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30 settembre 2012 - Esteri - Afghanistan - Il Giornale
Le vere storie dei nostri soldati morti per aiutare l’Afghanistan
«In queste pagine non c’è solo la guerra, c’è la storia di chi ha de­ciso di combatterla. Non c’è solo la cronaca della loro morte, c’è la storia della loro vita». Bisogna ini­ziare a leggere Afghanistan solo andata , di Gian Micalessin, dal­l’ultima di co­pertina per ca­pire in un atti­mo il senso ed il valore del pri­mo libr­o sui ca­duti italiani nel disgraziato pa­ese degli aqui­loni. Cinquan­tadue soldati, negli ultimi die­ci anni, che so­no tornati a ca­sa in una bara avvolta dal Tri­colore.
Nulla in confronto alla mattanza sul Carso della prima guerra mondiale o alle perdite del­la battaglia di El Alamein. Tutto per le famiglie e gli amici dei cadu­ti che hanno perso un figlio, un marito, un fratello di sangue o d’arme.
Gian, giornalista veterano del­l’Afghanistan fin dai tempi dell’in­vasione sovietica, ha scelto otto storie significative di caduti italia­ni. Nel libro di Cairo editore (253 pagine - 15  euro) racconta attra­verso le parole di chi era al loro fianco, finalmente senza infingi­menti,
 piccole censure o depistag­gi, la loro morte in battaglia o salta­ti su una mina. Ed attraverso i ri­cordi di chi ha amato, come geni­tore o consorte, i caduti nelle valli e petraie afghani, tratteggia in ma­niera unica la storia della loro vi­ta.
Il tenente colonnello Carmine Calò, come ricorda sempre sua moglie Maria, è il primo italiano in divisa a morire in Afghanistan. Falciato da una raffica talebana mentre faceva il casco blu a Kabul nel 1998, quando «la guerra deve ancora cominciare». Dodici anni
 dopo il conflitto è al culmine, al­tro che missione di pace. Il 9 otto­bre 2010 Gianmarco Manca, Mar­co Pedone, Sebastiano Ville e Francesco Vannozzi, tutti del 7˚ reggimento alpini di Belluno,fini­scono in un’imboscata e vengono dilaniati da una trappola esplosi­va. Il primo a portare soccorso, sotto una gragnuola di colpi tale­bani, è il tenente colonnello medico Federico Lunar­di. «Capisco subito. Il mez­zo è squarciato, a pezzi. Lu­ca Cornacchia ( che sopravvi­vrà ndr ) è l’unico ancora lega­to alle cinture- racconta Lunar­di- Per gli altri non c’è assoluta­mente nulla da fare. Sposto Man­ca, lo esamino: non c’è più segno di vita. Non respira, non ha più battito».
Mentre l’Italia festeggia il Capo­danno del 2010 muore in batta­glia per difendere il suo avampo­sto nella famigerata valle del Guli­stan,
 il primo caporal maggiore Matteo Miotto. I compagni ricor­dano così il suo battesimo del fuo­co ben prima del fatidico 31 di­cembre: «Matteo se ne sta con il busto sporto in fuori, appoggiato sui sacchetti di sabbia, completa­mente allungato oltre la feritoia dell’altana con le mani tese sul­l’impugnatura della ( mitragliatri­ce) Browning. Scarica un volume di fuoco impressionante per ga­rantirci la massima copertura». Alpino come il nonno lascia una toccante lettera testamento chie­dendo di essere sepolto nel cimite­ro di Thiene, il suo paese, accanto ai caduti in guerra del passato.
Un altro soldato italiano a mori­re in battaglia e a venir addirittura riempito di piombo da un coman­dante degli insorti che gli porta via l’arma come trofeo, è Giovan­ni Pezzulo. Maria, prima di spo­sarlo, dice alla mamma: «Sì, fa il soldato, ma stai tranquilla, te l’ho già detto, è proprio un bravo ra­gazzo. Ed è anche bello!». La mo­glie del soldato riceve la sua ulti­ma mail il 14 febbraio 2008, poi Giovanni parte per la missione di sola andata.
Il tenente Manuel Fiorito ed un altro alpino ci fanno capire fin dal 2006 che in Afghanistan, per por­tare una speranza di pace, si muo­re. Con le gambe spappolate, in un lago di sangue, rincuora i suoi uomini feriti meno gravemente: «Non preoccupatevi ragazzi stan­no arrivando i soccorsi, ci porte­ranno fuori di qui».
Il 17 settembre 2009 a Kabul un attacco kamikaze con un’auto­bomba investe un convoglio di pa­racadutisti. «Sono tutti morti, tut­ti morti » grida un sopravvissuto al­la radio. Fra le sei vittime c’è il ser­gente maggiore Roberto Valente alla sua ultima missione per la feli­cità della moglie Stefania. Lei rac­conta che durante l’ultima licen­za prendeva in braccio il loro par­go­lo di due anni per fargli guarda­re la stella di mamma e papà.
«No­stro figlio Simone la cerca ogni se­ra e ripete: “Papà è lassù”». 

