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Articolo
28 ottobre 2009 - Esteri - Afghanistan - Il Foglio
Nei mocassini di Abdullah
Sulla piana di Shomali, a nord di Kabul,
corre la prima linea dopo l’11
settembre 2001. I talebani sono decisi a
resistere agli imminenti bombardamenti
americani, non possono nemmeno immaginare
che da lì a poco i B-52 avrebbero
spazzato via tutto. Jabul Saraj è un
postaccio a pochi chilometri dal fronte,
che i giornalisti occidentali ricordano
soltanto per il fango e per un cementificio
in disuso. E per le conferenze stampa
all’aperto dell’inossidabile Abdullah
Abdullah, allora ministro degli Esteri
dei mujaheddin del nord, anti talebani.
Vanesio, con la barbetta ben curata,
vestito all’occidentale e i mocassini lucidi,
il 7 ottobre annuncia che l’attacco
è “questione di ore”, non prima di essersi
pulito con un gesto stizzito le scarpe
sporche di fango. Se si tiene conto
del concetto di tempo per gli afghani e
del fatto che Abdullah annuncia una
volta al giorno l’imminente ora X, tutti
si aspettano qualcosa nei giorni successivi.
Invece quella notte il cielo stellato
dell’Afghanistan si illumina a giorno
con i primi raid dei bombardieri americani.
L’accanito sfidante alle elezioni presidenziali
di Hamid Karzai ha compiuto
in settembre 49 anni. Grazie alla madre
tagika e la lunga militanza al fianco
di Ahmad Shah Massoud è sempre stato
identificato come il portabandiera
della seconda etnia del paese. Però, prima
del voto presidenziale del 20 agosto,
Abdullah fa in modo che la stampa afghana
rispolveri la storia di suo padre
Ghullam Muhayuddin Khan, un pashtun
di Kandahar, come Karzai, che grazie
al suo onesto lavoro di funzionario
del re Zahir Shah fu nominato senatore
negli anni Settanta.
Abdullah, che ora costringe Karzai al
ballottaggio dopo una querelle internazionale
durata settimane, in realtà è un
oculista mancato. Cresce leggendo il
grande poeta persiano Maulana Jalaluddin
Balkhi, meglio conosciuto come
Rumi. Fin dalle elementari è promosso
a pieni voti, ma la laurea in oftalmologia
all’Università di Kabul, in piena invasione
sovietica, gli serve soltanto per
scappare in Pakistanm, dove trova lavoro
come apprendista medico nei campi
profughi ed entra in contatto con la resistenza
contro l’Armata Rossa. Nel
1985 raggiunge la leggendaria valle del
Panjsher, la roccaforte tagika di Massoud,
a nord di Kabul. Cerca di garantire
un minimo di assistenza ai feriti. Negli
anni della guerra contro i sovietici
nessuno fra i giornalisti sa chi sia, Abdullah
non ama la prima linea.
Quando il governo comunista a Kabul
crolla, la sua fortuna è la padronanza
con l’inglese. Diventa prima portavoce
di Massoud al ministero della Difesa e
poi dell’intero governo sconvolto dalle
faide della guerra civile. L’arrivo dei talebani
a Kabul significa per lui un avanzamento
di carriera. Massoud organizza
la resistenza nel nord del paese, con
quello che resta del governo dei
mujaheddin, e ha bisogno di un ministro
degli Esteri. Abdullah dal 1999 è
l’interfaccia con il resto del mondo dell’ultimo
spicchio di Afghanistan libero.
Dicono che in questi momenti difficili
si sia innamorato della propria eleganza.
I mujaheddin anti talebani sono
trasandati e messi male, ma lui veste
completi di grandi stilisti, scarpe italiane
e cinture di coccodrillo. La scusa è
che deve presentarsi bene alla comunità
internazionale. Per viaggi e rappresentanza
i soldi li trova sempre, anche
dai giornalisti. Nel 2001, prima del crollo
del regime talebano, i suoi giovani e
inesperti interpreti sono un obbligo, lesti
soltanto nell’esigere in contanti la
retta settimanale per vitto e alloggio. E
sì che si dorme per terra in stamberghe
polverose e si mangia un pugno di riso.
I baldi giovani, con oltre un centinaio di
giornalisti, racimolano un bel tesoretto,
