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Reportage
12 marzo 2014 - Esteri - Ucraina - Panorama
Le voci dell’Ucraina divisa

VOGLIA D’EUROPA 

«Ho studiato in Italia, la mia fidanzata è francese e mi riconosco nei valori europei. Voglio che i miei figli crescano nell’Europa unita» non ha dubbi Volodimir Ighnatov, 30 anni. Tutti lo chiamano Vova e in piazza Maidan si è battuto per quella bandiera blu con le stelline d’oro, annerita e sfilacciata sulle barricate di ulica Hrushevsgoko, dove sono scoppiati gli scontri più sanguinosi fra i ribelli di Kiev e la polizia. Originario dell’Ucraina occidentale e laureato in ingegneria al Politecnico di Milano è sceso in piazza per protestare contro il deposto presidente, Viktor Yanukovich, che all’ultimo momento non ha firmato l’associazione all’Unione europea. Poi è montata la rabbia per il primo pestaggio della polizia, che il 30 novembre aveva sgomberato gli studenti che manifestavano pacificamente. «Non ho mai tirato né una pietra né una molotov, ma venivo in piazza e facevo sentire le ragioni di EuroMaidan sui social network» spiega Vova. Durante la rivolta ha raccolto soldi dai parenti all’estero per comprare siringhe e flebo per i feriti. «La mamma mi ha dato 200 grivne (meno di 20 euro) che corrisponde a un quarto del suo misero stipendio» racconta con orgoglio Volodimir. Sull’intervento di Mosca in Crimea è convinto che il presidente russo, Vladimir Putin, sia «un imperialista come Hitler». Però non vuole la guerra con la Russia e pensa che in un referendum, senza pressioni militari, le regioni dell’Ucraina possano scegliere il loro futuro. «Se qualcuno deciderà di separarsi nascerà un “nuovo” paese nella direzione europea» conclude, aggiungendo: «Gloria all’Ucraina!». 

IL RITORNO DEI GUERRIERI DELLO ZAR 

L’atamano (comandante) dei cosacchi di Sebastopoli è al telefono con un membro della confraternita che vive in Germania. Un ex ufficiale del Gru, il servizio segreto dell’esercito sovietico, che passa informazioni sugli attivisti pro Maidan in Europa. Bebnev Vjacheslav, 45 anni, in divisa blu e berretto militare con la fascia rossa dichiara: «L’obiettivo dell’Occidente è occupare l’Ucraina. Usano come paravento l’Europa, i diritti umani. Noi cosacchi non possiamo permetterlo». I leggendari guerrieri dello zar sono tornati in auge nella controrivoluzione scoppiata fra i filorussi. Si ritrovano per manifestare contro il nuovo governo filooccidentale di Kiev nel centro di Sebastopoli, sotto la statua dell’ammiraglio Pavel Stepanovi Nakhimov, che sconfisse la flotta ottomana durante la guerra di Crimea. «I nostri bisnonni hanno combattuto con l’armata Bianca del generale Pyotr Nikolayevich Wrangel nell’ultima ridotta di questa penisola contro i bolscevichi» ricorda Vjacheslav. «Pensate che abbandoneremo la Crimea alla Nato?». Certo che no, soprattutto se il capo dei guerrieri dello zar ha come referente un ufficiale della flotta russa del Mar Nero, al quale dice tutto. Nella sede dei cosacchi l’atamano è orgoglioso di mostrare l’ultima bandiera dello zar con l’icona di Cristo e la scritta «Solo se credi la Russia si salverà». 

I «fratelli» del Don sono pronti a mandare rinforzi per fermare i paesi come Germania e Polonia «che armano un esercito dell’Ucraina occidentale contro l’Est del paese». Il mantra che non si stanca di ripetere ai giornalisti è «raccontate la verità» che per Vjacheslav è semplice: «Siamo a un passo dalla guerra civile e i cosacchi sono pronti». 

DALL’AFGHANISTAN ALLA CRIMEA 

Basco azzurro da paracadutista sovietico infilato nella mimetica e radio portatile. Alexander Shuvalov, 48 anni, impartisce gli ordini alla fila di miliziani filorussi schierati con gli scudi della polizia davanti al ministero dell’Interno di Simferopoli, la capitale della Crimea. «Presidiamo l’ingresso per sventare blitz di provocatori che vogliono impossessarsi delle armi. Io so cos’è la guerra e voglio evitarla. A 18 anni sono andato a combattere in Afghanistan» racconta il veterano. Capelli tirati indietro, occhiali e sguardo di ghiaccio, è uno dei comandanti di «samooborona », la milizia filorussa, che ha aperto la strada alle truppe di Mosca in Crimea. 

«Tutto è cominciato con piazza Maidan. A Kiev ho parenti e amici. Guardavo le scene sulle barricate in televisione e dicevo: non è possibile. Mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo, alla guerra» spiega Shuvalov. Per tanti come lui, che sventolano con orgoglio la bandiera della marina sovietica con stella rossa, falce e martello, la vittoria «dei fascisti dell’Ovest» nella capitale: «È stato uno shock. Gente che ha rispolverato fra i fantasmi della storia personaggi come Stepan Bandera, leader dell’Esercito di liberazione ucraino, che combatté contro l’Armata rossa nella Seconda guerra mondiale». Il veterano lavora come meccanico ed è convinto che il futuro della Crimea «dipenderà dal referendum del 30 marzo sull’autonomia». In pratica l’anticamera della secessione che sono in molti a volere in Crimea, dopo l’arrivo al potere dei rivoluzionari a Kiev. L’Afghanzi, come vengono chiamati i reduci di Kabul, distribuisce bracciali rossi ai capi squadra della milizia. Lo slogan più in voga non lascia dubbi: «Gloria alla Russia». 

MAI PIU’ VITTIME DEI RUSSI 

«Ci mobiliteremo con tutte le nostre forze per opporci a qualsiasi tentativo di unire la Crimea alla Russia» sottolinea Bekir Mamut, 58 anni, del Majilis, l’autogoverno dei tatari. Eredi dell’Orda d’oro di Gengis Khan sono 300 mila nella penisola ucraina. «Per noi sarebbe impossibile vivere sotto Mosca dopo la grande e tragica deportazione del 1944, che ci ha disperso nell’Asia centrale dagli Urali alla Siberia» ricorda Mamut. «Io sono nato a Samarcanda e sono potuto tornare nella mia terra solo nel 1988». Stalin per punirli dell’aiuto all’invasore tedesco li voleva sterminare. 

I tatari sono musulmani e hanno appoggiato la rivolta di Maidan. Negli scontri con i filorussi a Simferopoli, la capitale della Crimea, che hanno dato il via all’intervento russo, i giovani gridavano «gloria all’Ucraina» e «Allah o akbar» (Allah è grande). Per Mamut camicia con i polsini lisi e Kalpak, il tradizionale copricapo grigiastro di Astrakhan, «il nostro è un Islam senza fanatismo. Le donne non vanno in giro con il volto coperto». I tatari temono lo spettro della guerra in Bosnia e sono pronti a difendersi. Nei loro quartieri e villaggi vengono organizzate ronde notturne. «Combattere contro i blindati sarebbe un suicidio» ammette Mamut. «Non tireremo noi la prima pietra, ma dopo mezzo secolo di deportazione non siamo tornati a casa per essere sterminati».   

(ha collaborato Alessandro Gardini)  



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