da Damasco
Fausto Biloslavo
L’inferno alle porte di Damasco, la surreale normalità nella capitale, i cristiani minacciati ed i soldati siriani con il cappellino di New York sono lo strano miscuglio della guerra vista dalla parte di Assad. Se l’attacco americano è rimandato, il sanguinoso conflitto in Siria continua, più feroce che mai, dopo aver provocato oltre 100 mila morti.
L’inferno alle porte di Damasco si chiama Jobar. Un sobborgo fantasma ridotto ad un cumulo di macerie dai combattimenti casa per casa. Americani e francesi accusano le truppe di Bashar al Assad, il dinastico presidente siriano, di aver lanciato i gas il 21 agosto scorso proprio in questa zona, uccidendo oltre 1.400 persone compresi bambini. «Quella maledetta notte comandavo i miei uomini in prima linea. Eravamo talmente vicini al nemico che sarebbe stato un suicidio usare le armi chimiche», giura un ufficiale siriano, che dice di chiamarsi Abu Habib. Barbetta ben curata e maglietta mimetica senza maniche, ci accoglie sotto il ponte che segna l’inizio del fronte di Jobar. Davanti ad una tazza di caffè forte, senza portare alcuna prova, sostiene che «sono stati i ribelli ad usare i gas per scatenare la reazione internazionale».
Nella nebbia della propaganda di questa sporca guerra, l’unica certezza è che Jobar non esiste più. Al suo posto si estende un cumulo di macerie avvolto da un silenzio irreale rotto ogni tanto dallo sparo di un cecchino. Le case sono sventrate e le pareti interne squarciate per creare passaggi sicuri da un’abitazione all’altra. I ribelli in ritirata si sono lasciati alle spalle un puzzle di trappole esplosive e di tunnel che passano sotto strade ed abitazioni. Secondo i governativi, li hanno scavati i civili presi in ostaggio ed i soldati prigionieri. Nei viottoli fra le case la gente in fuga ha abbandonato di tutto, compresi i passeggini dei bambini. I soldati ci mostrano un passaporto saudita trovato nella polvere, convinti che appartenga ad un volontario della guerra santa del fronte Al Nusra, la formazione anti-Assad ispirata dall’ideologia di Al Qaeda. La prima linea fra ribelli e governativi è segnata da una montagnetta di terra con la carcassa di un autobus dato alle fiamme, a soli 8 chilometri dal centro di Damasco. All’uscita dall’inferno ci imbattiamo in uno degli aspetti surreali della vita quotidiana nella capitale in guerra. In piazza Abbasidi, presidiata dai militari, passa strombazzando un corteo nuziale con tanto di sposa felice in abito bianco su un’elegante macchina decappottabile.
Oramai la popolazione di Damasco si è abituata ai tonfi dei mortai che aumentano durante la notte. La mattina dopo ti risvegli con una colonna di fumo nero che sale dalla periferia dove corre la linea del fronte. Fra una cannonata e l’altra la gente è presa dagli impegni quotidiani. Nel centro della capitale siriana tutto sembra normale, a parte gli innumerevoli posti di blocco che provocano un traffico caotico e le barriere di cemento attorno ad ogni possibile obiettivo degli attacchi suicidi con le macchine minate.
«La guerra nel mio quartiere è iniziata un anno fa. È stato terribile, ma poi abbiamo cominciato ad abituarci alle esplosioni», racconta Fatima, che insegnava in una scuola distrutta dagli scontri. «Ero convinta che l’America non ci avrebbe attaccato, ma solo dopo il discorso del presidente Obama di martedì notte abbiamo tirato un sospiro di sollievo», ammette l’insegnante con le braccia coperte ed il velo sul capo.
La casa Bianca ha di fatto rimandato i raid davanti alla proposta russa di controllare gli arsenali chimici siriani. Nel quartiere di Fatima, Tadamon, che per scherzo del destino significa «solidarietà», il fronte corre a 500 metri dalle case zeppe di civili. Con i miliziani filo-Assad percorriamo un viottolo dove i bambini giocano a pallone e ci ritroviamo nella piazza deserta della moschea Al Zubeyr che non è stata risparmiata dalla furia dei combattimenti. Stessa sorte toccata ad un asilo con i piccoli banchi anneriti, un dondolo abbandonato e gli adesivi di Hello Kitty sulle pareti sforacchiate dai proiettili.
