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Reportage
07 agosto 2008 - Prima - Afghanistan - Il Foglio
Carlotta va alla guerra
KABUL - Occhi azzurri, capelli castani, minuta, Carlotta Gall sembra una tranquilla signora della campagna inglese. In realtà, a 46 anni, è la tostissima corrispondente dall’Afghanistan e dal Pakistan del New York Times. Scampata ad un attentato suicida, picchiata dai famigerati agenti dei servizi segreti pachistani, non porta il velo quando gira per Kabul. Si è guadagnata sul campo i galloni di giornalista di guerra, come fece suo padre, il grande reporter inglese Sandy Gall durante la guerra in Vietnam. “Non sono una giornalista kamikaze, ma a queste latitudini per trovare una bella storia bisogna assumersi dei rischi” spiega Carlotta sulla veranda della sua casa-ufficio a Kabul. Due piani con giardino, dove ogni stanza ha la mappa dettagliata di un paio di province afghane. Il “desk” con computer, telefoni satellitari, lavagne zeppe di appunti, è attaccato alla sala da pranzo. Si mangia un piatto di palao, il riso afghano e si scrive un pezzo, con gli orari sballati dal fuso orario. “Diciamo che non ho tempo per la vita sociale – osserva Carlotta – Questa, però, è la vita che volevo”.
La “sede” del New York Times a Kabul è in Wazir Akbar Khan, il quartiere residenziale della polverosa capitale afghana. Una sbarra con guardie armate blocca l’accesso della via. Poco più in là c’è l’ambasciata canadese. Una delle ultime auto bomba nella zona ha mandato in frantumi tutte le finestre della casa-ufficio di Carlotta Gall.
“Ho iniziato lavorando con una banca internazionale. Volevo viaggiare e vedere il mondo – racconta la corrispondente del New York Times - Papà mi diceva sempre: non fare la giornalista ti pagano poco ed è un lavoro duro”. Sandy Gall è uno dei più famosi inviati di guerra inglesi con 50 anni di reportage alle spalle. Il padre di Carlotta ha cominciato con la gloriosa agenzia Reuter raccontando la crisi di Suez del 1956, la rivolta ungherese e la guerra in Congo. Per la tv britannica Itn sbarcò con i marines in Vietnam. Alla caduta di Saigon venne cacciato a forza dal paese dai vietcong vittoriosi. “Ero piccola, ma ricordo bene la notizia in tv quando papà fu arrestato in Uganda ai tempi di Idi Amin” dice Carlotta parlando di una storia famosa. Fin da bambina venne su a pane e giornalismo, ma è la mamma Eleanor, amante di lingua e cultura italiane, che ha stuzzicato in lei la voglia di girare il mondo.
Carlotta studia russo e nel 1994 comincia l’avventura del giornalismo come “recluta” di Moscow times un giornale in lingua inglese. Nella Mosca del crollo del comunismo si mescolano colleghi anglosassoni e locali. Per Carlotta è inevitabile partire verso la Cecenia, quando le truppe di Boris Eltsin attaccano la prima volta. “Siamo arrivati a Grozny, la capitale cecena, in macchina sorpassando una colonna russa. I terribili bombardamenti della città erano già iniziati. In quegli anni in Russia era tutto caotico, ma allo stesso tempo straordinario e più libero di oggi, anche per noi giornalisti” ricorda l’inviata di guerra. Dopo il battesimo del fuoco in Cecenia lavora come free lance per grandi giornali, ma il New York Times le mette gli occhi addosso. “Leggevano i miei articoli da quattro anni – spiega Carlotta – Alla fine mi hanno assunta e mandata a Belgrado”. E’ il 1999 e la giornalista britannica prestata agli Usa corre in Kosovo dove si accampa al Grand hotel di Pristina frequentato allora dai peggiori tagliagole serbi. “La notte dei primi bombardamenti della Nato vedevamo i lampi delle esplosioni in lontananza e sentivamo il rumore sordo dello scoppio, ma non avevamo idea di quali fossero gli obiettivi e cosa stava veramente accadendo. L’unico incendio a Pristina era quello di una tipografia albanese data alle fiamme dai serbi” racconta Carlotta davanti ad un’immancabile tazza di chai, il tè afghano. L’11 settembre è ancora nei Balcani, ma scalpita per andare in Afghanistan.
