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14 settembre 2022 - Interni - Italia - Panorama
Delivery in carcere
Il bimbo pensava fosse un gioco entrare nel carcere di Ariano Arpino a trovare il papà dietro le sbarre. Quando è suonato il metal detector, che segnalava qualcosa di anomalo, l’aveva preso come una parte del gioco. I baschi azzurri della polizia penitenziaria ne hanno viste tante e conoscono tutti i sotterfugi per introdurre qualcosa di illegale dietro le sbarre.  Il 14 gennaio, però, sono rimasti a bocca aperta scoprendo “occultato sotto il pantaloncini del bimbo, un involucro ricoperto da nastro adesivo” ha raccontato Emilio Fattorello, segretario per la Campania del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). Dentro l’involucro c’erano due telefoni cellulari, ma il destinatario del pacchetto, il detenuto per reati comuni, F. F., non è nuovo a storie del genere. “Aveva già tentato, in un carcere diverso, di fare entrare droga nel pannolino di un altro figlio” denuncia il sindacalista.
Droni per consegne volanti, alimenti o palloni imbottiti di micro telefonini o sostanze stupefacenti per non parlare degli indumenti utilizzati come nascondigli per il “delivery” illegale nelle carceri.
Lo scorso anno sono stati sequestrati 1.274 telefoni cellulari o sim e scoperti 528 casi di contrabbando di droga. I droni sono uno dei sistemi più utilizzati per le consegne. “Le carceri italiane da tempo sono diventati veri e propri aeroporti dove è possibile atterrare e consegnare facilmente ai detenuti telefonini, droga e persino armi” ha scritto in giugno, Aldo Di Giacomo, sul portale del sindacato del Corpo di polizia penitenziaria.
Nei primi mesi dell’anno l’istituto penitenziario di Secondigliano era stato sorvolato da numerosi droni, che avrebbero consegnato una sessantina telefonini. Alcuni, intercettati, trasportavano microcellulari lunghi 7 centimetri. Il 19 febbraio, durante una perquisizione nel reparto S3 sono stati scoperti una decina di telefonini e una trentina di grammi di hashish. Fattorello ha lanciato l’allarme: “A Secondigliano la situazione è diventata insostenibile. Per centinaia di metri di muro di cinta ci sono soltanto due o al massimo tre guardie armate. Quasi impossibile, quindi, contrastare l\'introduzione di droga, cellulari e, forse, anche armi, con i droni».
Basta un buon tecnico che per 80 euro rimuova le limitazioni al volo dei droni, facili da acquistare, adattandoli al trasporto illegale. Il caso più grave è accaduto il 19 settembre dello scorso anno quando un drone ha consegnato una pistola calibro 7.65 a un detenuto, che ha sparato a tre rivali nel carcere di Frosinone. Un vero e proprio Far west scatenato dal napoletano Alessio Peluso, detto \"\'O Niro”. \"Aspettava l\'arrivo di questo drone con cui gli è stata consegnata una pistola con matricola abrasa\" ha confermato il provveditore delle carceri del Lazio, Carmelo Cantone. Il drone sarebbe volato fino davanti alla finestra, in parte sbarrata, della cella di \"\'O Niro”.
Sul suo blog Di Giacomo ha sottolineato “che proprio come per gli aeroporti ci sono strumenti e sistemi tecnologici in grado di garantire il divieto di volo, “No Fly Zone”, che includono i penitenziari”, ma hanno un costo.
Il 23 giugno stava quasi per scattare la beffa al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, per la sua imminente visita all’istituto penale Uta di Cagliari. Poche ore prima gli agenti avevano scoperto dieci involucri che contenevano eroina, cocaina, marijuana, 95 grammi di hashish e un telefono cellulare controllando un detenuto che rientrava dal permesso premio. E’ capitato che un “corriere” avesse 4 micro telefonini nello stomaco oppure infilato mini cellulari e caricabatterie nel retto.
