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Scenari Italia
19 agosto 2015 - Esteri - Italia - Panorama
Le navi della Ue servono solo come traghetti
"Dicono cose insulse pur di raccattare voti»: così monsignor Nunzio Galatino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana ai politici «che parlano pur di prendere voti». La risposta di Matteo Salvini? Feroce: «Felice del sostegno di uomini e donne di Chiesa senza le fette di salame sugli occhi e le tasche piene». Insomma, la battaglia lessicale sui migranti tra il Vaticano e la Lega ha raggiunto toni assai forti. Tutto questo mentre le navi dell’Unione europea dislocate nel Mediterraneo la loro battaglia non la stanno nemmeno combattendo.
Sono 72 le unità impiegate, 49 italiane, comprese motovedette della Guardia costiera e della Finanza. Solo quattro navi della missione Eu Navfor Med, con il cappello dell’Ue, fanno parte dell’operazione che dovrebbe debellare la rete dei trafficanti di uomini. Pure queste navi, però, come l’ammiraglia Cavour e le tedesche Werra e Holstein, soccorrono i migranti in mare invece di puntare ai trafficanti di esseri umani. Dunque, non fanno il loro dovere, almeno non quello previsto alla vigilia del loro impiego. «Queste flotte sono il simbolo dell’insensatezza con cui la comunità internazionale sta affrontando il problema. Ovvero con provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con la lotta al traffico di esseri umani» dichiara a Panorama l’ex generale Leonardo Tricarico. «Chi ha dispiegato le navi sa bene che non possono fare altro che soccorrere i migranti. È una forma di ipocrisia collettiva da mettere in evidenza, perché non risolve il problema, casomai lo aggrava» spiega l’ex capo di Stato maggiore dell’aeronautica, che adesso si occupa della fondazione Icsa sulla sicurezza.
Il 27 luglio è partita senza clamori, dopo gli annunci iniziali, la missione europea che dovrebbe dare la caccia ai trafficanti; una missione comandata traghettidall’Italia con il contrammiraglio Enrico Credendino. Quattro navi e cinque velivoli rispetto alle sette unità navali previste, compresi due sottomarini e una dozzina di assetti aerei. Il problema è che la «fase uno» di Eu Navfor Med è dedicata solo al pattugliamento e alla raccolta di informazioni. «Il focus sulla lotta ai trafficanti» sbandierato da Federica Mogherini, rappresentante della politica estera Ue, partirà, forse, fra qualche mese, ma ci sarà bisogno di un incerto via libera dell’Onu. Nel frattempo, per la missione sono previsti costi per 38 milioni di euro. E il risultato è sempre lo stesso: a causa dell’obbligo del soccorso in mare, per le altre missioni navali nel Mediterraneo la musica non cambia. Alcuni esempi: l’ammiraglia Cavour fa decollare i suoi elicotteri per soccorrere i migranti; la nave Werra ha sbarcato a Catania il 22 luglio 211 profughi; stessa sorte è toccata all’altra unità tedesca, la fregata lanciamissili Schleswig Holstein. Il 7 agosto, nave Aviere, che fa parte di Mare Sicuro, l’operazione antiterrorismo e per la sicurezza nel Mediterraneo, ha salvato 112 migranti. Stesso discorso per le navi Mimbelli e Sirio. Molti in Marina dicono che «è come andare al supermercato con la Ferrari». Rispetto «a quello che stiamo spendendo i risultati sono limitati per motivi oggettivi» spiega l’ammiraglio Rinaldo Veri, che dal 22 giugno non indossa più la divisa, «gli immigrati si devono fermare prima che partano. Per il soccorso basterebbe la Guardia costiera. Per debellare i trafficanti, il problema va risolto a terra».
Secondo i dati della Guardia costiera, da gennaio al 7 agosto, sono arrivati in Italia, via mare, 100.372 persone. La parte del leone nel raccattare i migranti di fronte alla Libia spetta a Triton, missione targata Frontex, l’agenzia europea delle frontiere. Dal 27 marzo costa 2 milioni e 900 mila euro al mese. Inoltre, sulla trentina di unità navali coinvolte 20 sono italiane. Peccato che lo stesso procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, lanci un chiaro allarme. Nell’ordinanza di custodia cautelare firmata da Scalia su una rete di trafficanti, si legge che gli affari dei mercanti di vita umane prosperano anche grazie ai dispositivi di soccorso Mare Nostrum prima e Triton poi. Chi avrà ragione, la Cei o Matteo Salvini? (Fausto Biloslavo)

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12 maggio 2020 | Tg5 | reportage
L'infermiera sopravvissuta al virus
L’infermiera ha contratto il virus da un paziente anziano nell’ospedale Maggiore di Trieste A casa non riusciva più a respirare ed è stata trasportata d’urgenza in ospedale Il figlio, soldato della Nato, era rimasto bloccato sul fronte baltico dall’emergenza virus con l’appartamento pieno di medicine l’incubo del contagio non l’abbandonerà mai Due mesi dopo il contagio Svetlana è negativa al virus ma ancora debole e chiusa in casa

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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”. Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus. Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”. Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso. Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”. Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”. L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.