i più furbi sono poi finiti a lavorare al
ministero degli Esteri della Kabul conquistata.
L’uccisione di Massoud da parte dei
terroristi di al Qaida quarantott’ore prima
dell’11 settembre, catapulta Abdullah
nella terna dei suoi eredi. I tre leoni
del Panjsher: il ministro degli Esteri
in pectore, l’eminenza grigia dei tagiki
Yunes Qanooni, e l’uomo forte Mohammed
Fahim. I tagiki oggi hanno perso
gran parte del loro potere, ma Abdullah
sfida Karzai teleguidato da Qanooni,
presidente della Camera bassa del Parlamento.
Il discusso Fahim, signore della
guerra e probabilmente della droga,
viene abbandonato da tutti, è troppo impresentabile.
Pochi mesi fa Karzai lo ripesca
come vicepresidente, per coprirsi
il fianco tagiko durante il voto.
Dopo la fuga dei talebani dalla capitale,
Abdullah diventa ministro degli
Esteri. Uno dei pochi tagiki a rimanere
al suo posto fino al 2006. In cambio si
appiattisce all’ombra di Karzai, che
purga più volte il suo gabinetto. Ad Abdullah
va bene così. Sono finiti i tempi
del fango di Jabul Saraj, quando scorazzava
su un fuoristrada con i finestrini
oscurati e un impianto telefonico satellitare
sul tetto, unico collegamento da
quelle parti. Gira il mondo, compra abiti
sempre più firmati e nelle cancellerie
occidentali si diffonde la sua fama di vacanziero
e playboy. Telegenico, con la
battuta pronta, piace agli occidentali e
ai giornalisti. Un po’ meno ai rudi afghani,
con i calli sulle mani per le tante raffiche
di kalashnikov sparate in vita loro.
Quando Karzai lo licenzia, è una doccia
fredda, pure se la rottura era nell’aria
da tempo. Per un anno Abdullah va
in esilio in India a fare la bella vita fra
spiagge esclusive e grandi alberghi, dicono
le malelingue. Nel frattempo Qanooni
pianifica le mosse successive per
perseguire l’obiettivo finale: trasformare
l’Afghanistan in una Repubblica parlamentare
per scalzare il dogma del
presidente comandante in capo pashtun.
Abdullah sfida alle presidenziali
Karzai, indebolito da due mandati sempre
meno brillanti. Il presidente in carica
per convincerlo a rinunciare gli offre
di correre come suo vice, gli giura
che lo richiamerà come ministro degli
Esteri, ma Abdullah rifiuta. Sa di non
poter vincere, ma vuole arrecare più
danni possibili al rivale. Il suo slogan di
battaglia è napoleonico: “Vi chiedo non
soltanto di credere nella mia abilità nel
portare un cambiamento e una speranza
per il nostro amato Afghanistan, ma
vi chiedo di credere nella vostra potenzialità
di cambiare il corso della nostra
storia”. Si sceglie due vice semisconosciuti
che non gli facciano ombra; sulle
schede, come simbolo, mette tre tipiche
brocche afghane. In campagna elettorale
ribadisce: “Bisogna costruire un Afghanistan
che possa difendersi da solo
senza bisogno delle truppe straniere”,
anche se sa bene ora il ritiro della Nato
sarebbe un’opzione suicida. A Jalalabad,
alla sua prima uscita elettorale, lascia
in armadio i completi firmati dell’occidente.
Veste all’afghana, con tunica
e pantaloni a sbuffo. Il copricapo è il
pakul, la tipica ciambella di lana tagika,
che ha subito scambiato, in mezzo ai sostenitori,
con un turbante pashtun.
Gioca il tutto per tutto e conquista
quasi un terzo dei voti. Nel caos generale
dei brogli riesce quasi a far dimenticare
che non soltanto Karzai ha barato.
In percentuale simile ai risultati reali,
Abdullah si è ritrovato con circa 300 mila
voti in più, poi cancellati dalla commissione
elettorale. Pronto a sfoderare
lo spettro della guerra civile, costringe
alla fine Karzai al ballottaggio. Ma non
ha ancora deciso, Abdullah, se partecipare
o boicottare il voto del 7 novembre,
rendendo ancora meno legittima la vittoria
scontata di Karzai. Tanto ci sarà
sempre tempo per un governo di unità
nazionale, con Abdullah che ritorna al
ruolo di giramondo, con giacca e cravatta
sempre in tinta.

