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Reportage
01 settembre 2016 - Primo piano - Libia - Corriere del Ticino
Le insidie occhio ai fili tesi o rischi di saltare in aria

SIRTE - Le tre gigantesche bandiere nere sono uno dei pochi simboli dello Stato islamico rimasti intatti nel quartiere centrale di Sirte liberato da pochi giorni. I seguaci del Califfo le hanno disegnate come murales lungo una delle strade principali della loro ex “capitale” sulla costa libica. 

Tutto il resto è distruzione e morte. La centrale della polizia segreta ai tempi del colonello Gheddafi nel quartiere di Abu Faraa continuava a venire utilizzata dai miliziani jihadisti come luogo di detenzione e tortura. Salem Ismir, giovane comandante della katiba (reparto) “Martiri di Sirte”, che ha scalzato le bandiere nere dal centro città ci scorta fra le macerie dei combattimenti. Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. I bombaroli jihadisti in ritirata si lasciano alle spalle micidiali trappole esplosive. Fili invisibili di lenza da pesca sono collegati da una parte all’esplosivo ben nascosto e dall’altra a porte, cassetti, finestre chiusi o lungo il pavimento. Se non lo vedi e inciampi sul filo sei morto.

L’attacco dei combattenti di Misurata ha incenerito gran parte della centrale di interrogatori delle bandiere nere, ma la prigione sotterranea è rimasta intatta. Alla fine delle scale si apre un corridoio spettrale e semi buio, che sembra l’ingresso di un girone infernale. Le porte nere, in ferro, di una decina di celle sono spalancate. Non c’è traccia di prigionieri, ma l’intelligence libica sta disperatamente cercando una ventina di combattenti catturati dai miliziani del Califfo. Se i prigionieri sono sopravissuti in questo antro infernale vivevano in condizioni pietose. Sul pavimento delle celle ci sono dei pagliericci per dormire ed una ciotola che serviva per mangiare e probabilmente pure per lavarsi. Nelle celle anguste erano rinchiusi anche due o tre detenuti. L’aria ed un po’ di luce filtrano dall’unica finestrella con le inferriate a livello del terreno. 

Le pareti bianche delle celle parlano da sole attraverso disegni e scritte incisi nell’intonaco, che raccontano l’agonia dei prigionieri dello Stato islamico. Un detenuto senza nome invocava la mamma. Un libico, che si professava “buon musulmano” scriveva  “perchè mi hanno incarcerato?”. Tutto in arabo, a parte una parola anomala, “German” in caratteri anglosassoni.

All’esterno non c’è anima viva, a parte i combattenti anti Isis. La parte liberata della città è spettrale con case e negozi sventrati ed abbandonati. Neppure le moschee sono state risparmiate dalla furia dello scontro. Un minareto sta in piedi per miracolo rosicchiato da una cannonata.

Nel quartiere 1 conquistato completamente nelle ultime ore sono saltate fuori le riserve delle bandiere nere. Fuoristrada ed altri mezzi pronti per venire trasformati in macchine minate. Oltre a razioni alimentari come barattoli di pomodoro, sacchi di farina della saudita Almarai company e bottigliette d\'acqua.

El Hesba, un altro centro di comando dello Stato islamico nel centro di Sirte, è forato come un groviera dalla raffiche di mitragliatrice pesante. Sul pavimento sono sparpagliati alla rinfusa documenti di tutti i generi in arabo. Da una stanza trasborda una massa di burqa neri d’ordinanza, ben confezionati, che venivano distribuiti alle donne per coprirsi dalla testa ai piedi. Su una lavagna è rimasto il disegno di un corpo femminile con le precise indicazioni delle bandiere nere sulle parti che vanno assolutamente non fatte vedere. A malapena restano liberi solo gli occhi.

I combattenti di Misurata hanno trovato pacchi di banconote locali e dell’oro, proventi delle soffocanti tasse talebane imposte dallo Stato islamico.. “In parte era falso. Il vero bottino lo tengono ancora nascosto da qualche parte” spiega il generale Mohamed al Gasri, portavoce delle truppe anti Isis. Su una parete del centro di comando c’è ancora uno slogan, che dimostra come Sirte fosse un trampolino di lancio verso l’Europa, a cominciare dall’Italia. “Lo Stato islamico è qui e si espanderà - hanno scritto i volontari della guerra santa - Con l’aiuto di Allah, nonostante gli infedeli, conquisteremo Roma”.

Non è l’unico proclama del genere. Sul lungomare un edificio giallo e basso con un’antenna all’esterno è sfondato da una cannonata. Accanto al buco nero sul muro i volontari della guerra santa hanno scritto: “Questa è la strada per Roma”. Sotto c’è una grande freccia, che indica il mare Mediterraneo, cento metri più in là. A fianco è stata disegnata un’enorme scimitarra per rendere chiaro il concetto. La cannonata ha spazzato il resto dello slogan: “Lo Stato islamico è qui per rimanere ed espandersi con la volontà di Allah”.

Ai tempi di Gheddafi l’edificio doveva essere usato come posto di guardia di uno dei lussuosi resort sulla spiaggia utilizzati dalla famiglia del colonnello e dagli ospiti stranieri. Gli stessi bungalow sono stati occupati dai dignitari dello Stato islamico.  

All’interno del posto di guardia abbiamo trovato i documenti, che provano la dimensione internazionale del Califfato. Monete tunisine importate dal grosso dei combattenti stranieri a Sirte nei ranghi delle bandiere nere. Una ricevuta, per un visto o un permesso del ministero degli Esteri sudanese, evidentemente rilasciata ad un volontario della guerra santa giunto da Khartoum. Uno dei documenti più interessanti è un pieghevole con le tabelle di tiro dei colpi di mortaio da 60 millimetri. Le istruzioni per utilizzare le granate non sono scritte in arabo, ma in inglese, francese e spagnolo. La tabella poteva venir letta solo da chi conosce queste lingue europee.


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02 marzo 2011 | Panorama | intervento
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