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29 luglio 2020 - Interni - Italia - Panorama
Giustizia per i nostri cari morti di covid
Fausto Biloslavo
“Ho perso mia madre il 9-05 e ho vissuto la vostra stessa impotenza da casa 😔. Leggere le Vostre storie mi strazia il cuore, ma allo stesso modo sento di non essere sola😔. Come avete ben scritto solo chi ha vissuto questo genere di perdita può capire...💔chissà se un giorno avremo le risposte che meritiamo….” scrive il 18 luglio, Stefania Cappello, sulla pagina Facebook di “Noi denunceremo”. Il comitato è nato per fare luce su errori e negligenze compiuti nell’affrontare la pandemia. L’obiettivo è ottenere giustizia per i propri cari spazzati via dal virus cinese. Il 13 luglio “Noi denunceremo - Verità e Giustizia per le vittime di Covid-19 ” ha inviato una lettera Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, chiedendo di “supervisionare le indagini in corso sull’epidemia di coronavirus in Italia”. I parenti delle vittime “cercano giustizia. E lo fanno consapevoli del fatto che l’Italia è un paese in cui l’establishment politico è particolarmente abile nell’insabbiare inchieste e creare capri espiatori”.
Luca Fusco, di mestiere commercialista, racconta a Panorama che “con mio figlio Stefano abbiamo fondato il gruppo su Facebook il 22 marzo, undici giorni dopo la morte di papà in una residenza per anziani bergamasca. Non  pensavamo che il gruppo crescesse così tanto. L’avevamo creato solo per condividere la morte di mio padre e del nonno di Stefano perché in quel periodo non si potevano celebrare funerali e ci pareva un modo per onorare la sua memoria”. Dopo due giorni gli iscritti erano 5mila e in una settimana sono raddoppiati. A metà luglio i membri della catena del dolore sono 60.249. Lo scopo è chiaro: “Insieme possiamo rendere giustizia ai nostri cari che non ci sono più, a chi ha sofferto e sta soffrendo a causa della diffusione del Covid-19 su tutto il territorio italiano. Se vuoi unirti alla nostra azione, clicca sul pulsante e invia la tua denuncia”. L’appello si legge sul sito di “Noi denunceremo”, che come copertina ha scelto la drammatica immagine dei camion militari che portano via i feretri delle vittime del virus di Bergamo, dove l’inceneritore non riusciva a cremare tutti i morti.
Il primo “denuncia day”, davanti alla procura di Bergamo, si è svolto il 10 giugno con la consegna di una cinquantina di esposti rigorosamente contro ignoti. Nella città lombarda massacrata dal virus c’è un pool guidato dalla pm Maria Cristina Rota, che il 12 giugno ha sentito a Roma il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte e i ministri Luciana Lamorgese e Roberto Speranza sulla mancata zona rossa vicino a Bergamo. Il 13 luglio, per il secondo “denuncia day”, sono stati presentati altri esposti, circa un centinaio. Non solo dal Nord Italia, ma pure dalla Puglia, Campania e per la prima volta una denuncia dalla capitale depositata dai figli di Rufino e Lina morti in casa, senza neppure avere potuto fare il tampone. “Abbiamo ricevuto altre 150 segnalazioni - rivela Fusco - Per questo prevediamo di organizzare un nuovo “denuncia day” in settembre”. Consuelo Locati è l’avvocato che guida il  team di legali di questa inedita azione legale di massa, che non prevede alcun risarcimento economico attraverso il comitato. Le denunce riguardano le carenze nella gestione dei pazienti, i lazzaretti che si sono creati nelle case di riposo, i dispositivi di protezione introvabili, ma anche la mancata istituzione di una zona rossa in Val Seriana oltre alla chiusura e pericolosa riapertura del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo.
“Mio papà Giovanni, mancato il 4 aprile, era in una RSA nel Piemonte, stava bene ma dopo una serie di negligenze madornali si è ammalato di Covid e in 10 giorni se ne è andato. Non ho più lacrime😔 Buona serata a tutti 🍀🙏” si sfoga Cristina Cretu sulla pagina Facebook di “Noi denunceremo”. Michelina Di Cesare si lamenta: “Non so se avete notato, ma delle tragedie che raccontate su questa pagina non se ne sente praticamente più parlare….”.
Annarita Pierri , che ha perso la mamma, vuole “giustizia come tutti voi  (…) Inoltre il virus potrebbe riprendersi in autunno e credo sinceramente che chi ha sbagliato così tanto non deve più ricoprire gli stessi posti di comando. Non ne faccio una questione politica. Non mi interessa niente del colore di bandiera”.
Una sessantina di promotori di “Noi denunceremo” ha scritto alla presidente della Commissione Ue, Von der Leyen e a Ròbert Ragnar Spanò alla guida della Corte europea dei diritti dell’uomo ricordando che solo Bergamo e Brescia contano 11mila morti sugli oltre 35mila registrati in Italia. I familiari delle vittime sono convinti che nella regione più colpita dal virus “sembrano esserci segni di indicibili crimini contro l’umanità”. La lettera-appello ricorda che “il 2 marzo e il 5 marzo l’Istituto Nazionale della Sanità ha consigliato al governo di chiudere Alzano Lombardo, Nembro in provincia di Bergamo e Orzinuovi (Brescia)” ma le cittadine dove il virus esplodeva “non furono mai chiuse nonostante l’esercito fosse pronto a ricevere la direttiva sull’applicazione della zona rossa”. E ancora: “Se i pubblici ministeri dovessero stabilire che le mancate zone rosse appartengono alla sfera della politica piuttosto che al diritto penale, risulterà chiaro come la decisione di non contenere la diffusione del virus, in accordo con i pareri della comunità scientifica, sia stata intenzionale”. Non solo: “Uno scenario ancora peggiore emergerebbe se il pool di consulenti scientifici nominati dal Tribunale di Bergamo potesse dimostrare mediante analisi epidemiologiche che l’intero paese dovette essere bloccato a causa dei ritardi delle autorità politiche nel prendere una decisione sul destino di queste tre città. Un blocco nazionale che ora sta causando ulteriori incertezze finanziarie in un’economia già stagnante”. Poi i firmatari puntano il dito contro la direttiva della regione Lombardia “che suggeriva agli ospedali di trasferire i pazienti con coronavirus a basso rischio in case di cura per liberare alcuni letti e far fronte alla incessante domanda durante tutta l’emergenza”. A Bergamo il 32,7% degli anziani ospiti delle case di riposo hanno perso la vita nei primi quattro mesi dell’anno e 1600 sono state le vittime a Brescia.
Le accuse alla regione a guida leghista ha provocato la reazione di Matteo Salvini. “Smettiamo di gettare fango sulla Lombardia – ha commentato il leader della Lega - Porto enorme rispetto per i parenti delle vittime”, ma “siamo concreti. Le cosiddette zone rosse erano competenza del Governo. È giusto chiedere chiarezza e se qualcuno ha sbagliato paghi, però prendersela con il medico di Codogno o con il sindaco del paesino è veramente ingeneroso”.
Sul comitato fioccano accuse di “giustizialismo” e caccia alla streghe contro medici e infermieri. Luca Fusco sottolinea che “vedere le persone in galera non è il nostro scopo. L’obiettivo primario è fare emergere attraverso le indagini le debolezze del sistema sanitario regionale” e arrivare “ad una riforma” per evitare che in futuro si ripetano gli stessi errori. I fondatori di “Noi denunceremo” ribadiscono: “Non siamo giustizialisti. Per noi i medici sono le prime vittime di questa tragedia”. Anche se diverse testimonianze del gruppo, alla base degli esposti, puntano il dito contro i camici bianchi. \"Le cure sono state troppo tardive - racconta la moglie di Pietro ucciso dal virus - Il rianimatore chiama mia figlia Stefania e con aggressività e assoluta mancanza di rispetto dice che tanto non ci sono speranze per suo padre, che ha intubato un muro (frase intollerabile)”. Però le stesse regole del comitato prevedono che “non sarà possibile presentare denuncia verso ospedali, medici e personale sanitario”.
Sulle pesanti accuse “di crimini contro l’umanità”, forse esagerate, il presidente Fusco, risponde a Panorama che “sarà un magistrato a stabilirlo. E se non dovessimo essere soddisfatti dalle conclusioni della giustizia ordinaria, impugneremo la sentenza facendo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”.