video
16 novembre 2001 | Studio Aperto - Italia 1 | reportage
Cronaca da Kabul liberata
Cronaca da Kabul liberata

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18 novembre 2001 | Studio Aperto - Italia1 | reportage
I campi del terrore ed i documenti di Al Qaida
I campi del terrore ed i documenti di Al Qaida

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15 novembre 2001 | La vita in diretta - RaiUno | reportage
In Afghanistan si ritorna a vivere
In Afghanistan si ritorna a vivere

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[altri video]
radio

10 agosto 2009 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Al fronte con gli italiani/ Base Tobruk
Visori notturni e musica a palla nei blindati Lince del convoglio diretto a base Tobruk, nella famigerata provincia di Farah. Il fortino più avanzato sul fronte sud dello schieramento italiano nell’Afghanistan occidentale. Il pericolo, anche di notte, sono le trappole esplosive piazzate lungo le poche strade asfaltate. Un piatto di pressione che attiva l’ordigno al passaggio del blindato o un radiocomando, anche un semplice telefonino, e salti in aria. I ragazzi della 6° compagnia Grifi confidano in San Michele, protettore dei paracadutisti e negli inibitori di segnale montati sui blindati. A dieci giorni dalle cruciali elezioni presidenziali del 20 agosto l’avamposto Tobruk è in prima linea per garantire la sicurezza del voto in una delle aree più pericolose dell’Afghansitan. Bala Baluk e Shewan, a pochi chilometri di distanza sono roccaforti dei talebani e dei combattenti stranieri della guerra santa internazionale. I seggi elettorali in quest’area dovrebbero essere un a trentina, ma non è ancora chiaro quanti saranno effettivamente aperti il giorno delle elezioni. “Verranno sicuramente ridotti per motivi di sicurezza – conferma il capitano Gianluca Simonelli comandante di base Tobruk – ma ci stiamo organizzando con l’esercito afghano e la polizia per garantire il diritto di voto anche nelle zone più calde. I talebani non la faranno da padroni”. Fausto Biloslavo da base Tobruk, Afghanistan occidentale

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07 maggio 2009 | Radio City | intervento
Afghanistan
L'ultima trincea, la sfida che non possiamo perdere
Dibattito sulla crisi nel paese al Crocevia dell'Asia con il direttore di Limes Lucio Caracciolo

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18 settembre 2009 | Radio24 | intervento
Afghanistan
Morire per Kabul
Un intervento senza ipocrisie sull'Afghanistan dopo l'attentato che ha ucciso sei parà della Folgore.

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17 agosto 2009 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Al fronte con gli italiani/Voto e kamikaze
I paracadutisti di base Tobruk sono pronti a partire prima dell’alba diretti verso il deserto della turbolenta provincia di Farah. Il tenente Alessandro Capone, 30 anni, romano, comandante del primo plotone Nembo illustra la missione. Sul cruscotto del suo blindato Lince c’è Aldino il pinguino, un pupazzo portafortuna che i parà grattano ogni volta che escono verso l’ignoto. Dove i talebani possono sempre aspettarci al varco. Nelle quattro province sotto controllo italiano i seggi elettorali per le elezioni presidenziali e provinciali del 20 agosto sono 1014. Fra il 10 ed il 13% non apriranno perché troppo esposti alla minacce dei talebani ha rivelato il generale Rosario Castellano che guida il contingente. Nel sud, dove gli insorti sono più forti, si raggiungeranno punte del 20-30% di seggi chiusi. Dagli altoparlanti delle mosche nelle roccaforti talebani, come Shewan. ad una ventina di chilometri da base Tobruk, gli estremisti ordinano alla gente di non andar votare per “i nemici dell’Islam”. E preparano di peggio, con terroristi kamikaze, come comunicano per radio i parà italiani che scortano i poliziotti afghani dispiegati per le elezioni

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20 agosto 2009 | Radio24 | reportage
Afghanistan
Al fronte con gli italiani/ Alle urne fra minacce talebane e presunti brogli
Si parte all’alba da base Tobruk, con i paracadutisti della Folgore, per garantire la sicurezza delle elezioni presidenziali in Afghanistan nella turbolenta provincia di Farah. Nel distretto di Bala Baluk, infestato dai talebani, sono aperti 5 seggi su 30. I parà della 6° compagnia Grifi, dislocati nei punti nevralgici, sono pronti ad intervenire per difendere le urne. Gli insorti hanno proclamato una specie di coprifuoco contro le elezioni “degli infedeli che occupano il paese”. Chi va ai seggi a queste parti rischia la pelle ancora prima di arrivarci. Con dei volantini affissi nelle moschee l’emirato talebano ha minacciato “di piazzare mine sulle strade principali”. I terroristi suicidi si sono inventati nuove tattiche come spiega prima di partire il tenente dei paracadutisti Alessandro Capone. L’elezione del nuovo presidente afghano e dei consigli provinciali nelle zone a rischio come questa di Bala Baluk è un terno al lotto. Nell'umile e polveroso villaggio di Sharak, le 40 famiglie che ci abitano avevano ricevuto solo 8 certificati elettorali. "E' passato il comandante Zabid Jalil e gli abbiamo consegnato le schede. Ha detto che ci pensa lui a scegliere il presidente. Meglio così: se i talebani le trovavano ci avrebbero ammazzato" racconta haji Nabu, il capo villaggio. Jalil è il boss della tribù e ha pure i gradi di generale della polizia. Un esempio di "democrazia" all'afghana.

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