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Reportage
19 febbraio 2009 - Copertina - Striscia di Gaza - Panorama
Gaza la sporca guerra di Hamas
Morire con noi è un
grande onore. Andremo
in Paradiso assieme,
oppure sopravviveremo
fino alla vittoria.
Sia fatta la volontà di Allah». Così reagivano
i miliziani di Hamas alle suppliche
dei civili palestinesi di non usare le loro
case come postazioni durante la terribile
offensiva israeliana nella Striscia di
Gaza dal 27 dicembre al 18 gennaio.
Ora che i riflettori internazionali si sono
spenti, Panorama è andato a vedere cosa
succede a Gaza. E ha scoperto l’altra faccia
della guerra, altrettanto sporca, che non
ci è stata raccontata: interi palazzi presi in
ostaggio, la popolazione utilizzata come
scudo umano e, per i dissidenti, ancora oggi
il rischio di beccarsi un proiettile in
quanto «collaborazionisti».
Pericolo tutt’altro che teorico: dalla fine
di dicembre 181 palestinesi sono stati
sommariamente giustiziati, gambizzati o torturati perché contrari a Hamas.
Ma non è finita: oggi il movimento islamico
che governa Gaza con Corano e moschetto
vuole controllare tutto, compresi
gli aiuti e la ricostruzione.
Il palazzo Andalous, nel quartiere al-Karama
di Gaza City, è ridotto a uno scheletro
di cemento. Gli israeliani hanno pestato
duro e a questa coppia di palestinesi
di mezza età non resta che raccogliere i
cocci di un appartamento ancora da pagare.
Ci accompagnano su quel che resta delle
scale interne, a patto che Panorama usi
solo i soprannomi di famiglia. «Sapevamo
che andava a finire così. Fin dai primi giorni
dell’attacco i muqawemeen (i partigiani
della “resistenza” palestinese, nda) si erano
piazzati al dodicesimo e al tredicesimo
piano, con i cecchini. Ogni tanto cercavano
invano di sparare a uno di quegli aerei
senza pilota che usano gli israeliani» racconta
Abu Mohammed, scuotendo il capo.
Nel palazzo, non ancora finito, vivevano
22 famiglie: oltre 120 civili, compresi
donne e bambini. Gli israeliani hanno
cominciato a telefonare sui cellulari degli
inquilini intimando l’evacuazione. Poi,
ai miliziani è arrivato un messaggio più
esplicito: un caccia ha sganciato una bomba
nel cortile deserto dall’altra parte della
strada, senza fare vittime, ma aprendo
un cratere enorme. «Una delegazione di
capifamiglia ha scongiurato i miliziani di
andarsene» riprende l’inquilino. «La risposta
è stata: “Morirete
con noi o sopravviveremo
assieme”».
Il 13 gennaio gli
F16 israeliani hanno
centrato il palazzo alle
9 e mezzo di sera. «Di notte andavamo a
dormire da parenti: ci siamo salvati, ma
non abbiamo più la casa e dobbiamo pagare
ancora 9 anni di mutuo» si dispera
Om Mohammed, un velo sul capo. La
Banca islamica non concede deroghe.
In un altro palazzo di Gaza, nel quartiere
al-Nasser, vivevano circa 170 civili
divisi su otto piani. Quando i miliziani si
sono piazzati sul tetto, un ex colonnello
palestinese è andato a parlamentare spiegando
che avrebbero attirato le bombe
israeliane sui bambini del palazzo. «Sarà
un grande onore se morirete con noi» hanno
risposto i difensori di Gaza. L’ufficiale
ha insistito: per toglierselo di torno gli
hanno sparato una raffica di kalashnikov
sopra la testa.
A Sheik Zayed, 20 chilometri a nord,
un farmacista palestinese era barricato con
la famiglia al secondo piano del suo condominio.
I militanti islamici hanno piazzato
una trappola esplosiva sulla strada di
fronte e si sono nascosti al terzo piano con
il detonatore. «Volevano far saltare in aria
il primo carro armato israeliano che passava.
Ho cercato di spiegare che la reazione
sarebbe stata furiosa e avrebbero colpito
anche i nostri appartamenti. Alla fine,
per salvarci, ce ne siamo dovuti andare»
accusa il farmacista con un velo di rassegnazione
negli occhi.
Nel quartiere Tel al-Awa di Gaza, invaso dall’incursione terrestre degli israeliani,
c’è chi ha fatto l’ostaggio due volte.