Il 27 agosto un ex detenuto ha provato  ad introdurre sei cellulari e mezzo etto di droga nel carcere di Marassi lanciando un pacchetto dall’esterno.
Le sim utilizzate dai pezzi grossi della criminalità pugliese nel carcere di Taranto erano intestate a stranieri, persone irreperibili oppure italiani ignari che avevano denunciato il furto d’identità. In questo caso, scoperto a febbraio, era coinvolto un agente di polizia penitenziaria che agevolava il “contrabbando” di droga e cellulari ottenendo in cambio dai 350 ai 1000 euro a consegna. Non solo: la droga veniva poi spacciata dentro il carcere, le sim o telefonini venduti o utilizzati in cambio di favori e sottomissione ai boss del “delivery”. I soldi arrivavano dai familiari tramite ricariche postepay.
“Non sappiamo più in quale lingua del mondo dire che le carceri devono essere tutte schermate all’uso di telefoni cellulari e qualsiasi altro apparato tecnologico che possa produrre comunicazioni” sostiene da tempo Donato Capece, segretario generale del Sappe. “L’hashish, la cocaina, l’eroina, la marijuana e il subutex - una droga sintetica che viene utilizzata anche presso il Sert (Servizio per le tossicodipendenze nda) per chi è in trattamento – spiega Capece - sono quelle più diffuse e sequestrate dai Baschi azzurri” in carcere.
Fino al decreto legge dell’8 settembre 2020 l’introduzione di cellulari dietro le sbarre era un illecito disciplinare. Adesso è un reato che prevede una pena da 1 a 4 anni. La norma è diventata necessaria dopo le ripetute denunce del Sappe sull’uso massiccio dei social da parte dei detenuti. Il preferito è Tik Tok, dove vengono postati filmati girati dentro le carceri, ma la rete serve anche a trasmettere informazioni e direttive all’esterno.
Nonostante il giro di vite legislativo continuano le “consegne”, più o meno ingegnose. Il 27 agosto è stato trovato un pallone da calcio pieno di telefonini destinato al carcere di Castrogno a Teramo. All’interno c’erano 4 micro cellulari, L8 star, completi di auricolari e video camera oltre ai carica batterie e 2 smartphone. Il sistema più banale per introdurre la droga è nasconderla nei pantaloni o altri indumenti destinati al detenuto oppure nelle scarpe ben occultata fra la suola ed il resto. Il fratello di un detenuto si era addirittura cucito le bustine di droga in una manica del vestito che indossava durante i colloqui in carcere.  
L’altro sistema che va per la maggiore sono gli alimenti portati da fuori. Il 31 luglio sono state scoperte nel carcere di Poggioreale a Napoli le salsicce alla cocaina preparate dalla moglie di un detenuto del circuito ad alta sicurezza. Tre giorni prima nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono stati intercettati “dei pacchi di carne cruda farcita all’ hashish”, ma i familairi hanno anche utilizzato le forme di formaggio ed i salami. Oppure le pentole, una batteria intera destinata al carcere di Avellino. Apparentemente perfette avevano un doppio fondo dove erano nascosti 19 microcellulari, 4 smartphone e 2 telefoni satellitari.
Solitamente sono coinvolti nel “delivery” familiari o accoliti, ma nel 2020 è capitato che gli agenti nell’istituto penale di Carinola in provincia di Caserta abbiano sequestrato nove cellulari. Li aveva occultati nelle confezioni di sigarette un sacerdote, che doveva celebrare la messa domenicale.
Fausto Biloslavo



[continua]

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29 dicembre 2011 | SkyTG24 | reportage
Almerigo ricordato 25 anni dopo
Con un bel gesto, che sana tante pelose dimenticanze, il presidente del nostro Ordine,Enzo Iacopino, ricorda davanti al premier Mario Monti, Almerigo Grilz primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 19 maggio 1987 in Mozambico.

