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Reportage
18 settembre 2008 - Attualità - Italia - Panorama
Nocs le vite dei poliziotti invisibili
Prenotano il Capodanno con gli amici e all’ultimo momento non si presentano, perché sono partiti per una missione. Armati fino ai denti irrompono in una casa di latitanti e trovano una bambina innocente che si fa la pipì addosso. La coccolano come se fosse una figlia. Ad un matrimonio squilla un telefonino ed uno degli invitati si defila dalla chiesa. E’ scattato un allarme terrorismo. Un capo di stato straniero a mezzanotte vuole fare una passeggiata nel centro di Roma, senza dare nell’occhio, e loro devono scortarlo.
La vita da Nocs, il corpo speciale della polizia, è questo e altro. Il 19 settembre il reparto d’elite, che interviene quando il gioco si fa duro, spegnerà la candelina del trentesimo compleanno. Per raccontare la vita dei volontari del Nucleo operativo centrale di sicurezza (Nocs) abbiamo vissuto tre giorni nella loro base alle porte di Roma. Poco più di cento uomini pronti a tutto, dalla minaccia dei terroristi kamikaze alla liberazione di ostaggi. Nascondono la loro identità sotto un mefisto e si presentano solo con il nome di battesimo. Per evitare rappresaglie o perché devono agire in incognito per scoprire il covo di un latitante. Quando si sono avvicinati alla prigione del generale americano James Lee Dozier, rapito nel 1982 dalla Brigate rosse, hanno usato un camion vero di traslochi per sfruttare l’effetto sorpresa.
Non sono Rambo. Armati fino ai denti, sotto la tuta blu scuro, che incute timore batte il cuore di un uomo come gli altri . Con gioie, paure ed una famiglia che si abitua ad aspettarli in ansia a casa. “Organizzi un veglione di Capodanno e poi parti all’ultimo momento per una missione. All’inizio non c’ero mai, in servizio h 24 (giorno e notte). La gente si stanca di invitarti a cena se dai sempre buca. Così ho perso tutti gli amici d’infanzia” racconta Vincenzo, veterano di ferro, istruttore capo dei Nocs. Occhi verdi, granate stordenti sul condizionatore, foto con dedica del “padrino” del corpo speciale, Francesco Cossiga, non si pente e rifarebbe tutto. Anche una telefonata a casa dopo un famoso conflitto a fuoco del 1997. “Mario Moro era uno degli assassini del nostro unico caduto, l’ispettore Samuele Donatoni – racconta Vincenzo – Lo abbiamo intercettato sotto una galleria sull’autostrada 24 in direzione di Roma. Dopo essere stato speronato è saltato fuori balzando sul cofano del nostro mezzo. Ci ha sparato con la sua pistola a tamburo, ma la macchina era blindata. Rispondendo al fuoco l’abbiamo ferito e catturato”. Con Donatoni erano amici per la pelle e andavano spesso a mangiare a casa del papà di Vincenzo. “Sono corso fuori dalla galleria e ho telefonato a casa. “Papà gli abbiamo beccati tutti” ho urlato quando ha alzato al cornetta. Mi sono sfogato così” spiega il veterano dei Nocs. E’ stato lui ad infilarsi in un buco sul monte Voltraio per liberare Augusto De Megni, un bambino di 10 anni, dopo 110 giorni di prigionia. (NOTA DEL 2016: in realtà Vincenzo ha negoziato con uno dei banditi, ma non era sul posto al momento dell\'individuazione della \"tana\". L\'operazione è stata condotta da altri tre uomini del Nocs). Il sequestratore Antonio Staffa puntava una 357 magnum alla testa dell’ostaggio. De Megni oggi è un personaggio televisivo, dopo aver vinto la sesta edizione del Grande fratello.
I Nocs hanno assicurato alla giustizia 237 criminali e compiuto 5065 missioni liberando 325 ostaggi. Emilio è da tre anni nel reparto speciale e aspetta solo il “Go”, l’ordine che fa scattare un intervento. Occhi marroni, maglietta nera, fa parte della squadra operativa cinofila. Il suo cane d’assalto si chiama Shò, un pastore belga Malinois. Sulla testa, in mezzo alle orecchie dritte come spade, gli hanno piazzato una piccola telecamera. Collegata senza fili ad un monitor contenuto in una valigetta. Shò è addestrato a perlustrare e potrebbe trasmettere le immagini ad infrarossi di una grotta nascondiglio per un rapito o di una casa rifugio dei latitanti. I belgi infilano addirittura un auricolare nell’orecchio del cane per comandarlo a distanza. I Nocs si calano dagli elicotteri con il fedele amico dell’uomo, che azzanna chiunque si comporti in maniera ostile. Il telefonino di Emilio squilla e si leva il mefisto. Poi sorride di gioia. “E’ la mia compagna che ha appena fatto la prima ecografia. Avrò un figlio maschio – esulta il giovane Nocs - Oggi ero in servizio e non potevo andare con lei in ospedale”.