“Mi danno il “go” solo a metà novembre. In un’ora preparo i bagagli ed in un giorno sono in Uzbekistan al confine con l’Afghanistan” spiega Carlotta. Dove c’è una lista d’attesa infinita per il passaggio dei giornalisti sul famoso ponte che vide ritirarsi le colonne sovietiche dall’Afghanistan alla fine degli anni ottanta. L’ambasciatore afghano degli anti talebani a Taskent è un vecchio amico di suo padre ed il biglietto da visita del New York Times fa il resto. “Mi sono rimasti impressi i centinaia di talebani ai bordi della strada nei pressi di Mazar i Sharif (il capoluogo del nord dell’Afghanistan nda)- racconta Carlotta – Accovacciati a terra, con i turbanti neri, le barbe lunghe, ancora armati, ma pronti ad arrendersi. Ci siamo passati in mezzo con la macchina”.
La giornalista del New York Times apre l’ufficio a Kabul e sfrutta le vecchie amicizie del padre anche se non tutti sono disponibili. Bismillah Khan, mitico comandante dei mujaheddin fin dai tempi dei sovietici ed oggi capo di stato maggiore dell’esercito afghano, la accoglie a braccia aperte. Il maresciallo Mohammed Fahim, ex ministro della Difesa, si rifiuta di incontrarla. Nella nuova struttura del potere talebano aggancia quasi per caso il giovane Amrullah Saleh, mentre traduce una conferenza stampa. “Ero rimasta colpita dal suo perfetto inglese – racconta Carlotta – Gli ho chiesto il numero di telefono e adesso sono fra i pochi giornalisti che riescono ad incontrarlo”. Saleh è diventato il capo assoluto dell’Nds, l’intelligence afghana tenuta a battesimo dalla Cia. Dicono sia diventata più potente del Khad, la vecchia e onnipresente polizia segreta dei tempi dell’Armata rossa.
La figlia di Sandy Gall comincia a pubblicare uno scoop dietro l’altro. Famosa la sua intervista in carcere a Kabul con un terrorista suicida catturato prima che si facesse saltare in aria. “Poi sono andata a trovare il padre in Pakistan, che non sapeva nulla – spiega Carlotta – Il ragazzo studiava in una madrassa quando è stato reclutato. Il padre era inferocito perché suo figlio aveva lasciato a casa la moglie e due bambini piccoli. Vecchio patshun alla fine ha esclamato: “Prima la famiglia poi il jihad””.
Carlotta Gall è la prima a lanciare l’allarme per la rimonta dei talebani ed il rinnovato appoggio pachistano, che rischia di impantanare la Nato in Afghanistan. Nel 2006 la nominano corrispondente anche per il Pakistan. Carlotta va a Quetta, capoluogo della provincia pachistana del Baluchistan ad un passo dal confine afghano. Da quelle parti si nasconde la shura talebana, il comando dei fondamentalisti in armi. La leggenda vuole che andasse in giro a chiedere dov’è mullah Omar, il capo guercio degli invasati dell’Islam. In realtà è sulle tracce delle famiglie dei kamikaze che si fanno esplodere in Afghanistan. L’Isi, il famigerato servizio segreto pachistano, è sulle sue tracce da tempo. “Leggevano i miei articoli ed alcuni amici mi avevano avvisato di stare attenta” racconta Carlotta.
