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Inchiesta
19 gennaio 2011 - Esteri - Afghanistan - Oggi
Inferno Afghanistan Che cosa è veramente successo all'alpino Miotto
Il 31 dicembre alle 14.50, ora afghana, i talebani attaccano in forze l’avamposto degli alpini a Buji, nella valle afghana del Gulistan.
Alle 15 circa, il caporal maggiore Matteo Miotto viene colpito da un cecchino e muore poco dopo. L’attacco continua e dura in tutto circa 30 minuti. Intervengono i caccia bombardieri della Nato, che disperdono i talebani. Alle 18.20 l’avamposto Snow viene di nuovo attaccato e tornano gli aerei che bombardano gli insorti.
Il primo comunicato ufficiale della Difesa parla solo «di un tiro diretto all’interno» dell’avamposto. Si fa strada l’ipotesi di un cecchino, ma viene omessa la dinamica della battaglia. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, avalla inizialmente la tesi del cecchino isolato, anche se le comunicazioni Sitrep dal teatro operativo descrivevano fin dal 31 dicembre che si era trattato di un attacco ben più complesso. Nei giorni seguenti La Russa si arrabbia con i militari, che poi hanno risposto duramente, sostenendo di non essere stato informato subito di tutti gli aspetti dell’attacco e sostenendo che si è cercato «di indorare la pillola». Solo il 5 gennaio il ministro, in visita in Afghanistan al contingente italiano di 4.000 uomini, rivela l’intera storia, che Oggi descrive nelle pagine che seguono, con dettagli inediti.

