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Articolo
24 luglio 2010 - Interni - Serbia - Il Giornale |
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Superato il passato: oggi l'Italia è un solido alleato |
«La scommessa dell'Italia è di tenere la Serbia saldamente ancorata all'Europa - spiega al Giornale l'ambasciatore a Belgrado, Armando Varricchio- . Il 2014, centenario della tragedia della Prima guerra mondiale, potrebbe diventare un simbolo di integrazione con i serbi il più vicino possibile all'ingresso nella Ue». Una scommessa diplomatica cruciale dopo che la Corte internazionale di giustizia dell'Aia ha riconosciuto l'indipendenza del Kosovo mandando su tutte le furie il governo serbo. Belgrado non tornerà a mandare i carri armati nella provincia ribelle, ma tantomeno riconoscerà il mini Stato albanese. I cacciabombardieri che nel 1999 decollavano da Aviano e bombardavano la capitale serba in difesa del Kosovo ribelle fanno parte del passato remoto. Oggi l'Italia è l'alleato di ferro della Serbia nell'ex Jugoslavia. Lo scorso novembre Roma e Belgrado hanno firmato un accordo strategico in campo economico, culturale, della lotta al crimine, all'immigrazione clandestina e per la difesa. L'intero governo serbo si era spostato per un giorno a Roma per la firma di importanti protocolli e incontri ai massimi livelli, in un clima di grande cordialità. Gli accordi più importanti riguardano la produzione di energia elettrica in Serbia, che verrà trasferita via collegamento sottomarino attraverso l'Adriatico. E ovviamente l'investimento di quasi un miliardo di euro della Fiat nello storico impianto della Zastava di Kragujevac, che nel 1999 fu bombardata dalla Nato. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, ha siglato accordi con Belgrado nel contrasto alla criminalità organizzata e all'immigrazione clandestina. «L'Italia sta svolgendo una grande attività di formazione delle forze di sicurezza e di polizia serbe. A Belgrado hanno pure preso spunto dalla legislazione italiana sul sequestro dei patrimoni mafiosi », spiega al Giornale il nostro ambasciatore. L'aula 2, dell'edificio super protetto del tribunale per i crimini di guerra nella capitale serba, è dedicata a Giovanni Falcone. Grande collaborazione è stata suggellata anche nel campo della Difesa. A fine giugno il capo di Stato maggiore, generale Vincenzo Camporini, è stato ricevuto con tutti gli onori a Belgrado. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si è impegnato a facilitare il cammino della Serbia verso la Nato. I corpi speciali italiani hanno compiuto esercitazioni con quelli serbi e 59 ufficiali di Belgrado sono venuti in Italia. Il ministro della Difesa, Dragan Sutanovac, è intenzionato a spedire un mini contingente di caschi blu in Libano. In Serbia sono presenti circa 200 imprese italiane con colossi come la Fiat, Banca Intesa, Unicredit e le Generali. Alla provincia settentrionale della Vojvodina guardano con estremo interesse le nostre imprese delocalizzate nella vicina Romania, che non hanno più la convenienza del passato con l'ingresso di quel Paese nell'Unione europea. «Da Timisoara si stanno spostando attorno a Novi Sad, capoluogo della Vojvodina» spiegano all'ambasciata italiana. «Le imprese sono interessate non solo per le agevolazioni che vengono decise caso per caso- osserva l'ambasciatore Varricchio- ma per gli accordi di liberalizzazione con tutto l'Est Europa e la Turchia. Dalla Serbia si può esportare senza dazi verso grandi Paesi come la Russia». E in autunno si terrà a Belgrado il vertice italo-serbo, per rinnovare l'amicizia strategica. FBil |
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13 ottobre 2010 | Porta a porta | reportage
Le tigri serbe non fanno prigionieri
“Kosovo je Srbija” (il Kosovo è serbo) gridano gli hooligan di Belgrado durante le partite di calcio. Per loro la ferita della provincia albanese indipendente rimarrà sempre aperta. Giovani, spesso minorenni, studenti o disoccupati, passano facilmente dalle curve degli stadi alle manifestazioni di piazza. Ed il tifo si trasforma in cieca violenza. Sfasciano i Mac Donald, simbolo americano e se la prendono con il governo di Belgrado che vuole entrare in Europa.
Nel 2008, dopo la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, attaccano l’ambasciata Usa a Belgrado. Dal balcone al primo piano fanno sventolare la bandiera nera con il teschio e le tibie incrociate. Un simbolo che si rifà ai cetnici, i partigiani anti nazisti e anticomunisti, durante la seconda guerra mondiale. Lo stesso simbolo sulla maglietta indossata dal capo degli ultrà serbi calati a Genova.
I più famosi sono i Delje, i “coraggiosi” della Stella Rossa di Belgrado, assieme ai Grobari, i “becchini” del Partizan. Acerrimi rivali negli stadi, durante le manifestazioni di piazza si alleano per sfasciare tutto. La Stella rossa è il club calcistico con il più alto numero di dirigenti collusi con la mafia balcanica.
La leggenda nera degli ultrà serbi è Zeliko Raznatovic. Il famigerato Arkan, l’immortale, ucciso nel 2000 a Belgrado a raffiche di mitra. Durante la guerra etnica che distrugge la Jugoslavia arruola i tifosi più violenti. Le Tigri, che non fanno prigionieri, come spiega lo stesso Arkan: “Li ammazziamo subito, con un colpo di pistola alla testa,”.
Dopo la sua morte la tifoseria continua a venir pilotata. I manager di alcune squadre sono vicini agli oppositori ultranazionalisti di Tomislav Nikolic. Il successore di Vojislav Seselj, dietro le sbarre a L’Aja, con l’accusa di crimini di guerra.
Fra gli ultrà non mancano gli estremisti di destra del gruppo Onore, che difende i criminali di guerra serbi, come l’ultimo super latitante, Ratko Mladic. Gli stessi che domenica scorsa si scatenano a Belgrado contro il Gay pride.
Non è un caso che gli ultrà attaccano a colpi di slogan soprattutto il presidente serbo Boris Tadic. Europeista convinto, ha voltato pagina con le tragedie della pulizia etnica ed è grande amico del nostro paese. Dallo scorso anno Italia e Serbia sono alleati strategici nei Balcani e Roma spinge per l’ingresso di Belgrado nell’Unione europea. I nostalgici del passato fomentano i giovani tifosi per impedirlo.
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