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Reportage
27 marzo 2011 - Esteri - Libia - Il Giornale
Le urla di Emam: «Stuprata dagli uomini del raìs»
TripoliEman al Obaidi ha la sfortuna di essere nata a Bengasi, roccaforte dei ribelli. La sua è una terribile storia che svela la faccia più sporca di questa guerra fatta di rapimenti, violenze e torture. Anche i ribelli non scherzano. In un video che si sono girati da soli mostrano come strappano il cuore ad uno dei miliziani di Gheddafi usandolo come trofeo.
Una settimana dopo il via degli attacchi i libici pro Gheddafi bollano gli alleati come «crociati colonialisti». Tajoura, sobborgo di Tripoli è stato di nuovo bombardato. Il radar che avevamo visto intatto 24 ore prima, ieri bruciava. A 180 chilometri ad est dalla capitale l’enclave ribelle di Misurata è sotto attacco delle truppe fedeli a Gheddafi. Le bombe alleate non sono riuscite ad allentare l’assedio. L’obiettivo principale dei governativi è il porto, unica via di rifornimento e di fuga.
Nella tragica storia della guerra in Libia, ieri mattina, è entrata in scena Eman al Obaidi. Arrivata chissà come nell’albergo Rixos che a Tripoli ospita la stampa internazionale. La donna sui 35 anni, visibilmente scossa, è piombata in mezzo ai giornalisti urlando: «Mi hanno fermato ad un posto di blocco i kataeb. Per due giorni sono stata picchiata e seviziata da 15 miliziani di Gheddafi». Eman ha pochi vestiti sporchi addosso e mostra i segni neri lasciati sulle sue caviglie dalle manette. Il viso è rovinato dalle abrasioni. Sulle gambe ci fa vedere dei tagli e rivoli di sangue. «Guardatemi in faccia, guardate il mio corpo. Questi sono i segni delle violenze subite» spiega piangendo la donna. Sul primo momento siamo sbigottiti. Eman sostiene di essere stata presa ad un posto di blocco della capitale assieme ad altre 12 persone. L’accento arabo è proprio quello di Bengasi. Il nome del clan è lo stesso di Abdul Fattah Younis al Obaidi, l’ex ministro dell’Interno di Gheddafi passato con i ribelli. Sostiene di essere riuscita a fuggire, ma non riusciamo a capire come sia arrivata all’albergo, dove si esce e si entra solo con accompagnatori di regime. Forse qualcuno l’ha aiutata dall’interno.
Eman inizia a raccontare la sua storia, quando piombano come falchi gli uomini della polizia segreta che ci controllano. Un agente in borghese, con un lunga cicatrice sulla fronte, cerca di farla smettere buttandosi addosso alla povera disgraziata. Un altro tira fuori una pistola. Si mettono in mezzo anche i camerieri filo Gheddafi. Un’inserviente prende un coltello puntandolo verso la gola della donna: «Traditrice. Stai dicendo menzogne». La polizia segreta usa le maniere forti con i giornalisti. L’inviato del Financial Times viene buttato a terra e riempito di calci. Al cameraman della Cnn fracassano la telecamera. Con me ci provano, ma resisto e salvo le immagini.
Gli sgherri cercano di infilarle un cappuccio in testa, ma lei si dimena. La portano di peso in giardino e continua ad urlare che vuole denunciare alla stampa le sevizie dei miliziani di Gheddafi. Lo stesso vescovo di Tripoli, Giovanni Martinelli, ha rivelato che ben prima dei raid, all’inizio della rivolta, gli oppositori sparivano nel nulla durante la notte.
Alla fine la donna viene trascinata fuori dall’albergo. Eman continua ad urlare fra i singhiozzi le nefandezze subite. Uno sgherro in borghese cerca di tapparle la bocca con la mano. I governativi giurano che è ubriaca e va subito ricoverata in ospedale. La fanno entrare a forza in una berlina bianca con al volante un giovane miliziano di Gheddafi. Lei piange e dice: «Mi riportano in prigione. Aiutatemi vi prego». Per la coraggiosa Eman, nessuno può fare più nulla.
[continua]

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