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Articolo
28 dicembre 2018 - Prima - Italia - Il Giornale |
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| I soldati italiani vittime della “sindrome del Vietnam” |
Fausto Biloslavo «L\\\'onda d\\\'urto dell\\\'autobomba mi ha catapultato al di là di un muretto riparandomi dalle schegge. Subito dopo l\\\'esplosione ho scavato fra le macerie recuperando con le mani insanguinate tre dei nostri feriti. Una volta tornato a casa è crollato tutto. Dormivo con un coltello da combattimento sotto il cuscino e ho pensato più volte di suicidarmi». Nella lunga e amara lettera scritta da Fernando, che vive in Toscana, non c\\\'è solo il dramma del conflitto in Afghanistan, ma la cicatrice invisibile che gli ha lasciato nella mente. Anche i militari italiani sono stati colpiti dalla «sindrome del Vietnam», i disturbi post traumatici da stress di combattimento (Dpts) provocati da eventi drammatici come un attacco kamikaze, i combattimenti contro i talebani o gli scontri in Irak durante le nostre guerre di pace. I sintomi sono incubi terribili, crisi di panico, aggressività, istinti suicidi, ma i numeri dei soldati che hanno la guerra dentro sono ancora un tabù. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha ordinato «un bilancio totale corretto e reale» sui militari colpiti da disturbi psicologici, dopo le missioni in zone di guerra. Per ora si conosce solo la punta dell\\\'iceberg: dal 2009 al 2018 sono stati rimpatriati dai teatri operativi 222 militari con problemi mentali di vario genere. Dal 2005 al 2011 i casi accertati erano stati 267. Per vergogna, ignoranza, ostacoli burocratici, o problemi legati ai riconoscimenti economici la malattia fantasma è rimasta a lungo un tabù. «Bisogna rassicurare i soldati che hanno bisogno di assistenza sul fatto che chiedere aiuto psicologico non provocherà in automatico problemi di carriera - ha dichiarato il ministro Trenta - e che un percorso di recupero ben fatto può renderli anche più resilienti e forti a vantaggio dell\\\'esigenza operativa». Il primo maresciallo Fernando, che non vuole fare sapere a tutti il cognome ricorda come «il 30 giugno 2011 i talebani abbiano fatto saltare un\\\'autobomba davanti alla sede del Prt con l\\\'obiettivo di aprire una breccia e fare entrare altri kamikaze». Veterano delle missioni all\\\'estero dai Balcani al Libano si salva per miracolo dall\\\'esplosione e impugna la pistola per fronteggiare il nemico. Poi scava con le mani fra le macerie per salvare i commilitoni. «Al rientro in Italia sono cominciati gli incubi, l\\\'insonnia, le allucinazioni su ombre che vedevo in casa, l\\\'aggressività e gli sbalzi di umore. Il primo anno dopo l\\\'attentato l\\\'ho passato chiuso nel mio studio dove uscivo solo per mangiare e andare al bagno - spiega Fernando affetto da stress post traumatico - Ho pensato di buttarmi giù dal balcone e rischiato di accoltellare mia moglie e mio figlio in momenti d\\\'ira. Per stare male non devi avere perso per forza un braccio o una gamba». Rachele Magro, psicoterapeuta, si è occupata di diversi casi di stress da combattimento: «Uno dei ragazzi andava in giro armato dopo essere rientrato in Italia per paura che qualcuno volesse fargli del male. Altri sono stati lasciati dalle consorti per i loro disturbi. Molti si sono attaccati alla bottiglia o usano psicofarmaci per offuscare i ricordi, ma non serve a nulla». Pure le donne soldato sono state colpite dalla «sindrome del Vietnam». Sulla pagina Facebook del ministro della Difesa, l\\\'ex militare Valeria Monachella ha scritto: «In Afghanistan ho subito un attacco terroristico con la brigata Sassari () Invece di aiutarmi a riprendermi da una sindrome da stress post traumatica conclamata, l\\\'esercito mi ha messo alla porta ()». Magro, che è presidente del gruppo l\\\'«Altra metà della divisa», composto da familiari dei nostri militari, rivela che «come associazione abbiamo evitato 5 suicidi dovuti al disturbo post traumatico solo nell\\\'ultimo anno. E temo che possano aumentare sensibilmente». In settembre è stato inaugurato dal ministro Trenta, presso l\\\'ospedale militare il Celio di Roma, il Centro veterani che si occuperà anche dei militari affetti da Dpts. «Talvolta si nascondono per omertà e timore di cosa può pensare il commilitone o la comunità dove vivi, ma chi è afflitto da disturbi post traumatici può e deve parlare», sottolinea Gianfranco Paglia, medaglia d\\\'oro al valor militare dopo essere rimasto paralizzato durante la battaglia del pastificio in Somalia nel 1993. «Ai miei tempi il problema non veniva preso in considerazione. Adesso l\\\'esercito sta cercando di avere due psicologi per brigata e uno fisso in teatro di operazioni - spiega Paglia costretto da un proiettile su una sedia a rotelle - In ottobre quando a Mogadiscio un nostro convoglio è stato attaccato da un kamikaze la Difesa ha inviato subito una squadra di psicologi». I problemi della malattia invisibile sono anche di altro genere e riguardano la ritrosia delle Commissioni militari