C’è chi, come Carlo, ha lasciato la sua città, Forlì, e si è arruolato nell’unità d’elite a causa di una crisi sentimentale. “Un salto nel buio di cui oggi sono orgoglioso” spiega il capo squadra dei sommozzatori. Al reparto speciale della polizia si sentono tutti “fratelli”. Spesso se qualcuno parte in missione lasciando moglie e figli in vacanza sono i colleghi che vanno a prenderli per riportarli a casa.
La base ha una città fantasma dove i Nocs si addestrano secondo il loro motto: “Silenziosi come la notte”. Un edificio grigiastro su due piani è la “shooting house”. Sagome comandate da computer saltano fuori dal nulla. Possono essere ostaggi, banditi, terroristi. I Nocs devono reagire all’improvviso usando colpi veri. Non manca la palestra per tenersi sempre in forma, il poligono per i tiratori scelti ed il campo di atletica. Molti Nocs sono primatisti sportivi. Uno di loro è a Pechino come giudice olimpico di pentathlon.
L’unico che da e pretende sempre del lei è il comandate, Paolo Gropuzzo, ma i suoi uomini si lancerebbero nel fuoco per questo triestino classe 1960. “La mia vita da Nocs dura da sei anni. Non ho una famiglia un po’ per circostanze ed un po’ per scelta. Per noi il segreto è l’equilibrio, anche privato, perché i sacrifici sono tanti” racconta Gropuzzo che può farsi fotografare senza mefisto. Capelli a spazzola, fisico da culturista ha dedicato la sua vita alla polizia. Nel 2005 fece irruzione con i suoi uomini in un appartamento di Roma, dove si era nascosto uno dei terroristi degli attentati al metrò di Londra. Poteva indossare una cintura esplosiva, ma per fortuna era in mutande. I Nocs si addestrano a qualsiasi possibilità, anche le più incredibili. Se un terrorista ha in pugno una granata e la sta per lanciare un agente deve afferrargli la mano. Un altro l’avvolgerà velocemente con del nastro adesivo per evitare che molli la bomba facendola scoppiare.
Le scorte a personalità a rischio sono una specialità del reparto speciale. “Il sacrificio della vita per un poliziotto è da mettere in conto, soprattutto se fai parte di un’unità come la nostra – spiega Gropuzzo – Se cominciano a sparare il compito del caposcorta è fare da scudo con il proprio corpo al Vip e portarlo via il prima possibile”. Come nei film, ma i Nocs si devono adattare anche alle abitudini delle personalità. Il segretario di stato americano Condoleezza Rice si sveglia alle cinque del mattino per pedalare alla cyclette. In vacanza in Toscana l’ex premier britannico, Tony Blair, non si perdeva la sua corsetta quotidiana. Ed i Nocs dietro in pantaloncini corti e pistola. La più bella è capitata durante una visita del presidente Usa, George W. Bush. Gli americani sempre perfettamente organizzati e super tecnologici decidono di far entrare il corteo presidenziale dall’ingresso secondario dell’ambasciata. Quando arriva la limousine blindata della Casa Bianca ci si accorge che il cancello è troppo stretto e non passa. Gli americani non sanno che fare. Alla fine viene fatto presente che Bush può fare tre metri a piedi. L’ex presidente israeliano Moshe Katsav, invece, era ospite al Quirinale. A mezzanotte si sogna di fare una passeggiata a piedi nel centro di Roma senza dare nell’occhio.
I potenti della terra regalano ai Nocs di tutto per ringraziarli. Il narghilè del presidente egiziano Hosni Mubarak, ospite lo scorso mese in Sardegna nella villa di Silvio Berlusconi. Oppure la pistola mitragliatrice con grilletto, sicura e meccanismi in oro massiccio del re saudita. Nel quartier generale dell’unità speciale di polizia fa bella mostra la bandiera delle Brigate rosse con la stella, che si trovava nella prigione di Dozier. Il generale americano liberato dai Nocs è venuto a trovarli lo scorso anno. A Lino, uno dei veterani dell’audace azione ha detto: “Grazie a voi sono nato una seconda volta”.