«Mi hanno colpito» urla il caporal maggiore Matteo Miotto. Subito dopo crolla e gli occhi si ribaltano all’indietro, bianchi come la morte. Sull’altana nord dell’avamposto Snow (neve), nella valle del Gulistan, un giovane alpino di 24 anni, colpito da un cecchino talebano, cade combattendo a poche ore dal Capodanno. Questa è la storia, senza censure, di un giorno di guerra nella difficile missione di pace in Afghanistan. Matteo, vicentino di Thiene, è l’ultimo dei 36 caduti nel Paese al crocevia dell’Asia. La 66° compagnia del battaglione Feltre era agli sgoccioli del turno nell’inferno di Buji, un puntino della carta geografica, sul fronte sud dello schieramento italiano. Il «Combat out post Snow», preso in carico dagli americani, è un avamposto di 30 metri per 15 in mezzo ai talebani. Una postazione strategica a circa 1.400 metri di quota, arroccata su un terrapieno, spesso sotto tiro degli insorti. Per le penne nere della Julia, come ai tempi della prima guerra mondiale sul Grappa e della seconda sul Don, l’ordine è semplice: tenere le posizioni, a qualunque costo, con le unghie e con i denti. Matteo ci credeva e per questo si è arruolato volontario negli «alpieri», gli esploratori, esperti sciatori e rocciatori. I talebani avevano già attaccato gli alpini il 25 dicembre, il giorno di Natale, come se studiassero il calendario delle nostre feste per colpire il morale degli «infedeli», che cercano di portare l’Afghanistan fuori dal tunnel di 30 anni di guerre.
Il 31 dicembre gli insorti ci riprovano scatenando l’attacco alle 14.50 locali, in pieno giorno. I talebani sono annidati sulle montagne circostanti, in un paesaggio lunare dove è difficile vederli. Sparano sull’avamposto con i kalashnikov e le mitragliatrici, ma altre volte hanno usato razzi e mortai soprattutto sulla ZAE, il lembo di deserto roccioso mentre atterravano gli elicotteri, che garantiscono il legame con il resto del mondo.
A Cop Snow le penne nere del 7° reggimento di Belluno sono una trentina. Matteo, quando sente i primi colpi, corre all’altana nord, a dar man forte su una delle tre torrette dove si monta la guardia. Piccole garitte rialzate, in legno, protette sul tetto e da tutte le parti con sacchetti di sabbia. Il suo «coppio», come in gergo militare si chiama la sentinella con cui dividi guardie, gioie e dolori della missione, sta già sparando. Matteo risponde al fuoco dei talebani, che si fa intenso, con la mitragliatrice. I due alpini si alternano: il primo si alza, spara, mentre l’altro si protegge, accovacciato, dietro i sacchetti di sabbia e viceversa. Così se uno viene colpito il secondo lo soccorre e può continuare a rispondere al fuoco. Oppure uno fa da osservatore e guida il tiro del «coppio«, perché i talebani sono ben annidati dietro le rocce ed è difficile stanarli. I proiettili fischiano dappertutto, con un sibilo che fende l’aria, sempre più vicini.
Fra gli insorti c’è un cecchino con un fucile di precisione russo Dragunov, che inquadra l’altana nord nel suo mirino telescopico. È appostato fra le rocce ad almeno 600 metri di distanza. Studia il bersaglio e spara qualche colpo singolo per aggiustare il tiro. Probabilmente un altro talebano, con un binocolo, gli indica, la traiettoria. Il tiratore scelto attende il momento giusto, che arriva dieci minuti dopo l’inizio dell’attacco, verso le 15. I talebani adesso concentrano il fuoco sull’altana sud, dall’altra parte dell’avamposto. Matteo ha appena finito di sparare la sua raffica e sta per abbassarsi, quando il cecchino lo centra alla spalla sinistra, in una zona non protetta dal giubbotto antiproiettile. Riesce a dire «mi hanno colpito», prima di perdere conoscenza.
Inutili soccorsi
Il «coppio» lancia subito l’allarme e cerca di aiutarlo, ma nonostante i soccorsi non c’è nulla da fare. Un solo, preciso, proiettile gli è entrato nel corpo, devastandolo. L’emorragia interna è letale ed in pochi minuti il giovane caporal maggiore «va avanti», come dicono gli alpini della Julia dei loro caduti. La battaglia, che durerà circa mezz’ora, non è finita. Dall’avamposto sotto tiro si chiede l’appoggio aereo. Arriva prima un bombardiere americano B1 e poi due caccia F 16 a stelle e strisce. Solo il loro rombo in picchiata fa accapponare la pelle. Un F 16 individua i talebani e sgancia una bomba a guida laser. Il rapporto parla di obiettivo «colpito disperdendo la minaccia». Secondo la versione ufficiale gli assalitori erano una decina, ma probabilmente saranno stati di più divisi in gruppi. La salma del giovane alpino caduto viene evacuata con un elicottero Usa, ma i talebani attaccano di nuovo alle 18.20. La 66° compagnia riprende a combattere. Tornano gli aerei e bombardano: dalle intercettazioni radio degli insorti si capisce che almeno quattro talebani sono stati uccisi. In Italia ci si prepara a stappare lo spumante.
Nella valle deI fIori
E in Afghanistan si continua e continuerà a combattere. Cecchini fra gli insorti si erano già fatti notare colpendo con il Dragunov i finestrini anti proiettile dei Lince, dalla parte del conduttore, per bloccare il blindato. Il tenente Alessandro Romani, l’incursore ucciso il 18 settembre durante un assalto, è stato ucciso da un colpo secco, probabilmente di un cecchino talebano annidato su un tetto. Siamo nel Gulistan, che significa «valle dei fiori», ma l’intelligence americana ha da tempo segnalato nella zona cellule di combattenti stranieri legati ad al Qaida. Fra i monti ci sarebbe stato anche un campo di addestramento poi raso al suolo dai caccia. Il nemico numero uno era mullah Akthar, che secondo il comando della missione Nato in Afghanistan «aveva contatti diretti con i capi talebani ed alti esponenti di al Qaida». Akhtar era pure accusato «di organizzare l’addestramento di combattenti stranieri facendoli arrivare attraverso l’Iran», che confina con la provincia di Farah dove si trova il Gulistan. Il 16 luglio scorso un’azione congiunta di corpi speciali ha attaccato e distrutto un campo di addestramento per volontari della guerra santa internazionale uccidendo Akhtar. In agosto, però, quando sono arrivati gli alpini, si continuava a segnalare la presenza di cellule di al Qaida.
Grazie all’offensiva americana ed inglese nella vicina provincia di Helmand i talebani ripiegano nella «valle dei fiori» per leccarsi le ferite. Circa 500 soldati italiani della base avanzata Lavaredo a Bakwa, dell’avamposto Snow e di base Ice a Gulistan, capoluogo della valle, vivono da cinque mesi in prima linea, nella cosiddetta area d’operazione Tripoli. I turni al Combat out post di Buji sono di due settimane. Il piccolo perimetro è difeso dagli esco-bastion, dei cilindri pieni di sabbia e ghiaia. Lo spartano avamposto, circondato da reticolati, si trova ad una ventina di chilometri da base Ice, in difesa di un passo strategico. Un postaccio, anticamera dell’inferno, ma per gli alpini come Miotto era il simbolo del duro impegno in Afghanistan. Sul legno dell’avamposto i giovani hanno inciso un motto d’altri tempi: «Davanti ai muli, dietro ai cannoni, lontan dai paroni».