ospedaliere sul territorio a riconoscere il Dpts. «Alcune sono più flessibili - ha scritto nella lettera denuncia Fernando - Ma siamo arrivati all\\\'assurdo di tentare di catalogare un attentato con una moto imbottita di esplosivo, che fece ribaltare il Lince, come incidente stradale». Anche nel privato c\\\'è chi ne approfitta: «Il primo medico legale a cui mi sono rivolto, una psichiatra di Firenze, mi aveva scambiato per un bancomat. Mi convocava per nulla e ogni volta mi chiedeva 100 euro». Al maresciallo sopravvissuto all\\\'Afghanistan era stata riconosciuta un\\\'invalidità del 24%, che per un punto non concede il diritto alla pensione seppure minima. Così ha dovuto fare causa al ministero della Difesa ottenendo il riconoscimento del 63% di invalidità complessiva. «Esiste un sottobosco o meglio dire una giungla di faccendieri che lucrano sulle persone come noi - spiega Fernando - Compresi legali che prendono sostanziose percentuali pure sugli interessi maturati allungando la causa di tre o quattro anni». Tutto a carico del militare che deve sborsare dai 45mila ai 60mila euro. La lettera di Fernando si conclude con un amaro sfogo: «La morale di questa storia è che sono stato ferito più volte dall\\\'attentato, dalle Commissioni militari ospedaliere, dagli avvocati, dai medici legali, dall\\\'Inps. Alla fine quello che mi ha fatto saltare in aria è stato il più degno di tutti». |
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05 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
Islam, matrimoni forzati e padri assassini
Nosheen, la ragazza pachistana, in coma dopo le sprangate del fratello, non voleva sposarsi con un cugino in Pakistan.
Il matrimonio forzato era stato imposto dal padre, che ha ucciso a colpi di mattone la madre della giovane di 20 anni schierata a fianco della figlia. Se Nosheen avesse chinato la testa il marito, scelto nella cerchia familiare, avrebbe ottenuto il via libera per emigrare legalmente in Italia.
La piaga dei matrimoni combinati nasconde anche questo. E altro: tranelli per rimandare nella patria d’origine le adolescenti dove le nozze sono già pronte a loro insaputa; e il business della dote con spose che vengono quantificate in oro o migliaia di euro.
Non capita solo nelle comunità musulmane come quelle pachistana, marocchina o egiziana, ma pure per gli indiani e i rom, che sono un mondo a parte.
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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz e tutti i caduti sul fronte dell'informazione
Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.
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30 aprile 2020 | Tg5 | reportage
L'anticamera dell'inferno
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Per noi in prima linea c’è il timore che il ritorno alla vita normale auspicata da tutti possa portare a un aumento di contagi e dei ricoveri di persone in condizioni critiche” ammette Gianfranco, veterano degli infermieri bardato come un marziano per proteggersi dal virus. Dopo anni in pronto soccorso e terapia intensiva lavorava come ricercatore universitario, ma si è offerto volontario per combattere la pandemia. Lunedì si riapre, ma non dimentichiamo che registriamo ancora oltre 250 morti al giorno e quasi duemila nuovi positivi. I guariti aumentano e il contagio diminuisce, però 17.569 pazienti erano ricoverati con sintomi fino al primo maggio e 1578 in rianimazione. Per entrare nel reparto di pneumologia semi intensiva respiratoria dell’ospedale di Cattinara a Trieste bisogna seguire una minuziosa procedura di vestizione. Mascherina di massima protezione, tuta bianca, copri scarpe, doppi guanti e visiera per evitare il contagio. Andrea Valenti, responsabile infermieristico, è la guida nel reparto dove si continua a combattere, giorno e notte, per strappare i contagiati alla morte. Un grande open space con i pazienti più gravi collegati a scafandri o maschere che li aiutano a respirare e un nugolo di tute bianche che si spostano da un letto all’altro per monitorare o somministrare le terapie e dare conforto. Un contagiato con i capelli grigi tagliati a spazzola sembra quasi addormentato sotto il casco da marziano che pompa ossigeno. Davanti alla finestra sigillata un altro paziente che non riesce a parlare gesticola per indicare agli infermieri dove sente una fitta di dolore. Un signore cosciente, ma sfinito, con i tubi dell’ossigeno nel naso è collegato, come gli altri, a un monitor che segnala di continuo i parametri vitali. “Mi ha colpito un paziente che descriveva la sensazione terribile, più brutta del dolore, di non riuscire a respirare. Diceva che “è come se mi venisse incontro la morte”” racconta Marco Confalonieri direttore della struttura complessa di pneumologia e terapia intensiva respiratoria al dodicesimo piano della torre medica di Cattinara. La ventilazione non invasiva lascia cosciente il paziente che a Confalonieri ha raccontato come “bisogna diventare amico con la macchina, mettersi d’accordo con il ventilatore per uscire dal tunnel” e tornare alla vita.
