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25 giugno 2009 - Esteri - Iran - Panorama
Tutti gli uomini contro il presidente
“Libertà dalla paura” è lo slogan preferito da Mir Hossein Moussavi, il nuovo capopopolo riformista che ha accusato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad di aver vinto le elezioni a suon di brogli. Uno o forse due milioni di iraniani ne sono convinti e sono scesi in piazza a Teheran gridando “voti o morte” e “Allah o akbar” (Dio è grande). Manifestazioni senza precedenti dalla rivoluzione islamica del 1979, che travolse il regime dello Shah. I morti negli scontri con le forze di sicurezza sono già sette. Il 16 giugno Moussavi ha invitato i manifestanti a non scendere in corteo “per proteggere le vostre vite” ed evitare una Tienanmen iraniana.

Nella Repubblica islamica la galassia dell’opposizione politica ad Ahmadinejad si divide fra riformisti, conservatori e vecchi squali del sistema iraniano. Contro gli ayatollah esiste anche un’opposizione armata come i Mujaheddin del popolo, i curdi iraniani ed il nuovo gruppo sunnita Jundallah, che fa saltare in aria le moschee sciite.

Dalle contestate elezioni presidenziali del 12 giugno (62,6% dei voti per Ahmadinejad) la protesta non è sfociata solo nelle strade, ma si organizza su internet. Nonostante il blocco ad intermittenza dei cellulari e dei satelliti, che trasmettono i canali tv dell’opposizione all’estero, i giovani iraniani si mobilitano attraverso Twitter, il nuovo sistema di messaggistica. Su Facebook i fan di Moussavi sono balzati in pochi giorni a 50mila. Global internet freedom consortium, il braccio sulla rete dei dissidenti cinesi della setta Falun Gong, offre gratis ai giovani blogger iraniani programmi per evadere la censura.

Moussavi, giacchetta laica e barbetta grigia, con le sue apparizioni in mezzo alla folla oceanica dei manifestanti sta diventando un’icona della protesta. Il candidato riformista alle presidenziali ha chiesto la ripetizione del voto. A 67 anni, però, non è un volto nuovo della politica iraniana. Ex primo ministro nel 1988 si fece prendere la mano dal fervore islamico nei primi tempi della rivoluzione purgando studenti e professori considerati filo occidentali. Solo negli anni novanta ha cominciato ad avvicinarsi al campo riformista. Secondo i risultati ufficiali avrebbe ottenuto il 33,7% dei voti, ma alla chiusura dei seggi si era proclamato vincitore. Nonostante in passato forzasse le donne a portare il velo, sua moglie, Zahra Rahnavard, è diventata un potente volano nella campagna elettorale e delle manifestazioni di protesta. Le giovani iraniane si sono innamorate della signora che per la prima volta si presenta in piazza al fianco di un candidato presidenziale. Ahmadinejad l’ha attaccata con apprezzamenti e accuse di tutti i generi, ma la fama di Rahnavard è salita. A tal punto che la paragonano a Michelle Obama, la moglie del presidente Usa o Hillary Clinton ex first lady.

In marzo, quando Moussavi ha annunciato la candidatura, il due volte presidente Mohammed Khatami, si è ritirato dalla corsa alle presidenziali per non dividere il voto moderato. Khatami è il padre delle riforme in Iran. La sua elezione a capo dello stato il 2 di Khordad 1376 (2 agosto 1997) è una data storica. Peccato che i conservatori siano sempre riusciti a mettergli i bastoni fra le ruote. Alla fine Khatami ha deluso i suoi elettori, ma oggi è tornato alla ribalta appoggiando i manifestanti.

Nella galassia dell’opposizione politica spicca anche Mehdi Karroubi, un altro candidato riformista alle presidenziali, che in questi giorni è sceso in piazza al fianco di Moussavi. Veterano della rivoluzione di Khomeini, ex presidente del parlamento iraniano, ha il rango clericale di hojatolislam.

Dietro le quinte del braccio di ferro con Ahmadinejad naviga “lo squalo”, soprannome dell’ayatollah Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Rivoluzionario della prima ora è uno dei più discussi, ma potenti politici iraniani. Con Ahmadinejad ha il dente avvelenato, perchè gli soffiò la poltrona di presidente nelle elezioni del 2005. L’8 giugno Rafsanjani ha scritto una lettera aperta in cui accusava il capo dello stato di “insulti, bugie e false dichiarazioni”. Dopo il colpo di mano elettorale sta esercitando pressioni, in quanto presidente dell’Assemblea degli Esperti, per invalidare il voto. L’Assemblea elegge la suprema guida dell’Iran (l’ayatollah Alì Khamenei) e dovrebbe controllarne le attività. Khamenei aveva subito benedetto la rielezione di Ahamadinejad, ma poi ha ordinato che si ricontino le preferenze.

Sul fianco conservatore non tutti amano Ahmadinejad. L’ex comandante dei Pasdaran a soli 27 anni, Mohsen Rezaee Mirgha’ed, si è candidato alle presidenziali ottenendo, ufficialmente, un pugno di voti. Anche lui, come il riformista Moussavi, ha fatto ricorso chiedendo il riconteggio delle schede.

Della grave crisi politica cercheranno di approfittare i gruppi armati che si oppongono al sistema degli ayatollah. Il più attivo, negli ultimi tempi, è Jundallah una formazione sunnita che opera nel Baluchistan iraniano al confine con il Pakistan. Il capo del gruppo armato si chiama Abdolmalek Rigi. I suoi uomini, accusati di legami con al Qaida, sono coinvolti nel traffico di droga. Attaccano stazioni di polizia ed hanno ucciso un generale dei Pasdaran in un’imboscata. Il 28 maggio l’attentato più sanguinoso: una moschea sciita di Zahedan è stata fatta saltare in aria perché si riunivano i Basij, i volontari della rivoluzione (25 morti e 125 feriti). Pochi giorni dopo gli iraniani hanno impiccato in piazza tre sospetti terroristi.

I Mujaheddin del popolo iraniano, di ispirazione socialista, sono una storica spina nel fianco della Repubblica islamica. Con la caduta di Saddam Hussein le loro basi in Iraq sono state “congelate”. Dal 2003 il fondatore del gruppo armato, Massoud Rajavi, è scomparso nel nulla lasciando il posto alla moglie Maryam. La nuova leader, laureata in ingegneria a Teheran, ha rischiato di venir deportata dall’esilio francese dove continua la lotta politica. I Mujaheddin, nonostante abbiano aiutato gli americani con informazioni sul programma nucleare iraniano, sono stati bollati come organizzazione terroristica. Lo scorso gennaio l’Unione europea li ha depennati dalla lista nera sollevando le ire dell’Iran.

Il gruppo dell’opposizione armata meno conosciuto è formato dai curdi iraniani. Si chiama Partito della libertà e della vita nel Kurdistan, ma è meglio noto con la sigla Pjak. Oltre la metà dei miliziani in armi, che si annidano nelle montagne nel nord dell’Iraq al confine con l’Iran, sono giovani donne. Una delle loro leader è Gulistan Dugan, 39 anni, psicologa laureata all’università di Teheran.

Dagli Stati Uniti, dove vive in esilio, è intervenuto per appoggiare le proteste Reza Pahlavi, l’erede al trono dello Shah. Sul suo sito internet si presenta in giacca e cravatta da manager occidentale, con a fianco una cartina dell’Iran sovrastata dal cappio di una forca. Il 13 giugno ha invitato “il mondo libero ad aiutare il popolo iraniano che sfila per la democrazia”.

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