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Esclusivo
01 febbraio 2012 - Esteri - Somalia - Oggi
317 giorni nella mani dei pirati
Trieste, gennaio
Con un boato pazzesco il razzo dei pirati colpisce il ponte di nave Savina ed esplode vicino alla cabina del comandante. È solo il primo avvertimento che dobbiamo fermarci subito. Vibra tutto, ma noi proseguiamo a tutta a forza, a zig zag, nella battaglia impari di tre ore con i bucanieri somali.
Chi l’avrebbe mai detto, nel 2001 quando mi sono diplomato al Nautico di Trieste, che a 30 anni sarei finito in mezzo all’Oceano indiano, come primo ufficiale di coperta imbarcato sulla petroliera Savina Caylyn abbordata dai pirati?
L’8 febbraio 2011 sono di guardia in plancia quando alle 7.45 il comandante avvista sul radar un peschereccio sospetto fermo a 10-12 miglia da noi. La zona non è quella rossa, a massimo rischio di attacchi dei pirati, ci troviamo a 800 miglia dalla costa somala più vicina, ma la guardia continua a essere rinforzata.
Per sicurezza la nave va al massimo dei giri, accendiamo le pompe antincendio e ci sono pure i manichini per far sembrare che siamo tanti e pronti a reagire. Un sistema utile per i pirati della Malesia, che al massimo rubano qualcosa a bordo e scappano, ma non per i somali.
I marinai sono incollati ai binocoli e uno di loro vede un barchino velocissimo che si stacca dal peschereccio. A bordo c’è gente armata fino ai denti. Come responsabile della sicurezza sono io a dare l’allarme all’interfono: «Attacco dei pirati, attacco dei pirati».
I somali li chiamano Skifo e sono barchini in vetroresina leggeri e veloci con motori fuoribordo da 80 cavalli. I pirati si portano dietro più taniche di benzina possibili per poter continuare l’arrembaggio fino a quando la preda non cede. Sullo Skifo che ci attacca ci sono sei pirati con lanciarazzi a spalla Rpg e fucili mitragliatori Ak 47. A parte l’arsenale, sembrano degli straccioni in canottiera  e pantaloncini.
La fregata italiana Zeffiro è troppo lontana per soccorrerci in tempo. Via radio ci assicurano che manderanno un aereo di una marina alleata.
I pirati girano come avvoltoi attorno alla nave e cercano di abbordarci sul lato dritto. Dopo il primo razzo, che provoca un incendio, ne lanciano altri tre. Uno va a vuoto, ma un altro distrugge le antenne facendo saltare il radar ed il gps. Siamo praticamente “ciechi”. Le vibrazioni causate dalle esplosioni ci fanno venire i brividi lungo la schiena, ma il timoniere continua ad andare a zig zag per creare un moto ondoso che travolga i pirati. Gli assalitori somali sono abili e cercano di agganciare le paratie con delle scalette in acciaio a spezzoni di tre metri. Ogni volta che proviamo a ostacolarli affacciandoci in coperta ci sparano addosso raffiche di kalashnikov. Un pugno di militari o guardie private a bordo sarebbe bastato per fare il tiro al bersaglio con i pirati. Noi siamo disarmati.
La battaglia dura tre ore. Sappiamo che se non riescono a prendere la nave usano i razzi con i timer per cercare di far esplodere la preda come rappresaglia. A un certo punto la scaletta dell’abbordaggio cade in mare e il barchino si allontana all’orizzonte. Pensiamo di avercela fatta, di essere salvi. Purtroppo i corsari tornano alla carica e si piazzano sotto la poppa, dove non riusciamo a vederli. Nel frattempo chiama lo Zeffiro e ci sentiamo perduti: l’aereo che doveva soccorrerci è impegnato a sventare un altro attacco e non arriverà.
I pirati riescono ad agganciare la scaletta a poppa e salgono a bordo in cinque, uno dietro l’altro. Tutti i boccaporti della nave sono sigillati e siamo barricati dentro, ma il ponte di comando è tutto una vetrata. I pirati conoscono poche parole in inglese e si fanno capire con le armi. Ci arrendiamo. Uno dei bucanieri sferra subito un pugno al comandante, Giuseppe Lubrano Lavadera,  sbraitando che dovevamo fermarci subito al primo razzo. Si chiama Abdi Sar, ma noi gli affibbiamo subito il nomignolo di “generale” perchè subito indossa, tronfio, una camicia bianca del nostro comandante con i gradi. Anche se vestiti da straccioni i bucanieri sono tutti alti, grossi e sembrano palestrati. Il loro capo, che tutti chiamano Captain Somali, sulla quarantina, è l’unico armato solo di pistola. I pirati ordinano a 5 ufficiali italiani e 17 indiani dell’equipaggio di mettersi in ginocchio con le mani sulla testa, sotto il sole che picchia ed il tiro delle armi. Noi siamo ostaggi e loro festeggiano euforici sparando in aria.
