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Articolo
03 settembre 2013 - Esteri - Siria - Il Giornale
La crisi delle guerre “made in Usa”
In dodici anni l'Occidente, capitanato dagli americani, ha combattuto tre guerre ed il pre­sidente Usa, quasi in solitaria, vorrebbe lanciarne un'altra contro Damasco. Però dall'Af­ghanistan alla Libia passando per l'Iraq, la voglia di interven­to ha perso smalto.
Dopo l'11 settembre 2011 i B-52 a stelle e strisce, che mar­tellavano le postazione taleba­ne a nord di Kabul, avrebbero dovuto liberare per sempre il di­sgraziato Paese dall'oscuranti­smo islamico. Peccato che oltre dieci anni di disperato tentati­vo di pacificazione, con i nostri soldati in prima linea, non sia­no bastati. La democrazia, pur­troppo, non si esporta come
 una lavatrice e alla vigilia del ri­ti­ro dell'Afghanistan ci ritrovia­mo con l'incubo del ritorno dei talebani. Nel Paese al crocevia dell'Asia si vota, ma non basta per trasformarlo in un Cantone svizzero. Alla seconda elezione del presidente Hamid Karzai, nel 2009, in uno sperduto villag­gio nella zona occidentale del Paese sotto comando italiano, un anziano capo locale ci ha da­to una lezione di democrazia all'afghana. Se la sua gente fos­se andata alle urne i talebani mi­nacciavano di tagliare loro le mani o peggio. Per fortuna alla vigilia del voto è passato un ge­nerale della polizia, capo clan della zona. Per risolvere il di­lemma ha preso lui le tessere di registrazione ed è andato a vota­re per tutto il villaggio, ovvia­mente a favore di Karzai.
Nel 2003 gli alleati hanno in­vaso l'Iraq cercando le armi di distruzione di massa, che non c'erano. Non avevano il corag­gio di spiegare al mondo che vo­levano tirare giù Saddam Hus­sein, la vera arma di distruzio­ne del suo popolo. Lui sì, con il cugino Alì il chimico, aveva bel­lame­nte gasato cinquemila cur­di con soddisfazione, ma a quel tempo era ancora ben visto da­gli americani per la sua guerra di logoramento all'Iran degli ayatollah.
Un sergente di New York, che ha visto crollare le Torri gemel­le, è andato in guerra nel deser­to iracheno con scritto sull'el­metto
 «11 settembre, Dio per­dona, io no». Abbattuto Sad­dam, i soldati Usa hanno perso 4 mila uomini in una sanguino­sa guerriglia alimentata da cel­lule di Al Qaida, che prima non c'erano. Ci si aspettava che al­meno il petrolio restasse salda­mente in mani americane do­po il ritiro delle truppe. Ed inve­ce si scopre che sono i cinesi, nel 2003 fermamente contrari all'intervento, a papparsi la tor­ta più grossa dell'oro nero, la metà del milione e mezzo di ba­rili di petrolio estratti ogni gior­no in Iraq. Impantanati in Afghanistan ci siamo dati una calmata fino alla chiamata alle armi della pri­mavera araba sprofondata in un pericoloso inverno. Nel 2011 francesi ed americani, l'antica coppia ricompattata contro Damasco, ha preso per buona la propaganda di Al Jaze­era su fosse comuni inesistenti alle porte di Tripoli e altre nefan­dezze non sempre vere. Una condanna a morte per il colon­nello Gheddafi ed il suo regime con l'Italia che è come se si fos­se bombardata da sola tenendo conto dei nostri interessi ener­getici in Libia. Agli americani è andata ancora peggio. A Benga­si, la «capitale» della rivolta, le frange più estreme degli anti Gheddafi hanno fatto secco l'ambasciatore Usa.
Non ci si può stupire che l'opi­nione pubblica occidentale sia sempre più scettica nei con­fronti di nuove avventure belli­che. Soprattutto dopo due anni di guerra civile in Siria, dove è arduo separare con l'accetta i buoni dai cattivi. Ci scandaliz­ziamo, giustamente, per l'orro­re
 chimico. Nessuno, però, si è mosso per i centomila morti, compresi molti governativi, provocati al 90% dall'artiglieria e dai combattimenti casa per ca­sa, come ha ammesso lo stesso Pentagono. Il presidente Oba­ma, nonostante la guerra «uma­nitaria » stia perdendo il suo smalto, ha ordinato alla portae­rei-Nimitz di avvicinarsi al Medi­terraneo. Se proprio vuole bom­bardare Assad, per par condi­cio dovrebbe colpire anche gli estremisti filo Al Qaida che pun­tano a conquistare Damasco. In molti sono giunti dall'Iraq, dove si erano fatti le ossa am­mazzando marines. 
www.faustobiloslavo.eu
 
