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Articolo
28 ottobre 2020 - Esteri - Italia - Panorama |
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Le 7 missioni perdute |
Fausto Biloslavo In Iraq sono rimasti 300 soldati italiani, meno di un terzo del contingente, causa Covid e americani sotto tiro che stanno riducendo le truppe. In Afghanistan la base di Herat sembra la fortezza Bastiani del deserto dei Tartari, dove si attende l’arrivo dei talebani. Quella in Kosovo è la missione più longeva e usurata, che va avanti da 21 anni. “Manca del tutto una visione strategica a lungo respiro soprattutto sul dopo intervento militare. La Libia è un esempio lampante. Ci occupiamo di un sacco di situazioni post conflitto, dove la crisi non è mai passata e non sappiamo come uscirne” sentenzia il generale in congedo, Fabio Mini, che è stato comandante in Kosovo. Le missioni internazionali sono aumentate a 41 con un impegno di 8.613 uomini (che costano 1 miliardo e 129 milioni di euro), anche se in realtà quelle con un contingente significativo sono 17. E fra queste 7 sono nuove, ma discutibili, a rischio ritiro o usurate: Golfo di Guinea, task force Takuba, Afghanistan, Iraq, Libia, Niger e Kosovo. L’asse delle missioni nel 2020 si è spostato sull’Africa comprese le novità in appoggio alla Francia. A cominciare dalla partecipazione alla task force Takuba, guidata da Parigi, per contrastare la minaccia jihadista nel Sahel. “Il nostro contributo è importante per i francesi. Siamo gli unici a garantire un supporto di elicotteri cruciale, soprattutto per l’evacuazione medica, che verrà dispiegato il prossimo anno. Altri si sono defilati” conferma a Panorama una fonte militare. La missione ci costerà 15.627.178 €. “Che il Pd sia il partito più francese d’Italia non è una novità. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, aveva annunciato una maggiore sinergia con la Francia. Bisogna capire se questo impegno a fianco di Parigi riflette il nostro interesse nazionale e quali siano le contropartite” spiega a Panorama, Gianandrea Gaiani direttore di Analisi Difesa. La liberazione in Mali degli ostaggi italiani, padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio è un “cadeau”, un regalo del Dsge (Direction generale de la securite d’Etat), i servizi d’Oltralpe che avevano avviato “un’intensa e meticolosa attività di cooperazione” con l’Aise, la nostra intelligence all’estero come ha fatto sapere Palazzo Chigi. Assieme all’ostaggio francese Sophie Pétronin e al politico locale, Soumaila Cissé, sono stati inseriti nel pacchetto i due italiani liberati in cambio di 180 prigionieri jihadisti nelle carceri del Mali. “Si spera anche che i francesi premano sul Niger per la concessione necessaria alla nostra base che attendiamo da tempo” rivela la fonte militare. Una missione “perduta” iniziata nel 2018 e solo parzialmente decollata per migliorare le capacità delle forze locali sul confine libico porta d’ingresso dei migranti illegali. La nuova missione anti pirateria nel Golfo di Guinea con la fregata Martinengo serve a “proteggere gli asset estrattivi di Eni” e nell’area “la Francia conduce la missione anti-pirateria Corymbe” si legge nella scheda dell’operazione votata dal Parlamento. L’impiego previsto è di 400 uomini, 2 mezzi navali e 2 velivoli con un costo di 9.810.838 €. Un’altra convergenza con Parigi, che però non paga a Bruxelles. Il 30 settembre è scaduto il mandato al vertice di Eubam Libia dell’italiano Vincenzo Tagliaferri. Una missione sul controllo dei confini libici, che ci interessa per i migranti. Al suo posto doveva essere nominata la connazionale Natalina Cea, ma la selezione è stata annullata e si rifarà il 2 novembre. “I francesi vogliono farla da padroni e si stanno accaparrando gli incarichi importanti” spiega una fonte di alto livello di Panorama. “Per Eubam Libia puntano ad uno dei loro perché la missione potrebbe venire ampliata per monitorare il cessate il fuoco. Così la Francia, non amata da Tripoli, tornerebbe in gioco” spiega la fonte riservata. Il generale Claudio Graziano, presidente del Comitato militare dell\'Unione europea, propone, al contrario, di allargare i compiti dell’asfittica missione Irini sul controllo dell’embargo sulle armi alla Libia guidata dall’ammiraglio Fabio Agostini. “Irini, potenziata con mezzi e uomini a terra, può monitorare il cessate il fuoco” rivela la fonte qualificata. Altre missioni “perdute” sono quelle in Libia, Afghanistan e Iraq. Nell’ex regno di Gheddafi, sprofondato nel caos, spendiamo 48 milioni di euro l’anno. L’ospedale da campo di Misurata si sposterà trasformandosi in una missione sanitaria dai contorni incerti. La nave della Marina