Assieme ad un fotografo bussa a qualche porta di troppo nel serbatoio fondamentalista di Quetta. La sera quando torna in albergo ha una brutta sorpresa. “Due figuri tirano giù la porta della mia stanza di albergo. Stavo scrivendo, ma hanno preso il computer. Prima che facessero lo stesso con la mia borsa li ho intimato di fermarsi. Non ci si comporta così con una signora” ricorda la giornalista tosta come un marine. Gli aggressori in tunica e pantaloni a sbuffo del luogo non si presentano, ma sono dell’Isi o qualcosa del genere. “Non ho fatto in tempo ad oppormi che uno dei due mi ha tirato un cazzotto e poi un altro. Sono caduta rovinosamente all’indietro sbattendo sul tavolinetto. Ricordo che la tazza del tè è andata in frantumi. Allora mi sono arrabbiata veramente e ho cominciato a gridare come un ossessa” spiega Carlotta. Gli agenti dell’Isi non mollano e le sequestrano anche il telefono satellitare. Lei li rincorre in ciabatte fino in strada, mentre loro si portano via il fotografo in “ostaggio”. Dal New York Times arriva subito una dura telefonata di protesta al ministro dell’Informazione pachistano, Tariq Azim, che per fortuna era a cena con il capo del governo. Azim chiama l’Isi a Quetta in piena notte ed in poche ore la faccenda si risolve. I servizi pachistani, però, copiano tutti i dati sensibili dal computer, dall’agenda ed i numeri di telefono della spigolosa giornalista britannica. Carlotta ed il suo fotografo sono stati fortunati. Poco tempo prima il giornalista pachistano Hayatullah Khan è stato ucciso. Aveva svelato le balle sulla paternità dell’attacco dell’esercito di Islamabad ad un campo di terroristi nell’area tribale al confine con l’Afghanistan. In realtà l’azione era stata condotta dagli americani.
Carlotta gira tutto l’Afghanistan, ma Kandahar, la capitale “spirituale” dei talebani, è un postaccio che considera dannatamente pericoloso. “Stavo per venire uccisa da un terrorista suicida. Avevo appuntamento alle 10 del mattino per delle interviste al comando della polizia. Arrivo, entro nell’edificio e subito dopo sento una terrificante esplosione – ricorda Carlotta - Un kamikaze si è fatto saltare in aria davanti all’ingresso massacrando poliziotti e civili in fila. Sono scampata alla morte per pochi secondi”. La sua voce ha un tono diverso quanto racconta questa storia e descrive il carnaio dei corpi mutilati. Si è salvata perché il suo collaboratore a Kandahar l’ha convinta a sedersi sul sedile posteriore del fuoristrada, dove i finestrini sono oscurati. Così il terrorista, che era nascosto fra la piccola folla all’ingresso non l’ha vista arrivare. “Altrimenti avrebbe scelto l’occidentale come obiettivo” sostiene la giornalista.
Il rischio è il suo mestiere. Quando ammazzano in un attentato Benazir Bhutto, l’ex premier pachistano, il 27 dicembre dello scorso anno, non c’è un aereo che può portarla in tempo in Pakistan. Sale su un classico taxi giallo afghano e si infila su una delle strade più pericolose del mondo. Quella che da Kabul arriva a Peshawar il capoluogo della provincia di frontiera con l’Afghanistan infestata dai nuovi talebani delle aree tribali. “Li ho visti passando. Capelli lunghi, pacul in testa (un tipico copricapo di lana a ciambella nda) pigiati ed agguerriti sul cassone di un fuoristrada – racconta Carlotta come se nulla fosse – Per fortuna non si sono accorti di me”.
Carlotta Gall non è una pennivendola degli americani. Se una storia l’ha colpita nel profondo è quella dei due prigionieri afghani, che avevano poco a che fare con i talebani, morti nella grande base Usa di Bagram durante pesanti interrogatori. Carlotta riesce a rintracciare i familiari di uno dei due detenuti, un taxista che si chiamava Delawar. “All’inizio avevo solo la segnalazione di due afghani deceduti in custodia – spiega Carlotta – Quando una delle famiglie mi ha consegnato il referto medico stilato alla base di Bagram sono rimasta di stucco. Fra le varie spiegazioni della morte avevano barrato la casella “omicidio””. Uno scoop, che ha provocato un bel po’ di grane al Pentagono.
