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Esclusivo
08 febbraio 2012 - Esteri - Somalia - Oggi
Arrivano i sacchi e noi siamo liberi
L’8 febbraio 2011 i pirati somali assalgono la petroliera italiana Savina Caylyn davanti alle coste dell’Oman. I cinque ufficiali italiani e i 17 marinai indiani resistono per tre ore all’attacco, ma la nostra fregata Zeffiro, che pattuglia l’area, è troppo lontana e non riesce a intervenire in tempo per impedire l’arrembaggio. La Savina Caylyn viene presa dai pirati e portata a Haradere, in Somalia. I sequestrati vengono costretti a vivere tutti insieme nella plancia, trattati come schiavi, torturati, sottoposti a finte esecuzioni, incaprettati. Poi i loro aguzzini li fanno chiamare a casa doloranti e sconvolti per sollecitare il pagamento del riscatto. Eugenio Bon, primo ufficiale di coperta, prosegue il suo drammatico racconto dei 317 giorni di prigionia. Dopo 4 mesi in mano ai pirati le trattative per la liberazione della nostra nave, giunte a buon punto, si arenano. Arriva un nuovo negoziatore, che ricomincia da zero. Gli affibbiamo il soprannome “dottorino” perchè parla italiano. Quando mi vede con un barbone rosso, lungo come quello di Robinson Crosuè, esclama: “Assomigli al mio maestro Luciano”. Il “dottorino” è sui 50 anni vive a bordo e ha imparato la nostra lingua nelle scuole italiane della Somalia.
Grazie a lui i corsari mettono in piedi una sceneggiata. Assieme all’allievo, Gianmaria Cesaro e al terzo ufficiale, Enzo Guardascione, salgo su un barchino che si dirige verso terra, dove rischiamo di sparire chissà dove. Lo fanno vedere a tutto l’equipaggio schierato sul ponte, ma poi, quando i marinai sono rientrati, virano e torniamo a bordo di nascosto. Per 40 giorni restiamo chiusi in infermeria. Tutti pensano che siamo a terra. La stanza è angusta: due di noi dormono sul pavimento e dobbiamo stare al buio ed in silenzio per non farci scoprire. Una notte siamo costretti a togliere la tuta bianca di lavoro della società e ad indossare i vestiti tradizionali somali. Poi ci costringono a scendere nella piccola piscina della nave, che è senza acqua e coperta da un telone. Dentro ci attende un gruppo di pirati armati e mascherati. Non solo: dalla costa hanno portato terra, pietre, arbusti, oltre a ciotole di riso e fagioli per far sembrare che siamo in una capanna somala. I pirati ci legano puntando i fucili mitragliatori sulle nostre teste e scattano delle foto. Poi le spediscono via fax in Italia con l’obiettivo di aumentare la pressione, ma è stata una sceneggiata.
"FRA LE PULCI CI SOGNAMO LA PIZZA" Pulci, pruriti e sporcizia sono all’ordine del giorno. Si dorme per terra sporchi di petrolio e la pelle si squama. Febbri e dissenteria sono la normalità. Il nostro gabinetto di fortuna è un water arrugginito all’aperto, che scarica in mare. Siamo sempre più deboli e magri.
Ogni sera, per aggrapparti alla vita, chiudi gli occhi e pensi ai ricordi, ai tuoi cari e sogni la pizza. Il terzo ufficiale, Enzo Guardascione, di Napoli racconta: “Ogni volta prima di imbarcarmi vado a mangiare una buona pizza, ma quest’anno non l’ho fatto”.
Negli ultimi mesi di prigionia le provviste sono finite e dobbiamo accontentarci di una ciotola di riso in bianco. L’acqua potabile, prodotta dall’evaporatore, scarseggia ed i pirati riducono le razioni.
Fra i corsari non tutti sono tagliagole. Il più giovane, Mohammed, 18 anni, non gira armato. I suoi lo chiamano “hero”, che non vuol dire eroe, ma ragazzo di bordo. Parla bene inglese e cerca di tranquillizzare tutti: “Non preoccupatevi tornerete vivi a casa”.