«Chiamami Naji, che significa sopravvissuto,
perché se scrivi il mio vero nome mi
ammazzano» scongiura il capofamiglia palestinese.
«Quelli di Hamas arrivavano di
notte a dormire nel sottoscala. Prima in
uniforme, poi con abiti civili e le armi nascoste.
Abbiamo cercato di sprangare il
portone, ma non c’è stato nulla da fare.
L’intero palazzo era usato come scudo dai
miliziani, che avrebbero potuto essere
bombardati in qualsiasi momento».
Quando gli uomini di Hamas vinsero
le elezioni nella Striscia, Naji era contento
del cambiamento, ma ora li odia. «Lanciano
i razzi (su Israele, nda) senza alcun risultato
militare, se non l’autodistruzione»
spiega il sopravvissuto. «Lo fanno per ottenere
soldi dai loro padrini iraniani e siriani
». All’arrivo degli israeliani, nel quartiere
i partigiani della «resistenza» erano
spariti. Per trovarli i soldati sono entrati
nel palazzo. Assieme agli altri uomini del
condominio, il palestinese è stato tenuto
prigioniero per un giorno e una notte.
«Per due volte ho fatto l’ostaggio nella
stessa guerra» sospira Naji. «E quelli di
Hamas mi hanno addirittura minacciato
che avremmo fatto i conti alla fine delle
ostilità, perché protestavo».
In altri casi gli sgherri delle brigate Ezzedin
al-Qassam, il braccio armato di Hamas,
non si sono limitati alle minacce.
Usama Atalla aveva 40 anni e cinque giorni
prima gli era nata l’ultima figlia, Iman.
L’hanno ammazzato il 28 gennaio, 11 giorni
dopo il cessate il fuoco. Atalla era maestro
elementare e attivista di al-Fatah, il
partito del presidente palestinese moderato
Mahmoud Abbas, meglio conosciuto
come Abu Mazen. «Criticava apertamente
Hamas, ma non ha mai imbracciato
un’arma contro di loro» sostiene Mohammed
Atalla, familiare della vittima.
Gli assassini sono andati a prenderlo a
casa con due fuoristrada pieni di gente armata.
Con il volto mascherato hanno mostrato
dei tesserini della sicurezza interna
palestinese. «Solo alcune domande di routine.
Fra mezz’ora ve lo riportiamo» hanno
detto alla famiglia. Il maestro elementare
è stato torturato per una notte intera.
Poi l’hanno ucciso con un proiettile nel
fianco sparato a bruciapelo, poco prima di
abbandonarlo agonizzante davanti all’ospedale
Shifa.
«Dall’inizio della guerra abbiamo documentato
27 esecuzioni sommarie. Altre
127 persone sono state rapite, torturate
o gli hanno sparato nelle gambe. Almeno
150 costrette agli arresti domiciliari.
Di un centinaio di prigionieri di Hamas
non sappiamo nulla. I numeri potrebbero
essere più alti, ma molti casi non vengono
denunciati perché la gente è terrorizzata
». La denuncia sulla sporca guerra
di Hamas contro i suoi oppositori arriva
da Salah Abd Alati, della Commissione
indipendente sui diritti umani di Gaza.
Da Ramallah, capoluogo della Cisgiordania
dove governa Abu Mazen, sono stati
resi pubblici i nomi di 58 gambizzati.
Ad altri 112 palestinesi hanno spezzato
le gambe a colpi di spranga o con blocchi
di cemento. In gran parte sono sostenitori
di al-Fatah: li accusano di collaborare
con Israele contro Hamas. Da Ramallah
il ministro palestinese per i Prigionieri
e i rifugiati, Ziyad Abu Ein, ha parlato
di «terrorismo» e «di crimini commessi
contro il popolo palestinese».
Una delle vittime è Aaed Obaid, ex poliziotto
militare fedele ad al-Fatah. Occhi
azzurri, barbetta rossa e volto scavato,
è disteso dolorante su un divano di casa
a Gaza City. Sotto la coperta nasconde
la gamba sinistra fasciata. «Il 26 gennaio,
verso le 7 di sera, ero seduto fuori del
portone e parlottavo con mio fratello» racconta.
