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17 luglio 2015 - Attualità - Libia - Il Giornale
Non lasciamo all’Isis i resti di 8mila italiani

Di fronte ai tagliagole bisogna pensare ai vivi minacciati dagli estremisti islamici, ma non vanno dimenticati i morti che rischiano di venir dissacrati dai seguaci delle bandiere nere. Un mese fa gli integralisti sono entrati nel cimitero italiano di Tripoli con un bulldozer, che ha sfondato il muro di cinta e profanato, per l'ennesima volta, l'ultimo luogo di riposo di quasi 8mila connazionali.
«Portiamoli via, in Italia. Non è neanche tanto difficile. I resti sono in piccole cassette che possono venir stivate nei container. Altrimenti non resterà più nulla» lancia l'appello Bruno Dalmasso, ultimo custode del cimitero di Hammangi. Per 40 anni è rimasto in Libia fra colpi di stato, bombardamenti, rivolte e ha lasciato Tripoli solo nel 2014 quando l'ambasciata italiana ha chiuso i battenti. «Dalla capitale libica mi hanno informato che un mese fa quelli con le barbe lunghe (i salafiti, estremisti islamici nda) hanno sfondato il muro entrando nel cimitero con un bulldozer. Lo hanno profanato e devastato già due volte. Prima i ladri e adesso gli islamici» racconta il veterano d'Africa che ha 81 anni e vive in provincia di Imperia.
Il regime di Gheddafi aveva fatto togliere il Cristo all'ingresso della parte monumentale progettata da Paolo Caccia Dominioni. «Era rimasto il grande crocifisso, ma una sera, dopo la caduta del colonnello, sono venuti e hanno portato via pure quello. Le altre croci sono state tutte spezzate e diverse cassette profanate con le ossa sparse per terra - spinge Dalmasso - Oramai non si tratta più di livore contro gli italiani, ma di rabbia religiosa. Sono islamici estremisti, che odiano i cristiani». Lo strazio del cimitero di Tripoli gli ha cancellato un pezzo di vita: «Cosa aspettiamo? Bisogna portare via i nostri morti. Se non lo faremo raderanno tutto al suolo».
Quaglio Maria, Patanè Bruno, Campagna Carmela sono i nomi incisi sulle lastre di marmo, che ti fanno scoprire come i primi commercianti italiani nel Nord Africa furono sepolti nel 1831. La salma di Italo Balbo è stata riportata in patria come i resti di 28mila militari che Gheddafi non voleva.
Nell'ufficio del custode e sulle mura del cimitero sono comparse scritte inneggianti alla rivoluzione contro Gheddafi e Allah o akbar, Dio è grande. In salvo sono finite solo le statue dei leoni all'ingresso portati nel cortile dell'ambasciata italiana. E la lapide ristrutturata di Balbo, abbattuto per sbaglio, o meno, dalla nostra contraerea sui cieli di Tobruk nel 1940. I nostri militari, che addestravano i libici a Tripoli prima dello scoppio della guerra fra milizie, l'hanno imbarcata sull'ultimo C130 per Roma.
«Per portare a casa i resti di oltre 7mila italiani da Tripoli bisognerebbe mandare i paracadutisti. Ma c'è stato un precedente. A Mogadiscio, una decina di anni fa, le Corti islamiche devastarono il nostro cimitero. I servizi con pochi soldi riuscirono a farsi consegnare i resti degli italiani» spiega Alfredo Mantica, che da sottosegretario agli Esteri aveva inaugurato il camposanto ristrutturato di Tripoli nel 2009.
Dopo il primo recupero, la rivolta contro il colonnello, ha provocato le devastazioni. Nel 2012 ci sono stati i secondi lavori di ristrutturazione, ma lo scempio è continuato a singhiozzo. «Banca Intesa aveva messo a disposizione 90mila euro per mettere in sicurezza il cimitero e recuperare le salme degli italiani sepolti in giro per la Libia. Purtroppo le devastazioni non si sono fermate» spiega Giancarlo Consolandi, dell'Associazione ex allievi delle scuole cristiane in Libia.
Pure lui conferma la storia del bulldozer: «Le poche notizie che abbiamo arrivano da chi seppellisce i migranti cristiani che muoiono a Tripoli» prima di imbarcarsi per l'Italia. Con l'avanzata delle bandiere nere «c'è forte preoccupazione per il cimitero, ma pure per i siti archeologici di Sabrata, Cirene ed Apollonia, che potrebbero venir distrutti dalla furia iconoclasta».
Giovanna Ortu storica presidente dell'Associazione italiani rimpatriati dalla Libia nel 1970 aveva preso contatti fra Roma e Latina per trovare un luogo di sepoltura adatto ai quasi 8mila defunti di Tripoli. «Dopo le continue devastazioni pensavamo di portarli in patria - conferma Ortu - Poi la situazione è precipitata. L'ambasciata è stata evacuata ed in questo momento penso ai vivi, agli stessi libici in balia del caos».
[continua]

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