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16 marzo 2012 | Terra! | reportage
Feriti d'Italia
Fausto Biloslavo racconta le storie di alcuni soldati italiani feriti nel corso delle guerre in Afghanistan e Iraq. Realizzato per il programma "Terra" (Canale 5).

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03 gennaio 2011 | Radio Capodistria - Storie di bipedi | intervento
Italia
Gli occhi della guerra
Le orbite rossastre di un bambino soldato, lo sguardo terrorizzato di un prigioniero che attende il plotone di esecuzione, l’ultimo rigagnolo di vita nelle pupille di un ferito sono gli occhi della guerra incrociati in tanti reportage di prima linea. Dopo l’esposizione in una dozzina di città la mostra fotografica “Gli occhi della guerra” è stata inaugurata a Trieste. Una collezione di immagini forti scattate in 25 anni di reportage da Fausto Biloslavo, Gian Micalessin e Almerigo Grilz, ucciso il 19 maggio 1987 in Mozambico, mentre filmava uno scontro a fuoco. La mostra, che rimarrà aperta al pubblico fino al 20 gennaio, è organizzata dall’associazione Hobbit e finanziata dalla regione Friuli-Venezia Giulia. L’esposizione è dedicata a Grilz e a tutti i giornalisti caduti in prima linea. Il prossimo marzo verrà ospitata a Bruxelles presso il parlamento europeo.Della storia dell'Albatross press agency,della mostra e del libro fotografico Gli occhi della guerra ne parlo a Radio Capodistria con Andro Merkù.

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06 settembre 2018 | Radio immaginaria | intervento
Italia
Teen Parade
Gli adolescenti mi intervistano sulla passione per i reportage di guerra

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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25 maggio 2010 | Spazio Radio - Radio 1 | intervento
Italia
L'Islam nelle carceri italiane
In Italia su oltre 23mila detenuti stranieri, 9840 risultano musulmani, secondo i dati ufficiali. Almeno seimila, però, non si sono dichiarati. Il rapporto di 364 pagine, “La radicalizzazione jihadista nelle istituzioni penitenziarie europee”, realizzato dall’esperto di Islam nella carceri, Sergio Bianchi, ne indica 13mila.
In Italia ci sono circa 80 islamici dietro le sbarre per reati connessi al terrorismo. Dal 2009 li hanno concentrati in quattro istituti di pena: ad Asti, Macomer, Benevento e Rossano. Nel carcere di Opera, invece, sono arrivati Adel Ben Mabrouk, Nasri Riadh e Moez Abdel Qader Fezzani, ex prigionieri di Guantanamo. Chi li controlla ogni giorno racconta che parlano in italiano. La guerra santa in Afghanistan l’hanno abbracciata dopo aver vissuto come extracomunicatori nel nostro paese. Non si possono incontrare fra loro e vivono in celle singole. Pregano regolarmente con molta devozione e hanno mantenuto i barboni islamici.

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24 maggio 2010 | Radio Padania Libera | intervento
Italia
Proselitismo islamico dietro le sbarre
“Penso che sia giusto se alcuni musulmani combattono la guerra santa contro gli americani in paesi che non sono la loro terra”. Dopo un lungo girarci attorno Kamel Adid sorprende un po’ tutti, quando sputa il rospo. La domanda riguardava i mujaheddin, i musulmani pronti a morire per Allah, contro l’invasore infedele. Tre soldati della guerra santa, arrivati un paio di mesi fa da Guantanamo, sono rinchiusi poco più in là, nel reparto di massima sicurezza del carcere di Opera, alle porte di Milano.
Adid è un giovane marocchino di 31 anni con barbetta islamica d’ordinanza e tunica color noce. Nel carcere modello di Opera fa l’imam dei 44 musulmani detenuti, che frequentano una grande sala adibita a moschea. Un predicatore fai da te, che di solito parla un linguaggio moderato e ti guarda con occhioni apparentemente timidi.
Deve scontare ancora due mesi di pena per un reato legato alla droga e da pochi giorni è stato trasferito in un altro istituto. “Quelli che si fanno saltare in aria subiscono il lavaggio del cervello – si affretta a spiegare l’autonominato imam – Noi abbiamo riscoperto la fede in carcere. Pregare ci da conforto, ci aiuta ad avere speranza”.

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