che appoggia la Guardia costiera nel contrasto all’immigrazione clandestina è l’unico punto fermo. E aumenteremo l’addestramento delle forze libiche oltre a sminare le aree di Tripoli interessate dal fallito assedio. “Però il peso dell’Italia, rispetto al passato, è quello di una comparsa - sottolinea Gaiani - I veri attori sono turchi, russi, egiziani, emiratini e ha un ruolo anche il Qatar”. E lo dimostra l’umiliazione inflitta al governo italiano da Khalifa Haftar, il generale della Cirenaica che dal primo settembre tiene prigionieri 18 pescatori di Mazara del Vallo. “Dovremmo inviare un gruppo navale davanti a Bengasi. Non per bombardare la Libia, ma come forza di deterrenza in aggiunta alla diplomazia. E segnale non solo per Haftar, ma pure per suoi padrini” sostiene Gaiani. Sull\'Afghanistan il Capo di stato maggiore, Enzo Vecciarelli, ha già annunciato il ritiro a giugno del prossimo anno, ma manca la decisione politica definitiva. La missione continua a costare 159,7 milioni di euro l’anno con 800 uomini in gran parte asserragliati nella fortezza Bastiani di Herat. I talebani, che non hanno diminuito gli attacchi, continuano a negoziare con Kabul e sfilano impunemente nella provincia di Logar in una specie di parata della vittoria. Nei primi mesi del prossimo anno le truppe Usa saranno ridotte a soli 2500 uomini. In Iraq la situazione è paradossale. Dei 1100 uomini previsti dal decreto missioni sono rimasti appena 300 ad Erbil, nel nord del paese. Il grosso degli addestratori è rientrato in patria causa Covid. Non solo: il comandante americano della missione contro l’Isis ha cancellato il programma a giugno. Assieme allo schieramento aereo in Kuwait stiamo parlando dell’intervento più costoso di 263 milioni di euro. Washington fra attacchi delle milizie sciite e richieste del governo iracheno ridurrà il contingente da 5200 a 3000 uomini. Dopo gli inglesi è l’Eni ad avere la fetta più ampia delle concessioni irachene con il giacimento di Zubair, che punta a 700mila barili di petrolio al giorno. La presenza militare italiana sarebbe strategica. “In Afghanistan siamo arrivati con gli americani dopo l’11 settembre e ce ne andiamo con loro - osserva Gaiani - In Iraq sta capitando qualcosa di simile. La riduzione delle forze italiane va di pari passo a quelle Usa. Ritiri che non sono missioni compiute, ma dimostrano l’incapacità dell’Occidente di gestire operazioni di contro insorgenza a lungo termine”. In Kosovo, dopo 21 anni, abbiamo ancora 682 uomini che assorbono 80,8 milioni di euro. “Con gli equilibri cristallizzati fra serbi e albanesi non si va né avanti, né indietro - sostiene l’ex generale Mini - Bisognerebbe avere il coraggio di andarsene o almeno di cambiare radicalmente scopo e struttura della missione”. Un ufficiale in servizio fa notare, però, che “i Balcani sono un’area di interesse strategico primario, come la Libia, non solo per la stabilità alle porte di casa, ma per i flussi dei migranti della rotta balcanica e il contrasto all’egemonia turca”. |
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29 dicembre 2011 | SkyTG24 | reportage
Almerigo ricordato 25 anni dopo
Con un bel gesto, che sana tante pelose dimenticanze, il presidente del nostro Ordine,Enzo Iacopino, ricorda davanti al premier Mario Monti, Almerigo Grilz primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 19 maggio 1987 in Mozambico.
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03 febbraio 2012 | UnoMattina | reportage
Il naufragio di nave Concordia e l'allarme del tracciato satellitare
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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo
"Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti.
Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”.
Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento".
Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc.
La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos.
Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra.
Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".
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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento |
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo
I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti.
“Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale.
I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria.
Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa.
In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo.
“In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani.
Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.
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