Fausto Biloslavo

Ecco una toccante mail scritta all’autore di questo articolo da Federico Lunardi, tenente colonnello medico degli alpini, che si trova a Base Lavaredo, a Bakwa, nella zona del Gulistan. La pubblichiamo nelle sue parti meno riservate perché rappresenta molto bene gran parte del sentimento dei nostri soldati in Afghanistan.
È giusto che tutti sappiano chi siamo e che cosa facciamo, alla luce del sole. Invoco solo il rispetto: siamo tormentati da giornalisti preoccupati di sapere come si vive la vita di coppia da queste parti, che cosa diciamo a casa e banalità simili (dai un’occhiata alla recente rassegna di articoli di stampa e di filmati giornalistici dall’Afghanistan).
(...) Dal 31 leggo e sento le domande che vengono poste a genitori distrutti dal dolore per la morte di un figlio avvenuta a seimila chilometri da casa. Se la gente ama veder piangere e sentire parole che faticano a uscire si colleghino sui canali che offrono dirette da case e da isole e lascino perdere noi e le nostre famiglie. Nessuno è qui per fare l’eroe ma per svolgere bene il proprio compito; basta raccontare visioni da «Guerra d’eroi» ma neppure far diventare la nostra scelta di vita una sorta di Beautiful in versione ancor più deficiente dell’originale. (...) La notte tra il 31 e l’1 mi sono svegliato alle 3 pensando al povero Matteo. La mattina ho scritto la lettera che ti allego al C.te in Gulistan che di Miotto era il capo diretto. Mi rendo conto che in queste situazioni scrivo per difendermi e per sentirmi a casa. Sentirmi cioè in un mondo dove le parole hanno un solo significato e non rappresentano un difficile esercizio di ermeneutica. Vorrei spingermi a dire che ripercorro tracce antiche. Boezio scrisse un’opera meravigliosa mentre si trovava in prigione in attesa della sentenza capitale: Consolatio philosophiae; con questo riferimento consumo un terribile peccato di superbia, scusami. Scrivo per me ma cedo alla tentazione tutta umana di inviartela sapendo che condividerai, se non le parole, i sentimenti.
Un abbraccio
Federico
Di seguito pubblichiamo la lettera che lo stesso colonello Lunardi ha scritto al comandante di Miotto, all’indomani della tragedia.
Da Federico ad Antonio. È da ieri pomeriggio che continuo a pensare alla conclusione dell’esistenza umana del Caporal Maggiore Matteo Miotto e quale significato abbia. Scorreranno fiumi di inchiostro sul morire a poco più di venti anni, sul fatto che è la trentacinquesima «vittima» in Afghanistan dall’inizio della missione e la tredicesima dall’inizio dell’anno; riprenderanno fiato le considerazioni sull’opportunità di essere qui.
questo nostro giovane scorgo un sapore di pulito e d’antico. Pulito come il suo sorriso e antico come l’inevitabile incontro con il destino. Pulito e antico perché è morto da soldato, con il fucile in braccio, mentre stava di guardia su un’altana, in un avamposto tra le montagne e il nulla. Quando chiudo gli occhi penso a quanti prima di lui, in trincea o sulle vette delle nostre Dolomiti, hanno trovato così la morte. Sentinella che non ha visto il tramonto di ieri né la fine del 2010 e che ora rimane a guardia delle nostre coscienze e delle nostre menti nel dirci che la tecnologia, l’innovazione, la modernità non bastano a farci sentire sicuri.
più il cambio e continuerà a vigilare con la stessa generosità con la quale aveva fatto conoscere a tutti con parole semplici ma chiare il significato di una scelta di vita in uniforme e col cappello alpino in testa. Sentinella che nel proprio dialogo, ora ancor più intimo, col nonno avrà l’orgoglio di dire che ha compiuto il proprio dovere di soldato e di uomo.
Vorrei poter portare sulle mie spalle anche soltanto una scheggia del dolore che sovrasta te, il suo plotone, gli alpieri del 7° , la sua famiglia.
Federico Lunardi

Baqwa, 01 gennaio 2011
[continua]

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Il giorno dei funerali dei caduti di Kabul
Dai talebani alla situazione in Afghanistan ricordando che l'ultimo saluto ai paracadutisti caduti non può che essere il loro grido di battaglia: "Folgore".

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25 novembre 2001 | TG5 - Canale 5 e Studio Aperto - Italia 1 | reportage
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14 luglio 2011 | Nuova Spazio Radio | intervento
Afghanistan
Si può vincere questa guerra?
Dopo la morte in combattimento dell'ultimo parà della Folgore, fino a quanto dovremo restare in Afghanistan? Almeno fino a quando gli afghani riusciranno a garantirsi da soli la sicurezza, altrimenti caliamo le braghe e la diamo vinta ai talebani. Per sconfiggerli non basta la forza delle armi.

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