Carlotta non ha più nulla da invidiare al padre, che negli anni ottanta fu uno dei migliori giornalisti a seguire l’invasione sovietica entrando a piedi in Afghanistan dal Pakistan assieme ai mujaheddin, i partigiani islamici. Sandy Gall ha scritto libri sul disastrato paese al crocevia dell’Asia con la prefazione di Margaret Thatcher. I suoi documentari sul conflitto afghano sono stati venduti in tutto il mondo, ma parte dei proventi li ha investiti in un’organizzazione umanitaria. Gestita in famiglia, dalla moglie e dalle altre figlie. Con la sua Ong ha ridato speranza a 70mila afghani mutilati di guerra. A metà agosto, con 81 anni sulle spalle, sarà di nuovo a Kabul per portare in giro dei potenziali donatori. Carlotta è orgogliosa del padre, ma dovrebbe esserlo anche di se stessa. E’ l’unica giornalista “bianca” che in giro per l’Afghanistan ultra islamico porta solo un cappellino per coprirsi la testa e rifiuta il velo.
Fausto Biloslavo


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28 agosto 2008 | Studio Aperto | reportage
Afghanistan: italiani in guerra
Studio aperto, Tg1 e Tg2 hanno lanciato il nostro servizio esclusivo di Panorama sui soldati in guerra in Afghanistan. Le immagini che vedete non sono state girate da me o da Maki Galimberti che mi accompagnava come fotografo, come dicono nel servizio, bensì dagli stessi soldati italiani durate la battaglia di Bala Murghab.
Di seguito pubblico il testo che ho ricevuto dai coraggiosi cineoperatori con l'elmetto: "Nei giorni dell’assedio di Bala Murghab il 5,6,7 e 8 agosto, con i fucilieri della Brigata Friuli erano presenti anche quattro militari Toni T. , Francesco S. , Giuseppe N. , Giuseppe C. , tutti provenienti dal 28° Reggimento “Pavia” di istanza Pesaro. È stato proprio il C.le Mag.Sc. Francesco S. a girare le immagini che vedete con una telecamera di fortuna, in condizioni difficili e con grande rischio personale.Infatti tra i compiti assolti dal 28° Reggimento di Pesaro c’è proprio la raccolta di informazioni e documentazioni video sulle operazioni di prima linea".

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11 agosto 2008 | Radio24 | reportage
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Taccuino di guerra - Razzi contro l'avamposto dei marines
Afghanistan, un'estate in trincea. In prima linea con i marines

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22 agosto 2008 | Panorama.it | intervento
Afghanistan
Tre soldati italiani feriti a nord di Kabul
Tre soldati italiani sono rimasti feriti da un’esplosione a nord di Kabul.Ieri mattina verso le 7.20, le 4.50 in Italia, una piccola colonna del nostro contingente si stava dirigendo fuori dalla capitale. Circa 20 chilometri a nord di Kabul un mezzo è stato investito da un’esplosione nella parte posteriore. Il veicolo coinvolto è un Vm 90, il meno protetto che abbiamo dispiegato in Afghanistan. Nella parte dietro è scoperto e ha solo due piastre protettive laterali. L’esplosione non deve essere stata molto forte, perché ha provocato solo tre feriti leggeri. Se fosse stata una vera e propria trappola esplosiva non ci sarebbero superstiti su quel tipo di mezzo. Forse si è trattato di un ordigno che ha fatto cilecca.

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14 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - "Sono il sergente Joseph Buonpastore..."
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27 agosto 2008 | Radio24 | reportage
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Taccuino di guerra - La compagnia Diavoli nell'inferno di Delaram
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05 agosto 2008 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Taccuino di guerra - La base nel deserto
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