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14 maggio 2020 | Tg5 | reportage
Trieste, Lampedusa del Nord Est
Fausto Biloslavo TRIESTE - Il gruppetto è seduto sul bordo della strada asfaltata. Tutti maschi dai vent’anni in su, laceri, sporchi e inzuppati di pioggia sembrano sfiniti, ma chiedono subito “dov’è Trieste?”. Un chilometro più indietro passa il confine con la Slovenia. I migranti illegali sono appena arrivati, dopo giorni di marcia lungo la rotta balcanica. Non sembra il Carso triestino, ma la Bosnia nord occidentale da dove partono per arrivare a piedi in Italia. Scarpe di ginnastica, tute e qualche piumino non hanno neanche uno zainetto. Il più giovane è il capetto della decina di afghani, che abbiamo intercettato prima della polizia. Uno indossa una divisa mimetica probabilmente bosniaca, un altro ha un barbone e sguardo da talebano e la principale preoccupazione è “di non venire deportati” ovvero rimandati indietro. Non sanno che la Slovenia, causa virus, ha sospeso i respingimenti dall’Italia. Di nuovo in marcia i migranti tirano un sospiro di sollievo quando vedono un cartello stradale che indica Trieste. Il capetto alza la mano in segno di vittoria urlando da dove viene: “Afghanistan, Baghlan”, una provincia a nord di Kabul. Il 12 maggio sono arrivati in 160 in poche ore, in gran parte afghani e pachistani, il picco giornaliero dall’inizio dell’anno. La riapertura della rotta balcanica sul fronte del Nord Est è iniziata a fine aprile, in vista della fase 2 dell’emergenza virus. A Trieste sono stati rintracciati una media di 40 migranti al giorno. In Bosnia sarebbero in 7500 pronti a partire verso l’Italia. Il gruppetto di afghani viene preso in carico dai militari del reggimento Piemonte Cavalleria schierato sul confine con un centinaio di uomini per l’emergenza virus. Più avanti sullo stradone di ingresso in città, da dove si vede il capoluogo giuliano, la polizia sta intercettando altri migranti. Le volanti con il lampeggiante acceso “scortano” la colonna che si sta ingrossando con decine di giovani stanchi e affamati. Grazie ad un altoparlante viene spiegato in inglese di stare calmi e dirigersi verso il punto di raccolta sul ciglio della strada in attesa degli autobus per portarli via. Gli agenti con le mascherine controllano per prima cosa con i termometri a distanza la temperatura dei clandestini. Poi li perquisiscono uno ad uno e alla fine distribuiscono le mascherine ai migranti. Alla fine li fanno salire sugli autobus dell’azienda comunale dei trasporti cercando di non riempirli troppo per evitare focolai di contagio. “No virus, no virus” sostiene Rahibullah Sadiqi alzando i pollici verso l’alto in segno di vittoria. L’afghano è partito un anno fa dal suo paese e ha camminato per “dodici giorni dalla Bosnia, attraverso la Croazia e la Slovenia fino all’Italia”. Seduto per terra si è levato le scarpe e mostra i piedi doloranti. “I croati mi hanno rimandato indietro nove volte, ma adesso non c’era polizia e siamo passati tutti” spiega sorridendo dopo aver concluso “il gioco”, come i clandestini chiamano l’ultimo tratto della rotta balcanica. “Abbiamo registrato un crollo degli arrivi in marzo e per gran parte di aprile. Poi un’impennata alla fine dello scorso mese fino a metà maggio. L’impressione è che per i paesi della rotta balcanica nello stesso periodo sia avvenuta la fine del lockdown migratorio. In pratica hanno aperto i rubinetti per scaricare il peso dei flussi sull’Italia e sul Friuli-Venezia Giulia in particolare creando una situazione ingestibile anche dal punto di vista sanitario. E’ inaccettabile” spiega l'assessore regionale alla Sicurezza Pierpaolo Roberti, che punta il dito contro la Slovenia. Lorenzo Tamaro, responsabile provinciale del Sindacato autonomo di