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07 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Parla il sopravvissuto al virus
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il sopravvissuto sta sbucciando un’arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall’anticamera dell’inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa. Quarantadue anni, atleta e istruttore di arti marziali ai bambini, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l’hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall’infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso. Cosa ricorda di questa discesa all’inferno? “Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più”. Dove ha trovato la forza? “Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, in cinta da otto mesi e di nostra figlia di 7 anni. Ti aggrappi a quello che conta nella vita. E poi c’erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere”. Gli operatori sanitari dell’ospedale? “Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l’alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole”. Il momento che non dimenticherà mai? “Quando mi hanno estubato. E’ stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo”. Come ha recuperato le forze? “Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l’alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito”. Come è stato infettato? “Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l’ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo”. E la sua famiglia? “Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste”. Ha pensato di non farcela? “Ero stanco di stare male con la febbre sempre a 39,6. Speravo di addormentarmi in terapia intensiva e di risvegliarmi guarito. Non è andata proprio in questo modo, ma è finita così: una vittoria per tutti”.

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05 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
Islam, matrimoni forzati e padri assassini
Nosheen, la ragazza pachi­stana, in coma dopo le spranga­te del fratello, non voleva spo­sarsi con un cugino in Pakistan. Il matrimonio forzato era stato imposto dal padre, che ha ucci­so a colpi di mattone la madre della giovane di 20 anni schiera­ta a fianco della figlia. Se Noshe­e­n avesse chinato la testa il mari­to, scelto nella cerchia familia­re, avrebbe ottenuto il via libera per emigrare legalmente in Ita­lia. La piaga dei matrimoni com­binati nasconde anche questo. E altro: tranelli per rimandare nella patria d’origine le adole­scenti dove le nozze sono già pronte a loro insaputa; e il busi­ness della dote con spose che vengono quantificate in oro o migliaia di euro. Non capita solo nelle comuni­tà musulmane come quelle pa­chistana, marocchina o egizia­na, ma pure per gli indiani e i rom, che sono un mondo a par­te.

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29 dicembre 2011 | SkyTG24 | reportage
Almerigo ricordato 25 anni dopo
Con un bel gesto, che sana tante pelose dimenticanze, il presidente del nostro Ordine,Enzo Iacopino, ricorda davanti al premier Mario Monti, Almerigo Grilz primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 19 maggio 1987 in Mozambico.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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