità”. Un’altra meta discutibile è il Somaliland, stato a rischio e non riconosciuto del Corno d’Africa. In rete trovi ancora tre posti per un viaggio in Iraq, a settembre, sconsigliato dalla Farnesina. E non dimentichiamo la Corea del Nord, che il blogger del turismo estremo reputa “destinazione pericolosa solo se tiri le uova sui poster di Kim Jong Un” il dittatore locale.
Un’agenzia propone il Libano visitabile, ma al sud gli Hezbollah si scontrano ogni giorno con gli israeliani, e la Siria non del tutto pacificata. Fra “le maestose rovine di Palmira” i tagliagole dello Stato islamico decapitavano i prigionieri. La “famosa cittadella di Aleppo” è stata devastata dal sanguinoso conflitto. Ogni mese arriva un report degli attentati a chiazza di leopardo dei gruppi jihadisti. Ovviamente l’agenzia riporta in neretto che “la sicurezza è una priorità”.
Il ministro plenipotenziario Minasi spiega che “i problemi sorgono quando si va in posti problematici ed i tour operator, o pseudo tali, non sono in grado di affrontare l’emergenza. In seguito al 7 ottobre (giorno dell’attacco stragista di Hamas nda) abbiamo riportato a casa, da Israele, 1200 persone con voli commerciali. In alcuni casi di viaggi-pellegrinaggi le agenzie si sono volatilizzate. Oppure hanno avuto il coraggio di chiedere perchè dovevano pagare il rientro”.
La Farnesina vuole coinvolgere gli influencer, in vista dell’estate, per lanciare il messaggio “viaggiare sicuri”, il nome del sito dove è meglio registrasi per qualsiasi tipo di viaggio. Non solo per le informazioni sui paesi delle vacanze, ma per la app scaricabile sul telefonino che permette all’Unità di crisi di localizzarti e inviarti allerte.
Alcuni viaggi estremi non costano poco, come i 45mila euro per “il Polo Nord ancora oggi meta di veri esploratori con grande spirito di adattamento, alla ricerca di un’esperienza profonda, unica”. Dopo la prima tappa alle isole Svalbard, il salto al Barneo ice camp sulla calotta polare artica da dove si parte con gli sci. “Non si tratta certo di un viaggio “comodo” - si legge nel programma - al Polo le temperature fanno registrare minime tra i -25° C ed i -45° C”.
Spesso il turismo estremo per ricchi è il meno intelligente. Un tragico esempio è la missione con l’artigianale sommergibile imploso la scorsa estate per raggiungere il relitto del Titanic a 3800 metri di profondità. A bordo 5 persone compreso un  imprenditore pachistano con il figlio, che aveva pagato 250mila dollari. Adesso un altro imprenditore ed ex astronauta, Larry Connor, vuole riprovarci con il nuovo sottomarino Triton, un investimento da 20 milioni di dollari. Per non parlare dell’avventura estrema in montagna: Garret Madison, alpinista americano, organizza spedizioni su vette mai scalate prima. “Un cliente ha acquistato un viaggio per la cima del monte Vinson, in Antartide pagando 200 mila dollari - ha raccontato - E’ l’ultima tendenza: i miliardari vogliono la loro avventura privata con gli amici”.
Molti siti delle agenzie dei viaggi pericolosi propongono anche mete, più o meno a rischio, in Africa. Lo scorso ottobre un turista inglese, un sudafricano ed il loro autista ugandese sono stati trucidati nel parco nazionale Regina Elisabetta al confine con il Congo, dove vivono i gorilla di montagna. I carnefici farebbero parte di un gruppo ribelle islamista.
Tutta l’area del Sahel è zona rossa per rapimenti, minacce jihadiste e bande criminali. “Chi si mette in pericolo, per la legge italiana, deve poi risarcire le spese del soccorso - fa notare Minasi - Questo principio vale anche per l’estero, ma finora non è mai stato applicato. Altri paesi lo fanno”.
Zumbini spiega sul suo blog: “Mi avventuro verso mete di viaggio pericolose, sconsigliate, remote, estreme. O anche in luoghi dove sono accaduti eventi terribili per cause naturali o umane”. Secondo il viaggiatore estremo “se cerchi la foto stupida per Instagram a Khartoum, rischiando la vita, la Farnesina non dovrebbe venire a recuperarti”. Nettamente contrario a far pagare allo Stato un riscatto in caso di rapimento si tutela con un’adeguata assicurazione che “preveda l’evacuazione medica”.
Sacco, la blogger di viaggi più attenta nelle destinazioni a rischio, ammette che “come guida il dispiacere è assistere, a volte, al completo disinteresse del turista avventuroso per la cultura locale. Il posto incontaminato diventa solo un palcoscenico da selfie. Non hanno il vero senso del viaggiare”.
Fausto Biloslavo
[continua]

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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14 marzo 2015 | Tgr Friuli-Venezia Giulia | reportage
Buongiorno regione
THE WAR AS I SAW IT - L'evento organizzato dal Club Atlantico giovanile del Friuli-Venezia Giulia e da Sconfinare si svolgerà nell’arco dell’intera giornata del 10 marzo 2015 e si articolerà in due fasi distinte: MATTINA (3 ore circa) ore 9.30 Conferenza sul tema del giornalismo di guerra Il panel affronterà il tema del giornalismo di guerra, raccontato e analizzato da chi l’ha vissuto in prima persona. Per questo motivo sono stati invitati come relatori professionisti del settore con ampia esperienza in conflitti e situazioni di crisi, come Gianandrea Gaiani (Direttore responsabile di Analisi Difesa, collaboratore di diverse testate nazionali), Fausto Biloslavo (inviato per Il Giornale in numerosi conflitti, in particolare in Medio Oriente), Elisabetta Burba (firma di Panorama), Gabriella Simoni (inviata Mediaset in numerosi teatri di conflitto, specialmente in Medio Oriente), Giampaolo Cadalanu (giornalista affermato, si occupa di politica estera per La Repubblica). Le relazioni saranno moderate dal professor Georg Meyr, coordinatore del corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche dell’Università di Trieste. POMERIGGIO (3 ore circa) ore 14.30 Due workshop sul tema del giornalismo di guerra: 1. “Il reporter sul campo vs l’analista da casa: strumenti utili e accorgimenti pratici” - G. Gaiani, G. Cadalanu, E. Burba, F. Biloslavo 2. “Il freelance, l'inviato e l'addetto stampa in aree di crisi: tre figure a confronto” G. Simoni, G. Cuscunà, cap. B. Liotti

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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