Captain Somali ordina al comandante di raggiungere una determinata latitudine e longitudine dove si trova il peschereccio, che serve da nave madre. Si tratta di un’imbarcazione iraniana con l’equipaggio prigioniero. A bordo è zeppo di pirati, almeno 35, taniche di benzina, armi, compresa una mitragliatrice pesante su un treppiede. Salgono tutti su nave Savina come cavallette. A tracolla hanno i nastri di munizioni e sono uguali alle foto dei tagliagole somali che ho visto sui giornali. I pirati usano i pescherecci iraniani che sequestrano come nave appoggio. L’equipaggio catturato ha la sola speranza che i corsari trovino in fretta un mercantile da abbordare. Per loro il premio è aver salva la vita e venir liberati.
La nuova rotta punta alla Somalia verso una cittadina che chiamano Haradere a 1200 miglia di distanza. I pirati ci derubano di tutto dai portafogli, agli orologi, i computer e le catenine portando uno alla volta nelle cabine. Affamati e assetati mangiano e bevono quello che trovano, dal latte alla Coca Cola. Per fortuna non c’è alcol a bordo. Mordono qualcosa di commestibile e se non sono soddisfatti sputano il boccone per terra. A bordo è il caos con la musica a palla giorno e notte collegata agli altoparlanti, sia somala che rock, scaricata sul telefonino da Internet.
Le luci devono restare tutte accese per segnalare alle altre bande di pirati di non abbordarci. Captain Somali si è slogato una caviglia e zoppica un po’. Per questo lo soprannominiamo “gamba di legno”. Il comandante della squadra d’assalto conosce bene solo due parole in inglese sgrammaticato: «I wanted money (Voglio soldi)». Quando arriva una telefonata dall’Italia alza il ricevitore e urla il suo motto «I wanted money» e poi sbatte giù. Tempo dopo mi mostrerà una fotografia della capanna in cui vive con la famiglia. Accanto si vede un fuoristrada nuovo di zecca. Lo scintillante 4x4 è il suo compenso per aver catturato la nostra nave.
Nei tre giorni di navigazione i pirati sono tesi sapendo che è l’unica finestra utile per lanciare un blitz delle marine occidentali al largo della Somalia in missione anti pirateria. Dodici ore prima dell’arrivo a Haradere un elicottero italiano ci sorvola per capire se siamo vivi. I pirati sistemano bottiglie piene di benzina lungo lo scafo pronti ad incendiare tutto compreso il carico di 86 mila tonnellate di greggio. Spianano i fucili contro di noi minacciando di ucciderci a uno a uno in caso di attacco dei corpi speciali.
L’11 febbraio sono a prua quando stiamo arrivando ad Haradere. E resto sbalordito nel vedere in rada altre nove navi catturate. Siamo nella baia dei pirati, una specie di Tortuga moderna. A un mozzo indiano sussurro: «Resteremo qui per 10 anni». Nel giro di un’ora arrivano a bordo cento pirati per festeggiare la conquista del bottino. Si portano dietro caprette da sgozzare, ringraziano Allah, sparano traccianti in aria, suonano e fanno baldoria. Però giurano che della politica non ne vogliono sapere. Odiano gli al Shabaab, i talebani somali, che proibiscono anche la musica e non amano il traballante governo di Mogadiscio appoggiato dalla comunità internazionale. A turno ripetono che la Somalia è travolta da 20 anni di anarchia e quello che conta, per non morire di fame, sono i soldi. Sotto le magliette hanno cicatrici di guerra e ustioni per i metodi di cura delle malattie da stregoni.
«Questa è la mia nave, l’ho catturata io» si vanta un pirata con gli occhi di ghiaccio, da belva felina. Alto e muscoloso lo chiamiamo “il leopardo”, proprio per il suo sguardo. A terra c’è solo sabbia. Non si vede una casa, un essere umano, nulla.