«È arrivato un fuoristrada color argento,
come quelli che usa Hamas, con
quattro uomini armati e mascherati. Mi
hanno preso, incappucciato e trascinato
via. Non avevo fatto nulla». Prima l’hanno
portato a un centro di addestramento
dei miliziani dicendogli che lo avrebbero
giustiziato. Poi lo hanno fatto pregare
e ricaricato in macchina. «A un certo punto
si sono fermati vicino all’ospedale Shifa
facendomi sdraiare a terra. Mi hanno
sparato due colpi di kalashnikov nella
gamba sinistra, senza neppure dirmi di
cosa mi accusavano».
Il fratello del gambizzato, Adel Obaid,
è uno dei prigionieri di al-Fatah rilasciato
dal carcere di Saraia, nel centro di Gaza,
prima che gli israeliani lo bombardassero.
Baffi curati, ha l’ira negli occhi. «Alcuni
prigionieri sono rimasti feriti sotto
le bombe e portati allo Shifa. Ne hanno
uccisi almeno sette sui letti d’ospedale».
Dopo avere utilizzato la guerra per regolare
i conti interni, ora Hamas vuole controllare
la distribuzione degli aiuti e la ricostruzione.
Per farlo ha provato a confiscare
gli aiuti dell’Unrwa, l’agenzia delle
Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.
Il 4 febbraio i poliziotti di Hamas hanno
sequestrato 406 razioni di cibo e 3.500
coperte destinate a 500 famiglie palestinesi.
Il giorno dopo il capo dell’Onu a Gaza,
John Ging, ha dichiarato duro a Panorama:
«È la prima e sarà l’ultima volta che
rubano i nostri aiuti. Devono restituirli
senza discutere». Nella notte, poche ore
più tardi, sono state sequestrate altre 300
tonnellate di rifornimenti alimentari».
L’Unrwa ha deciso di sospendere l’arrivo
di aiuti a Gaza fino a quando non venisse riconsegnato il maltolto. Il 9 febbraio
i fondamentalisti hanno ceduto e restituito
tutto, ma puntano sempre a gestire
il consenso attraverso gli aiuti.
«Quello che passa da Rafah, il valico con
l’Egitto, finisce in mano a Hamas. Della
distribuzione si occupano i Comitati sociali
delle moschee, per il 90 per cento
controllate dal movimento islamico» spiega
Mkhaimer Abusada, docente di scienze
politiche all’Università al-Azhar di Gaza.
Le liste di distribuzione, che favoriscono
chi appoggia Hamas, sono l’arma del
consenso in cambio di aiuti. A fine gennaio
la polizia ha fermato le autobotti di
un’organizzazione umanitaria locale, che
lavora per una ong italiana. Volevano le
liste della distribuzione dell’acqua.
Per incontrare il responsabile di una ong
palestinese, finanziata dall’Unione Europea
e dall’agenzia americana Us Aid, giriamo
guardinghi di notte. L’appuntamento è a
Jabaliya. Il presidente dell’ong ha paura di
Hamas, non degli israeliani. «Vogliono imporci
i loro uomini per controllare la distribuzione
» accusa la fonte di Panorama. «Ci
hanno intimato di non condurre statistiche
sulle case distrutte: metteranno le mani anche
sulla ricostruzione. Conosco decine di
famiglie che hanno subito l’aggressione
israeliana, ma sono discriminate negli aiuti
perché non appoggiano Hamas».
A Beit Lahiya, nel nord della Striscia,
Fatima ha la casa semidistrutta. «Sono andata
dalla Società islamica, un’organizzazione
vicina a Hamas che si occupa di aiuti
e ricostruzione. Non voto per loro.
Guarda caso non ero registrata nella lista
di distribuzione» riferisce la donna di mezza
età avvolta in un velo multicolore.
A Gaza un giornalista ha perso una bella
casa di due piani. Si è visto consegnare
380 euro per trovare una prima sistemazione.
«Gli amici di Hamas si sono intascati
4 mila euro. A un mio vicino che ha avuto
solo i vetri rotti, ma è dei loro, gli aiuti sono
arrivati subito» protesta il giornalista.
Nonostante il disastro, il movimento
islamico ha dichiarato vittoria. Fra i palestinesi
della Striscia gira una battuta amara:
«Ancora un paio di vittorie come questa
e Gaza scompare dalla Terra». Ma qualcosa
sta cambiando: un sondaggio del Centro
Beit Sahour per l’opinione pubblica palestinese
rivela che il consenso per Hamas
nella Striscia è crollato dal 51 per cento di
novembre al 27,8 dopo la guerra.