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14 marzo 2007 | L'Infedele - La7 | reportage
Afghanistan, la guerra impossibile
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24 novembre 2001 | Studio Aperto - Italia1 | reportage
Gli orfani di Kabul
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16 dicembre 2012 | Terra! | reportage
Afghanistan Goodbye
Dopo oltre dieci anni di guerra in Afghanistan i soldati italiani cominciano a tornare a casa. Questa è la storia del ripiegamento di 500 alpini dall’inferno di Bakwa, una fetta di deserto e montagne, dimenticata da Dio e dagli uomini, dove le penne nere hanno sputato sangue e sudore. I famigerati ordigni improvvisati chiamati in gergo Ied sono l’arma più temibile dei talebani che li sotterrano lungo le piste. Questo è il filmato ripreso da un velivolo senza pilota di un blindato italiano che salta in aria. A bordo del mezzo con quattro alpini del 32imo genio guastatori di Torino c'ero anch'io. Grazie a 14 tonnellate di corazza siamo rimasti tutti illesi. Il lavoro più duro è quello degli sminatori che devono aprire la strada alle colonne in ripiegamento. Il sergente Dario Milano, veterano dell’Afghanistan, è il cacciatore di mine che sta davanti a tutti. Individua le trappole esplosive da un mucchietto di terra smossa o da un semi invisibile filo elettrico del detonatore che spunta dalla sabbia. Nel distretto di Bakwa, 32 mila anime, questo giovane afghano rischia di perdere la gamba per la cancrena. Il padre ha paura di portarlo alla base italiana dove verrebbe curato, per timore della vendetta talebana. La popolazione è succube degli insorti e dei signori della droga. Malek Ajatullah è uno dei capi villaggio nel distretto di Bakwa. La missione del capitano Francesco Lamura, orgoglioso di essere pugliese e alpino è dialogare con gli afghani seduto per terra davanti ad una tazza di chai, il tè senza zucchero di queste parti. Malek Ajatullah giura di non saper nulla dei talebani, ma teme che al ritiro delle truppe italiane il governo di Kabul non sia in grado di controllare Bakwa. Tiziano Chierotti 24 anni, caporal maggiore del 2° plotone Bronx era alla sua prima volta in Afghanistan. Una missione di sola andata. La polizia afghana cerca tracce dei talebani nel villaggio di Siav, ma gli insorti sono come fantasmi. Il problema vero è che nessuno vuole restare a Bakwa, dove in tutto il distretto ci sono solo 100 soldati dell’esercito di Kabul. Il maggiore Gul Ahmad ha arrestato tre sospetti che osservavano i movimenti della colonna italiana, ma neppure con il controllo dell’iride e le impronte digitali è facile individuare i talebani. Il caporal maggiore Erik Franza, 23 anni, di Cuneo è alla sua seconda missione in Afghanistan. Suo padre ogni volta che parte espone il tricolore sul balcone e lo ammaina solo quando gli alpini del 2° reggimento sono tornati a casa. Per Bakwa è passato anche il reggimento San Marco. I fucilieri di marina, che garantiscono il servizio scorte ad Herat, hanno le idee chiare sulla storiaccia dei due marò trattenuti in India. Anche se ordini da Roma li impongono di non dire tutto quello che pensano. Per Natale i 500 alpini di base Lavaredo saranno a casa. Per loro è l’addio all’Afghanistan dove rimangono ancora 3000 soldati italiani.

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04 gennaio 2012 | Radio24 | intervento
Afghanistan
Parlano le armi sussurrano le diplomazie


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