Inizia così la più lunga prigionia per un mercantile italiano, che durerà 317 giorni, quasi 11 mesi. I pirati ci fanno da ciceroni indicando una nave nella rada dove c’è un italiano a bordo. Su un’altra sottolineano che un membro dell’equipaggio è morto e così via. Siamo costretti a vivere sul ponte di comando, uno accanto all’altro dormendo per terra come sardine con un caldo che di giorno raggiunge i 45 gradi.
A bordo arriva Alì, che si presenta come “avvocato” e sostiene di essere il negoziatore con la società per farci tornare in patria il prima possibile. Alì sta trattando anche per altre navi, ma da casa, via telefonino. «Non sto a bordo con questa gentaglia», spiega in perfetto inglese indicando i pirati.  L’avvocato ci permette di chiamare le famiglie per tre minuti a testa.
I corsari somali stanno bene sul Savina, come se fossero in albergo. All’inizio c’è l’aria condizionata, il nostro cuoco prepara ai corsari il pane fresco ogni mattina e ci fanno lavorare come schiavi. I pirati sporcano dappertutto. Noi dobbiamo pulire e guai a reagire. In pratica siamo i loro servi. Ma queste umiliazioni sono poco rispetto ai momenti di terrore che dovremo provare mesi dopo.
La situazione cambia drammaticamente quando il diesel per il generatore finisce e cominciano a scarseggiare le provviste. I pirati ci accusano di nascondere il carburante e si accaniscano sul direttore di macchine, Antonio Verrecchia. Lo legano incaprettandolo e lo abbandonano per un’ora sotto il sole cocente. È solo l’inizio di quattro giorni di torture.
Uno scagnozzo violento mi punta il fucile alla nuca e poi sposta all’ultimo momento la canna tirando il grilletto. Il proiettile fischia vicino all’orecchio e il pirata minaccia: «La prossima volta ti sparo in testa». Poi mi picchia sulla schiena con il calcio del kalashnikov e urla: «Parla se non vuoi morire. Dov’è il diesel per il generatore?».
Anche i somali che sgarrano finiscono incaprettati, ma per 15 minuti. A me tocca per un’ora e a Verrecchia due. Non senti più le braccia e le gambe perchè ti legano anche le caviglie inarcandoti la schiena. Sembra che una parte del corpo vada in cancrena. Quando finisce il supplizio non riesci neppure a camminare.
A un certo punto buttano il direttore di macchina dentro una rete per calarlo con una gru nel mare infestato da squali e barracuda. I pirati vogliono immergerlo, ma il marinaio che manovra la gru ha la prontezza di spirito di simulare un guasto vicino all’acqua e il direttore si salva.
Una mattina ci presentano un “contratto” in cui sta scritto che se entro le cinque della sera non verranno trasferite 100 tonnellate di greggio del carico, a mano, con i secchi, per avviare il generatore verrò ucciso. E se il direttore non lo metterà in moto è morto. Supplichiamo dicendo che non ce la faremo mai. Alla fine siamo costretti a firmare per qualche ora di vita in più. Il risultato è che il generatore invece di partire si brucia. A quel punto i pirati prendono tutti gli ufficiali e ci legano uno accanto all’altro. Poi ci girano attorno pestando e sbraitando. Alcuni di noi vengono tirati per le cinghie dei legacci a mezz’aria e sbattuti rovinosamente a terra.
Subito dopo le torture ci costringono a chiamare a casa doloranti. I familiari sentono che siamo veramente a pezzi. Il direttore sembra morto e devono tirarlo su in quattro, mentre il comandante gli tiene il telefono. Non capisce neppure con chi sta parlando e grida solo: «Aiuto, aiuto!». A mio padre Adriano, a Trieste, dico: «Mi ammazzano... Fai qualcosa per salvarci».
Dopo le violenze mi concentro sulla sopravvivenza giorno per giorno. Non penso più quanto ci vorrà prima della liberazione, ma solo a non morire.
Eugenio Bon
(testo raccolto da Fausto Biloslavo)
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20 maggio 2013 | Radio Capodistria | intervento
Somalia
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Tutto quello che non è mai stato detto sul "Tesoro dei pirati" ovvero i 400 milioni di dollari pagati per liberare le navi sequestrate. A Radio Capodistria dopo il convegno sulla pirateria somala organizzato dall'Autorità portuale al Punto Franco vecchio di Trieste.

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01 settembre 2010 | Radio radicale | intervento
Somalia
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I talebani somali, il fragile governo transitorio ed il ruolo della comunità internazionale.

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