polizia, denuncia “la carenza d’organico davanti all’emergenza dell’arrivo in massa di immigrati clandestini. Rinnoviamo l’appello per l’invio di uomini in rinforzo alla Polizia di frontiera”. In aprile circa il 30% dei migranti che stazionavano in Serbia è entrato in Bosnia grazie alla crisi pandemica, che ha distolto uomini ed energie dal controllo dei confini. Nella Bosnia occidentale non ci sono più i campi di raccolta, ma i migranti bivaccano nei boschi e passano più facilmente in Croazia dove la polizia ha dovuto gestire l’emergenza virus e pure un terremoto. Sul Carso anche l’esercito impegnato nell’operazione Strade sicure fa il possibile per tamponare l’arrivo dei migranti intercettai pure con i droni. A Fernetti sul valico con la Slovenia hanno montato un grosso tendone mimetico dove vengono portati i nuovi arrivati per i controlli sanitari. Il personale del 118 entra con le protezioni anti virus proprio per controllare che nessuno mostri i sintomi, come febbre e tosse, di un possibile contagio. Il Sap è preoccupato per l’emergenza sanitaria: “Non abbiamo strutture idonee ad accogliere un numero così elevato di persone. Servono più ambienti per poter isolare “casi sospetti” e non mettere a rischio contagio gli operatori di Polizia. Non siamo nemmeno adeguatamente muniti di mezzi per il trasporto dei migranti con le separazioni previste dall’emergenza virus”. Gli agenti impegnati sul terreno non sono autorizzati a parlare, ma a denti stretti ammettono: “Se va avanti così, in vista della bella stagione, la rotta balcanica rischia di esplodere. Saremo travolti dai migranti”. E Trieste potrebbe trasformarsi nella Lampedusa del Nord Est.

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29 dicembre 2010 | | reportage
Gli occhi della guerra a Trieste
Dopo aver portato la mostra su 25 anni di reportage di guerra in tutta Italia, finalmente il 29 dicembre è stata inaugurata a Trieste, presso la sala espositiva della Parrocchia di Santa Maria Maggiore, via del Collegio 6. Gli occhi della guerra sono dedicati ad Almerigo Grilz e a tutti i giornalisti caduti sul fronte dell'informazione. La mostra rimarrà aperta al pubblico dal 10 al 20 gennaio. L'evento è stato organizzato dal Circolo universitario Hobbit con la sponsorizzazione della Regione.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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15 marzo 2018 | Radio Radicale | intervento
Italia
Missioni militari e interesse nazionale
https://www.radioradicale.it/scheda/535875/missioni-militari-e-interesse-nazionale Convegno "Missioni militari e interesse nazionale", registrato a Roma giovedì 15 marzo 2018 alle 09:23. L'evento è stato organizzato da Center for Near Abroad Strategic Studies. Sono intervenuti: Paolo Quercia (Direttore del CeNASS, Center for Near Abroad Strategic Studies), Massimo Artini (vicepresidente della Commissione Difesa della Camera dei deputati, Misto - Alternativa Libera (gruppo parlamentare Camera)), Fausto Biloslavo (giornalista, inviato di guerra), Francesco Semprini (corrispondente de "La Stampa" da New York), Arije Antinori (dottore di Ricerca in Criminologia ed alla Sicurezza alla Sapienza Università di Roma), Leonardo di marco (generale di Corpo d'Armata dell'Esercito), Fabrizio Cicchitto (presidente della Commissione Affari esteri della Camera, Area Popolare-NCD-Centristi per l'Europa). Tra gli argomenti discussi: Difesa, Esercito, Esteri, Forze Armate, Governo, Guerra, Informazione, Italia, Ministeri, Peace Keeping, Sicurezza. La registrazione video di questo convegno ha una durata di 2 ore e 46 minuti. Questo contenuto è disponibile anche nella sola versione audio

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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