Elias è il capo della Tortuga somala, ma noi lo chiamiamo “l’armatore”. Alle spalle ha sempre una guardia del corpo ed armi nuove di zecca. I pirati raccontano di avere parenti ed amici in Europa, che vogliono raggiungere dopo aver fatto un po’ di soldi. In Somalia c’è la guerra e  odiano gli al Shabab (i talebani somali ndr) che chiamano “taglia teste”. Molti sostengono di avere tre mogli e 15-20 figli. Pregano cinque volte al giorno rivolti alla Mecca ed ogni tanto il “dottorino” racconta qualche shura del Corano. Dall’Italia sanno tutto sulla reazione dell’opinione pubblica, comprese le manifestazioni di piazza a nostro favore. Scaricano da internet gli articoli di giornale che parlano di noi. I pirati puntano ad usare i media per i loro fini. Il 26 ottobre con il direttore di macchina,  Antonio Verrecchia, mi fanno chiamare in diretta Chi l’ha visto?. Un mese prima della fine dell’incubo il “dottorino” ci avvisa che la faccenda si sta risolvendo. Però cominciano a circolare voci che i somali vogliono rilasciare noi italiani e tenersi l’equipaggio indiano per scambiarlo con dei pirati catturati dalla marina di New Delhi.
"QUANDO FINIRA'?" Il 21 dicembre ci fanno allineare tutti in coperta. Sopra le nostre teste passa un aereo civile per identificarci. Poi getta in mare delle sacche. Non so e non voglio sapere cosa c’è dentro. Imbarco gli indiani sulla lancia di salvataggio e li ammaino a mare. Una piccola imbarcazione di rifornimento li aspetta al largo. All’orizzonte si intravede la sagoma di una fregata della marina militare italiana (il Grecale ndr). L’aeroplanino ripassa per identificare noi italiani e lancia altre sacche in mare. A questo punto arrivano a bordo altri pirati mai visti prima e cominciamo a temere che l’odissea ricominci. Negli ultimi giorni un centinaio di filibustieri ha saccheggiano quel poco che resta portandosi via i frigoriferi, gli ultimi calzini, le nostre mutande. Alla fine ricevono una telefonata e se ne vanno. La sera del 21 dicembre, quattro giorni prima di Natale, siamo ancora nella Tortuga somala, ma finalmente liberi, dopo 317 giorni di prigionia.
Arriva un elicottero e si calano a bordo gli incursori ed i fanti di marina del reggimento San Marco pronti a respingere qualsiasi minaccia se fosse necessario. I tecnici militari ci aiutano a rimettere in moto le macchine e con grande difficoltà cominciamo a muoverci, ma appena a 4 nodi.
Il 27 dicembre, mentre ci dirigiamo verso gli Emirati Arabi scortati dal Grecale, un’altra petroliera italiana l’Enrico Ievoli (18 persone d’equipaggio compresi 6 italiani ndr) viene catturata dai pirati. A bordo restano gli uomini del San Marco, ma
la nave militare cambia rotta dirigendosi verso il punto dell’abbordaggio per ritornare dopo due giorni. Il 6 gennaio, per la Befana, attracchiamo al porto di Fujairah. Dopo 16 mesi in mare e quasi 11 in ostaggio tocco finalmente terra.  Ho perso 13 chili e ne peso 55.
Al rientro a casa a Trieste mi sento frastornato dalla gente, l’accoglienza festosa, il traffico a cui non sono più abituato. Penso ai marittimi ancora in mano ai pirati. Se non troverò nella mia città un lavoro legato la mare continuerò a battere le stese rotte dove siamo stati abbordati. Mi chiedo cosa racconterò ai figli e nipoti, quando sarò nonno, di questa terribile avventura? Non lo so, ma spero un giorno di andare con loro in Somalia, un paese finalmente pacificato e magari turistico come il vicino Kenya, per rivedere la Tortuga dei pirati.
Eugenio Bon
(testo raccolto da Fausto Biloslavo)
2 - fine


radio

01 settembre 2010 | Radio radicale | intervento
Somalia
La Somalia dopo vent'anni di anarchia
I talebani somali, il fragile governo transitorio ed il ruolo della comunità internazionale.

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20 maggio 2013 | Radio Capodistria | intervento
Somalia
Il tesoro de pirati
Tutto quello che non è mai stato detto sul "Tesoro dei pirati" ovvero i 400 milioni di dollari pagati per liberare le navi sequestrate. A Radio Capodistria dopo il convegno sulla pirateria somala organizzato dall'Autorità portuale al Punto Franco vecchio di Trieste.

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