“I Nocs sposano un valore, la missione, che alla fine diventa più importante della mamma, della fidanzata e della vita stessa – spiega “doc” - Poi con il passare del tempo la famiglia diventa una spalla importante per superare i sacrifici, anche se in alcuni casi i matrimoni si sono spezzati a causa dell’amore per il reparto”. Doc è il medico dei Nocs, che li segue nelle azioni più pericolose. Si chiama Gianluca ha 44 anni ed è un po’ confessore, amico e psicologo. Occhi azzurri, sposato e due figli piccoli, cura anche i cattivi se vengono feriti dai Nocs. Ogni volta che si infila il mefisto e segue l’azione spera in cuor suo di non sentire chiamare mai “doc, uomo a terra”. Una volta a Bitonto, durante un’irruzione alla ricerca di un latitante “una bambina si fece la pipì addosso dallo spavento – ricorda Gianluca – Soffriva di insufficienza renale. Sono un medico, mi sono levato il mefisto e l’ho presa in braccio per tranquillizzarla”. I Nocs piuttosto che marcare visita vanno dal dottore per convincerlo a rimetterli in sesto per la prossima missione.
Il lato meno conosciuto degli agenti speciali è il volontariato a favore dei poveri. Oppure aiutano il cappellano militare a tenere a posto il santuario di Veroli. Vincenzo, il veterano che ha sparato a banditi e terroristi, è il San Francesco dei Nocs. “Una volta in Sardegna ho fermato tutti perché una lumaca attraversava la strada – racconta l’istruttore – Durante un appostamento un pastore maremmano stava per scoprirci. Era a cinque centimetri dalla mia arma. Avrei dovuto eliminarlo, ma ci ha annusato e per fortuna se ne è andato”. Rischiano la vita ad ogni uscita, ma i più giovani prendono solo 1200 euro al mese.
Sull’ultima pagina del libro fotografico per il trentennale dei Nocs sono pubblicate immagini di ardimento. Si chiudono con due agenti distrutti dalla fatica che si abbracciano. La didascalia spiega tutto: “Non siamo supereroi, ma uomini”.
“Il bandito era a trenta centimetri dal mio viso, seduto in macchina. Il fucile a canne mozze lo aveva appoggiato sulle ginocchia. Ho cercato di intimare “alt polizia”, ma alla lettera P è partito il colpo, una sventagliata”. Armando Silvestro, capo squadra dei Nocs ferito in azione, racconta così il momento più drammatico della sua vita. “Ricordo solo una fiammata. Uno dei pallettoni più grossi mi ha colpito all’occhio destro. E’ entrato nella testa fermandosi dietro la nuca. Non me ne sono neppure reso conto, ma una parte del corpo non rispondeva più”. E’ il 28 luglio 1989, all’ingresso di Roma sulla bretella autostradale. La squadra dei Nocs deve tendere una trappola ai sequestratori di ……..Belardinelli. Il segnale di riconoscimento è una sedia sul portapacchi di una 126, ma al posto dei soldi ci sono solo pagine di giornali. I banditi dell’anonima sarada non mangiano la foglia e scoppia un violento conflitto a fuoco. “Gli altri pallini della fucilata rimbalzavano dentro l’abitacolo della macchina. Mi sono accasciato sul sedile ed il poliziotto al mio fianco è uscito fuori urlando “hanno ammazzato Armando, hanno ammazzato Armando” spiega l’uomo dei Nocs. I capelli sono grigi, non vede più da un occhio, cammina zoppicando ed il braccio sinistro è infermo. Eppure nelle sue parole non c’è un’ombra di vittimismo. “Volevo urlare “sono vivo”, ma dalla bocca non usciva una sola sillaba – ricorda il ferito – Non vedevo più nulla, ma sentivo tutto. La sparatoria con i banditi sembrava non finire mai”. Nella confusione del conflitto a fuoco un altro poliziotto gli mette due dita sulla giugulare e sente che il battito è debole. Armando è vivo. “Dentro di me dicevo ma è possibile che quando uno muore prova tutto, ma non può fare nulla? – ricorda l’uomo dei Nocs – La sensazione era di sprofondare lentamente in una fossa. Lo sforzo immane è stato non perdere conoscenza, aggrapparsi alla vita”. Armando entra in coma quando arriva all’ospedale San Giovanni e venirne fuori è stato un calvario. “Allora le mie due figlie erano piccole – racconta - Non volevo che crescessero con un padre in pensione per invalidità”. Armando si fa forza, torna a camminare e rimane a lavorare nella base dei Nocs. I ragazzi del corpo speciale della polizia lo vanno a prendere a casa e lui continua a fare il suo dovere dietro una scrivania. Per tutti è un’icona. Il 19 settembre, trentennale del reparto d’elite, riceverà l’ennesimo riconoscimento. In cuor suo conta solo un dettaglio: “Ancora oggi vivo da Nocs”.