BOX «È al-Fatah
a rubare gli aiuti»
Fawzi Barhoum
è il portavoce di Hamas a Gaza.
I vostri poliziotti hanno sequestrato
gli aiuti dell’Onu. Com’è possibile?
Sfortunatamente alcuni dipendenti
dell’Unrwa dirottano gli aiuti lontano
da chi ha bisogno. Collaborano con una
fazione politica (al-Fatah), favorendo
certa gente nella distribuzione.
Abbiamo avvisato più volte l’Onu
di smetterla di fomentare le divisioni
fra i palestinesi.
Durante e dopo la guerra sono stati
uccisi, gambizzati e torturati
molti oppositori di Hamas.
Tutte spie?
Alcuni palestinesi hanno collaborato
con l’aggressore e sono stati puniti
dalla resistenza, non da Hamas.
Ma noi abbiamo aperto un ufficio
per le denunce dei cittadini che si
sentono ingiustamente maltrattati.
Avete dichiarato vittoria,
ma la gente la pensa diversamente.
Gli occupanti volevano distruggere
Hamas, il suo governo e i suoi capi.
Ma hanno ucciso solo 48 combattenti.
Cosa vi aspettate dal nuovo
primo ministro israeliano?
Non facciamo distinzioni, perché
tutti i leader hanno massacrato
i palestinesi e vogliono soffocare
la nostra libertà.
BOX Ong italiane: di parte
«Con le ong italiane
a Gaza mi sembra di essere
tornato indietro agli anni
Ottanta, quando c’era molta
politicizzazione. E alcune
sono un po’ garibaldine».
L’accusa è di Gianmarco
Onorato, capodelegazione
della Croce rossa italiana
per la Palestina e Israele.
La Cri è neutrale per
definizione, ma altrettanto
non si può dire di operatori
umanitari e pacifisti italiani
a Gaza. Per saperne di più,
ecco l’indirizzo sul sito
di Panorama:
blog.panorama.it/mondo
BOX «Le mie nipotine, ammazzate senza motivo»
VIOLENZE DEGLI ISRAELIANI, MA CON TANTI DUBBI «Quando
i soldati israeliani con i megafoni ci hanno intimato, in arabo, di uscire con una
bandiera bianca, abbiamo mandato avanti la mamma, mia cognata e le tre
nipotine». Comincia così il drammatico racconto di Ahmed Mohammed
Abd Rabbo fra le macerie della casa del fratello Khaled, dove viveva tutta la
famiglia. Un palazzo ora accartocciato come una fisarmonica, a 2 chilometri
da Israele nel nord della Striscia di Gaza. Occhialini da intellettuale, ha la voce
spezzata dal dolore. Il 7 gennaio, quarto giorno dell’incursione terrestre
israeliana, dopo le 12, «sono arrivati i carri armati. Un tank si è piazzato vicino
all’ingresso della nostra casa. Eravamo tutti al primo piano, in cerca di riparo».
Ahmed, 23 anni, giura che nessuno sparava dalla casa, ma il quotidiano
palestinese Al-Hayat Al-Jadida racconta un’altra storia: Hamas aveva
trasformato la zona in una fortezza, scavato tunnel e lanciato diversi razzi
contro Sderot. In realtà Khaled, il capofamiglia, è un poliziotto fedele ad Abu
Mazen e inviso a Hamas. Se desse la colpa ai miliziani, non solo potrebbe
venir gambizzato, ma perderebbe anche il risarcimento per la ricostruzione.
«I soldati non erano tesi, mangiavano patatine e cioccolato» continua Ahmed.
Per prime sono uscite la nonna, la mamma e le tre bambine, Soad, Amal
e Samar. «Sventolavano stracci bianchi a mo’ di bandiera. Due soldati
israeliani le guardavano, ma sembravano tranquilli. A un tratto ne è spuntato
un terzo che ha sparato nel mucchio, senza motivo». Soad, 7 anni, e Amal,
3, sono state centrate dai proiettili. Samar, 4 anni, è gravemente ferita.
Interpellato da Panorama, l’esercito di Tel Aviv non ha risposto a una richiesta
di spiegazioni. Camera, un sito israeliano, mette in dubbio la versione della
famiglia. L’unica certezza è che Samar può restare paralizzata a vita.





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