Dimenticato fra i dimenticati

Viviamo in un tempo in cui la retorica dei “dimenticati” è diventata una citazione d’obbligo, un mantra salvifico, qualche volta addirittura una bandiera: ci sono le guerre dimenticate, e ci sono intere folle dimenticate, negli angoli del mondo e delle nostre città, nei cantieri di lavoro e sulle spiagge dell’immigrazione clandestina. Ci sono i dimenticati nelle pieghe della storia: armeni o istriani, cosacchi o ceceni. Vengono citati, di quando in quando, con rassegnazione o con rabbia, con invettiva politica o con malinconica resa alle ingiustizie del mondo, e spesso, con la sola volontà di contrapporli a qualche altro dramma, in una specie di algebra triste dei mali del mondo. E poi ci sono i dimenticati dei dimenticati, come Almerigo Grilz. In un altro paese, Grilz figurerebbe tra i primi, in una galleria dei caduti sul fronte del giornalismo di guerra, e la sua vita breve e avventurosa non avrebbe dovuto aspettare vent’anni, dopo la sua fine, per essere ricordata. E viene da chiedersi: perché? Non è la marginalità professionale, l’aver lavorato poco per testate italiane a spiegarlo: nel suo curriculum ci sono anche quelle collaborazioni, oltre a quelle per i grandi network americani. Non è Grilz, un Antonio Russo, un Enzo Baldoni o un Gabriele Torsello ante litteram. Quello che lo rende dimenticato alla cultura – così ricca di premi, targhe e dediche – della corporazione giornalistica, quello che lo rende straniero al ricordo del suo paese è, per dirla in maniera brutale, la scorrettezza della sua formazione politica, non l’incertezza dell’impegno professionale che lo portò a morire. E questo è insopportabile, e lo è ancora di più in un paese che si è congedato dalle ideologie, e che vede sedere, in parlamento e nelle stanze di direzione dell’informazione, ex di ogni bandiera.
Ex lo sono anch’io, e cresciuto non lontano dalla città di Almerigo Grilz.
Forse l’ho addirittura incontrato, in una delle scaramucce con le quali pensavamo di cambiare il mondo. Nella mia piccola città, ci si rivede ogni tanto, tra vecchi nemici.
E si sorride sull’impietosità degli anni, sulla generosità stupida delle nostre vite giovani, rallegrandosi a vicenda per la lealtà dei nostri scontri, e per aver scampato le scorciatoie di chi finì per crederci troppo. Ci si guarda, e si constata come la vita ci abbia condotto altrove, impietosa e generosa allo stesso tempo. Ad Almerigo Grilz questa magnanimità cassatoria del tempo trascorso non viene concessa. Quel suo congedo dalla politica per dedicarsi a un giornalismo tanto più vero del giornalismo che oggi ci assedia di pettegolezzi e di indiscrezioni, sembra non avere dignità, non è stato un passaporto per l’armistizio: resta un irregolare, resta un dimenticato più di ogni altro dimenticato. Un qualche risarcimento postumo lo hanno trovato persino le vittime del triangolo rosso e una giornata di fiacca memoria è riservata alle vittime delle foibe, ma Almerigo Grilz resta nel girone di coloro che sono banditi dal ricordo, orfani, a volte dimenticati dalle loro stesse famiglie. Non ho spiegazioni da dare. In un certo senso, mi ricorda la figura di Fabrizio Quattrocchi, che lasciò così increduli gli italiani. Ma Grilz non era un vigilante, anche se L’Unità lo trattò da mercenario. Morì da giornalista, ignoto alle troppe retoriche sugli inviati. Il nostro sindacato gli nega una lapide: non era un iscritto. Ma chi, come Gian Micalessin e Fausto Biloslavo – che non ne parla per naturale discrezione ma patì, da vivo, molti anni fa una simile discriminazione in Afghanistan, da parte della nostra corporazione – chi come il sottoscritto, chi continua a fare qualcosa negli angoli del mondo, sa in qualche modo di continuare lo stesso lavoro di almeno cinque colleghi e concittadini: Hrovatin, Luchetta, Ota, D’Angelo e Grilz. Avevano tutti la tessera dell’Ordine, se interessa a qualcuno. Certo, sono caduti tutti per raccontare il disordine del mondo, senza tessera.

toni capuozzo | vicedirettore tg5 e inviato di guerra

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