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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz
e tutti i caduti sul fronte dell'informazione

Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.

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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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10 giugno 2008 | TG3 regionale | reportage
Gli occhi della guerra.... a Bolzano /1
Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, non dimentica i vecchi amici scomparsi. Il 10 giugno ha visitato a Bolzano la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” dedicata ad Almerigo Grilz. La mostra è stata organizzata dal 4° Reggimento alpini paracadutisti. Gli ho illustrato le immagini forti raccolte in 25 anni di reportage assieme ad Almerigo e Gian Micalessin. La Russa ha ricordato quando "sono andato a prendere Fausto e Almerigo al ritorno da uno dei primi reportage con la mia vecchia 500 in stazione a Milano. Poco dopo li hanno ricoverati tutti e due per qualche malattia". Era il 1983, il primo reportage in Afghanistan e avevamo beccato l'epatite mangiando la misera sbobba dei mujaheddin, che combattevano contro le truppe sovietiche.

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20 giugno 2017 | WDR | intervento
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.

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27 gennaio 2020 | Radio 1 Italia sotto inchiesta | intervento
Italia
Esercito e siti ebraici
Fausto Biloslavo I nostri soldati rispettano la giornata della Memoria dell’Olocausto non solo il 27 gennaio, ma tutto l’anno. L’esercito, con l’operazione Strade sicure, schiera 24 ore al giorno ben 700 uomini in difesa di 58 siti ebraici sul territorio nazionale. Tutti obiettivi sensibili per possibile attentati oppure oltraggi anti semiti. “Per ora non è mai accaduto nulla anche grazie alla presenza dei militari, che serve da deterrenza e non solo. Il senso di sicurezza ha evitato episodi di odio e minacce ripetute come in Francia, che rischiano di provocare un esodo della comunità ebraica” spiega una fonte militare de il Giornale. I soldati, che si sono fatti le ossa all’estero, sorvegliano, quasi sempre con presidi fissi, 32 sinagoghe o tempi ebraici, 9 scuole, 4 musei e altri 13 siti distribuiti in tutta Italia, ma soprattutto al nord e al centro. La città con il più alto numero di obiettivi sensibili, il 41%, è Milano. Non a caso il comandante del raggruppamento di Strade sicure, come in altre città, è ufficialmente invitato alle celebrazioni del 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo scorso anno, in occasione dell’anniversario della nascita dello Stato di Israele, il rappresentante della comunità ebraica di Livorno, Vittorio Mosseri, ha consegnato una targa al comandante dei paracadustisti. “Alla brigata Folgore con stima e gratitudine per il servizio di sicurezza prestato nell’ambito dell’operazione Strade sicure contribuendo con attenzione e professionalità al sereno svolgimento delle attività della nostro comunità” il testo inciso sulla targa. In questi tempi di spauracchi anti semiti l’esercito difende i siti ebraici in Italia con un numero di uomini praticamente equivalente a quello dispiegato in Afghanistan nel fortino di Herat. Grazie ad un’esperienza acquisita all’estero nella protezione delle minoranze religiose, come l’antico monastero serbo ortodosso di Decani in Kosovo. “In ogni città dove è presente la comunità ebraica esiste un responsabile della sicurezza, un professionista che collabora con le forze dell’ordine ed i militari per coordinare al meglio la vigilanza” spiega la fonte del Giornale. Una specie di “assessore” alla sicurezza, che organizza anche il sistema di sorveglianza elettronica con telecamere e sistemi anti intrusione di avanguardia su ogni sito. Non solo: se in zona appare un simbolo o una scritta anti semita, soprattuto in arabo, viene subito segnalata, fotografata, analizzata e tradotta. “I livelli di allerta talvolta si innalzano in base alla situazione internazionale” osserva la fonte militare. L’ultimo allarme ha riguardato i venti di guerra fra Iran e Stati Uniti in seguito all’eliminazione del generale Qassem Soleimani. Roma è la seconda città per siti ebraici presidiati dai militari compresi asili, scuole e oratori. Le sinagoghe sono sorvegliate pure a Napoli, Verona, Trieste e quando necessario vengono disposte le barriere di cemento per evitare attacchi con mezzi minati o utilizzati come arieti. A Venezia i soldati garantiscono la sicurezza dello storico ghetto. A Livorno e in altre città sono controllati anche i cimiteri ebraici. Una residenza per anziani legata alla comunità è pure nella lista dei siti protetti a Milano. Ed i militari di Strade sicure nel capoluogo lombardo non perdono d’occhio il memoriale della Shoah, lo sterminio degli ebrei voluto da Hitler.

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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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