Una “resuscitata” è Vasilica, 67 anni, operatrice di origine romena di una casa di risposo di Trieste dove ha contratto il virus. “Ho passato un inferno collegata a questi tubi, sotto il casco, ma la voglia di vivere e di rivedere i miei nipoti, compreso l’ultimo che sta per nascere, ti fa sopportare tutto” spiega la donna occhialuta con una coperta sulle spalle, mascherina e tubo per l’ossigeno. La sopravvissuta ancora ansima quando parla del personale: “Sono angeli. Senza questi infermieri, medici, operatori sanitari sarei morta. Lottano ogni momento al nostro fianco”.
Il rumore di fondo del reparto è il ronzio continuo delle macchine per l’ossigeno. L’ambiente è a pressione negativa per aspirare il virus e diminuire il pericolo, ma la ventilazione ai pazienti aumenta la dispersione di particelle infette. In 6 fra infermieri ed un medico sono stati contagiati. “Mi ha colpito la telefonata di Alessandra che piangendo ripeteva “non è colpa mia, non è colpa mia” - racconta Confalonieri con il volto coperto da occhialoni e maschera di protezione - Non aveva nessuna colpa, neppure sapeva come si è contagiata, ma si struggeva per dover lasciare soli i colleghi a fronteggiare il virus”.
Nicol Vusio, operatrice sanitaria triestina di 29 anni, ha spiegato a suo figlio che “la mamma è in “guerra” per combattere un nemico invisibile e bisogna vincere”. Da dietro la visiera ammette: “Me l’aspettavo fin dalla prime notizie dalla Cina. Secondo me avremmo dovuto reagire molto prima”. Nicol racconta come bagna le labbra dei pazienti “che con gli occhi ti ringraziano”. I contagiati più gravi non riescono a parlare, ma gli operatori trovano il modo di comunicare. “Uno sguardo, la rotazione del capo, il movimento di una mano ti fa capire se il paziente vuole essere sollevato oppure girato su un fianco o se respira male” spiega Gianfranco, infermiere da 30 anni.
Il direttore sottolinea che “il covid “cuoce” tutti gli organi, non solo il polmone e li fa collassare”, ma il reparto applica un protocollo basato sul cortisone che ha salvato una novantina di contagiati. Annamaria è una delle sopravvissute, ancora debole. Finalmente mangia da sola un piattino di pasta in bianco e con un mezzo sorriso annuncia la vittoria: “Il 7 maggio compio 79 anni”.
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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento |
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra
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15 marzo 2018 | Radio Radicale | intervento |
Italia
Missioni militari e interesse nazionale
https://www.radioradicale.it/scheda/535875/missioni-militari-e-interesse-nazionale
Convegno "Missioni militari e interesse nazionale", registrato a Roma giovedì 15 marzo 2018 alle 09:23. L'evento è stato organizzato da Center for Near Abroad Strategic Studies. Sono intervenuti: Paolo Quercia (Direttore del CeNASS, Center for Near Abroad Strategic Studies), Massimo Artini (vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, Misto - Alternativa Libera (gruppo parlamentare Camera)), Fausto Biloslavo (giornalista, inviato di guerra), Francesco Semprini (corrispondente de "La Stampa" da New York), Arije Antinori (dottore di Ricerca in Criminologia ed alla Sicurezza alla Sapienza Università di Roma), Leonardo di marco (generale di Corpo d'Armata dell'Esercito), Fabrizio Cicchitto (presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Area Popolare-NCD-Centristi per l'Europa). Tra gli argomenti discussi: Difesa, Esercito, Esteri, Forze Armate, Governo, Guerra, Informazione, Italia, Ministeri, Peace Keeping, Sicurezza. La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 46 minuti. Questo contenuto è disponibile anche nella sola versione audio
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