[continua]

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25 gennaio 2016 | Tg5 | reportage
In Siria con i russi
La guerra dei russi in Siria dura da 4 mesi. I piloti di Mosca hanno già compiuto 5700 missioni bombardando diecimila obiettivi. In queste immagini si vedono le bombe da 500 o 1000 chili sganciate sui bersagli che colpiscono l’obiettivo. Un carro armato della bandiere nere cerca di dileguarsi, ma viene centrato in pieno e prende fuoco. In Siria sono impegnati circa 4mila militari russi. La base aerea a 30 chilometri dalla città siriana di Latakia è sorvolata dagli elicotteri per evitare sorprese. Le bombe vengono agganciate sotto le ali a ritmo continuo. I piloti non parlano con i giornalisti, ma si fanno filmare con la visiera del casco abbassato per evitare rappresaglie dei terroristi. Il generale Igor Konashenkov parla chiaro: “Abbiamo strappato i denti ai terroristi infliggendo pesanti perdite - sostiene - Adesso dobbiamo compiere il prossimo passo: spezzare le reni alla bestia”. Per la guerra in Siria i russi hanno mobilitato una dozzina di navi come il cacciatorpediniere “Vice ammiraglio Kulakov”. Una dimostrazione di forza in appoggio all’offensiva aerea, che serve a scoraggiare potenziali interferenze occidentali. La nave da guerra garantisce la sicurezza del porto di Tartus, base di appoggio fin dai tempi dell’Urss. I soldati russi ci scortano nell’entroterra dilaniato dai combattimenti. Negli ultimi tre anni la cittadina era una roccaforte del Fronte al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Le bombe russe hanno permesso ai governativi, che stavano perdendo, di riguadagnare terreno. Sul fronte siriano i militari di Mosca usano il blindato italiano Lince. Lo stesso dei nostri soldati in missione in Afghanistan.

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10 settembre 2013 | Tg5 | reportage
L'inferno di Jobar alle porte di Damasco
Alle porte della capitale siriana il nostro inviato racconta il sobborgo ridotto a un cumulo di macerie, nella zona dove sono state usate le armi chimiche.

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12 settembre 2013 | Tg5 | reportage
Maaalula: i tank governativi che martellano i ribelli
Il nostro inviato in Siria, Fausto Biloslavo, torna nel mezzo dei combattimenti fra le cannonate dei carri armati

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23 gennaio 2014 | Radio Città Futura | intervento
Siria
La guerra continua


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02 luglio 2015 | Radio24 | intervento
Siria
La famiglia jihadista
"Cosa gradita per i fedeli!!! Dio è grande! Due dei mujaheddin hanno assassinato i fumettisti, quelli che hanno offeso il Profeta dell'Islam, in Francia. Preghiamo Dio di salvarli”. E’ uno dei messaggi intercettati sulla strage di Charlie Hebdo scritto da Maria Giulia Sergio arruolata in Siria nel Califfato. Da ieri, la prima Lady Jihad italiana, è ricercata per il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale. La procura di Milano ha richiesto dieci mandati di cattura per sgominare una cellula “familiare” dello Stato islamico sotto indagine da ottobre, come ha scritto ieri il Giornale, quando Maria Giulia è arrivata in Siria. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ha spiegato, che si tratta della “prima indagine sullo Stato Islamico in Italia, tra le prime in Europa”.

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02 dicembre 2015 | Radio uno Tra poco in edicola | intervento
Siria
Tensione fra Turchia e Russia
In collegamento con Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. In studio conduce Stefano Mensurati.

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