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Reportage
14 marzo 2014 - Esteri - Ucraina - Il Giornale
Gli italiani di Crimea che temono le nuove purghe
Il Tricolore è tenuto come una reliquia da Giulia Giac­chetti Boico, la presidente della comunità italiana della Crimea. «Ab­biamo paura della guerra che potrebbe scoppiare fra Ucraina e Rus­sia o con chi non accetterà l’annessione a Mosca» spie­ga la coraggio­sa rappresen­tante dei con­nazionali più dimenticati dalla storia e dalla madre­patria. «Per questo ci ap­pelliamo alla politica e al go­verno di Roma. Chiediamo solo un cenno di solidarietà e prote­zione. Un aiuto in questo mo­mento drammatico» a nome delle 500 anime di origine italia­na perdute nei venti di guerra della Crimea. «Se cominceran­no a sparare, come ai tempi del­la nostra deportazione nel 1942, i primi che verranno a cer­care saranno le minoranze indi­fese » sottolinea Giulia. Gli italia­ni di Crimea, emigrati nella pe­nisola oltre 200 anni fa, furono deportati in Siberia e decimati da Stalin, che li considerava una spina nel fianco durante la seconda guerra mondiale. «So­lo due giorni fa ho sentito le stro­fe della canzone di Simone Cri­sticchi sull’esodo istriano ci chiamavano fascisti, ma erava­mo italiani - racconta Giulia -Lo stesso è capitato a noi. Per questo abbiamo deciso che nel giorno del ricordo del nostro dramma la canteremo in riva al mare, dove iniziò la deportazio­ne via nave».
La cittadina è all’estremo lem­bo orientale della Crimea divisa dalla Russia da uno stretto. Sta­lin non c’è più, ma Loretta la nonna di Giulia, raccontava sempre dei soldati con la stella rossa ed i mitra spianati arrivati a casa per intimare che avevano un’ora per partire e potevano portare solo 8 chilogrammi di roba. «Era il 28 gennaio 1942 ­racconta Giulia - Li imbarcaro­no sulle navi, come bestie nelle stive, al buio. Sentivano i bom­bardamenti della linea del fron­te e pregavano Dio dicendo: “Salvaci se fra noi c’è un solo bimbo innocente come Ge­sù” ».Una nave naufragò ed il si­gn­or Ragno fu l’unico sopravvis­suto. Il peggio, però, doveva an­cora venire. A Novorossiysk gli italiani, che a Kerch erano 5mi­la, furono chiusi in carri bestia­me, come gli ebrei dell’Olocau­sto. «Il viaggio verso la Siberia durò due mesi ed ogni giorno qualcuno moriva - spiega Giu­lia riportando le parole dei so­pravvissuti
 - Paola Evangelista aveva tre figli maschi. Quando spiravano doveva lanciare i cor­pi fuori dal treno. L’ultimo deci­se di tenerlo in braccio, di far fin­ta con le guardie che fosse anco­ra vivo per seppellirlo decente­mente ».L’Nkvd, la polizia segreta di Stalin, come quella di Tito anni dopo, non guardava in faccia nessuno.Fra i deportati c’erano pure antifascisti riparati in Unio­ne Sovietica. «Bruno, nome di battaglia Spartaco, non voleva obbedire agli ordini. Un giorno l’hanno portato via ed è sparito - rivela Giulia- La madre, Maria, è impazzita e ha fatto la stessa fi­ne ». Si veniva giustiziati per una sciocchezza: «Due fratelli ad una sosta avevano osato pren­de­re del carbone della locomoti­va per riscaldarsi. Li hanno fuci­lati ». Natale De Martino, un so­pravvissuto, ripete sempre che «fu la deportazione più crudele. Si moriva di freddo, di fame, di stenti».
Gli italiani dalla Liguria e so­prattutto dalla Puglia, marinai o contadini, erano emigrati in Crimea ai tempi degli Zar. «An­tonio Felice Garibaldi, lo zio del­l’eroe dei due mondi costruì nel
 1860 l’unica chiesa cattolica, che i comunisti hanno usato per anni come palestra- fa nota­re Giulia - Volevamo un parro­co da Roma che non è arrivato, ma il Padre nostro lo recitiamo in italiano». Lo stesso Giuseppe Garibaldi venne due volte in Crimea. I sopravvissuti alla de­portazione di Stalin «non sono mai stati riabilitati, ma hanno cominciato a tornare in Crimea alla spicciolata dagli anni Cin­quanta ». Anna e Vittoria sono due emo­zionate ventenni, che a fine me­se partiranno per Roma «a mi­gl­iorare l’italiano all’associazio­ne Dante Alighieri ». Al piano ter­ra della modesta abitazione- uf­ficio della presidente, una stan­za con lavagna, bandiera e carta dell’Italia è adibita a classe. Su un foglio A4 c’è scritto: «Qui si parla italiano». Su un alberello in cartapesta sono appesi i co­gnomi della comunità: Simone, Binetto, Bassi, De Lerno, Fabia­ni.
Il sindaco di Kerch, Oleg Vladi­mirovich, non ha dubbi: «I con­cittadini al referendum di dome­nica
voteran­no per l’unio­ne con la Rus­sia. La diaspo­ra italiana non ha nulla da temere. Sot­to Mosca ver­rà rispettata e vogliamo stringere rap­porti con Bari da dove sono arrivati tanti vostri conna­zionali ».L’am­basc­iata italia­na a Kiev è vici­na alla comu­nità in questi giorni dram­matici, che ve­dranno cam­biare la carta dell’Europa. «La situazio­ne è esplosi­va » ed i super­stiti della tra­gedia dimenti­cata chiedono a Roma «prote­zione umani­taria o un per­messo di sog­giorno di lun­ga durata. Gli anziani vor­rebbero rive­dere l’Italia ed i più giovani, se la situazione peggiorasse, potreb­bero chiedere la cittadinanza». Nella tempesta fra Est e Ovest gli ultimi italiani di Crimea sono in balia delle onde. Lo stesso ma­re che li ha v­isti deportati per i la­vori forzati in Siberia oltre 70 an­ni fa. Igor Federov, che ha sposa­to Anna Porcelli, ci porta a vede­re il molo delle vergogna dove vennero imbarcati. «Ogni anno veniamo a gettare in mare dei garofani rossi per chi non è più tornato. Adesso, che altri tempi bui sono alle porte, non abban­donateci ». 

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