Nella terra di nessuno i governativi hanno piazzato delle telecamere puntate sulle postazioni dei ribelli, che talvolta sono a soli 20 metri. Le immagini vengono rimandate su quattro Tv scassate trasformate in monitor. Se il nemico cerca di avanzare viene subito individuato. Ce ne andiamo mentre un cecchino governativo, da una feritoia nei sacchetti di sabbia, preme il grilletto.
Nonostante la guerra, qualche caffè del centro resta aperto anche di notte, come il Royal dove si ritrovano i sunniti, la maggioranza della popolazione. La loro comunità è serbatoio dei ribelli, ma Louay Al Masri spiega che si è passato il segno. L’omaccione sorseggia del tè senza zucchero sotto un ritratto di Assad, mentre gli altri avventori sono impegnati in infuocate partite di carte o dama fumando il narghilè.
«All’inizio le manifestazioni per chiedere più democrazia erano pacifiche, ma dopo hanno cominciato a sparare», spiega Al Masri. «Adesso al problema della guerra si è aggiunto quello della criminalità. Possono rapire mio fratello per chiedermi duemila dollari di riscatto».
Gli alawiti, la minoranza che sostiene a spada tratta Assad, vivono nel quartiere formicaio Mazze 86 sulle colline, sotto il maestoso palazzo presidenziale. Per timore dei raid americani in molti hanno mandato la famiglia lungo la costa, fra Latakya e Tartus, da sempre roccaforte alawita. Fadi, che lavora in un ministero, non ha dubbi: «Le bombe americane servirebbero solo ad aprire la strada alla bandiera nera di Al Qaeda. Ai terroristi che sono pronti a sgozzarci tutti ».
Pure i cristiani, storicamente presenti nel Paese, sono sotto tiro. Nella splendida chiesa dell’Ulivo della vecchia Damasco si celebrano i funerali di tre giovani. «I mostri di Al Nusra li hanno sgozzati come animali a Maalula dopo aver attaccato il villaggio il 5 settembre», racconta a denti stretti un amico delle vittime. Nella chiesa stracolma di gente una signora vestita di nero innalza un cartello scritto in rosso, come il colore del sangue: «Dio protegga la Siria».
Il nostro viaggio per raggiungere Maalula, cinquanta chilometri a nord di Damasco, ci porta in prima linea. Fra le macerie all’ingresso del villaggio di 3 mila anime, cuore del cristianesimo in terra musulmana, un manipolo di soldati governativi sembra tranquillo. Ogni tanto l’artiglieria colpisce la montagna di fronte, dove i ribelli sono asserragliati nelle grotte. La granata parte con un boato secco ed esplode con fragore sulle rocce sprigionando una nuvola di fumo bianco. All’improvviso arriva il primo colpo di fucile. Dopo un po’ fischiano altri proiettili, sempre più vicini. Un civile viene colpito ed urla dal dolore. I soldati rispondono al fuoco ed i giornalisti cercano riparo come possono per documen tare la battaglia. Il ferito è trascinato a spalla, mentre il fuoco dei ribelli si fa sempre più vicino. I proiettili fischiano implacabili sopra le nostre teste. Un soldato governativo saltella, centrato ad una gamba e rotola sotto il carro armato in cerca di riparo. Dopo una mezz’ora d’inferno riusciamo a filare verso la seconda linea. Nelle ultime ore Maalula è stata quasi completamente riconquistata dall’esercito siriano, che ai posti di blocco sfoggia spesso degli impensabili simboli americani. I soldati più giovani con a tracolla il Kalashnikov amano le scarpe da ginnastica Nike, anche se finte, ed il cappellino di New York. Lo status symbol è l’iPhone che spunta dalla giubba mimetica. A Damasco i civili, soprattutto le donne, vogliono parlare ai giornalisti, anche se non ci dicono mai il nome.
Una signora di mezza età che spinge un passeggino con la figlia piccola scoppia a piangere raccontando quando i ribelli l’hanno sbattuta fuori di casa. E poi sbotta: «Ci hanno costretto ad abbandonare la nostra abitazione in pigiama durante la notte. Siamo scappati con i bambini. È questo che volete voi europei, che ci caccino tutti?». Una giovane donna velata è altrettanto arrabbiata, ma ammette: «Siamo allo stremo. Vogliamo solo che questa guerra finisca»