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Fatti
24 agosto 2016 - Esteri - Libia - Panorama
La nostra strana guerra in Libia

Ma che guerra stiamo combattendo in Libia? Le operazioni sono segrete e si svolgono sotto il controllo diretto della presidenza del Consiglio. Il premier Matteo Renzi ha inviato da mesi nel calderone nord africano corpi speciali e agenti dell’Aise, il servizio d’informazione per l’estero. A Panorama risulta che in Libia operino tra 50 e 100 uomini. Ma Renzi può legalmente mobilitare anche droni, elicotteri e altri mezzi della Difesa: può farlo in segreto, grazie al voto del Parlamento che lo scorso dicembre gli ha concesso un potere senza precedenti in operazioni estere per la sicurezza nazionale. Ecco, nei dettagli, le caratteristiche della strana missione italiana in Libia.  

I SUPERPOTERI DEL PREMIER

L’11 dicembre 2015 è stata approvata la legge 198 per le missioni all’estero, sulla base di un decreto di due mesi prima. L’articolo 7-bis è il grimaldello che ha permesso a Palazzo Chigi di mandare in gran segreto le truppe scelte italiane in Libia. «Il presidente del Consiglio dei ministri» recita la norma «emana disposizioni per l’adozione di misure d’intelligence di contrasto, in situazioni di crisi o di emergenza all’estero». Un mandato molto ampio, che deve essere giustificato da «aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani all’estero». 

L’intervento sul terreno è previsto «con la cooperazione di forze speciali della Difesa con i conseguenti assetti di supporto della Difesa stessa». In pratica, se fosse necessario, il presidente del Consiglio può ordinare l’utilizzo di droni, elicotteri, navi, aerei, elicotteri per appoggiare l’operazione o per recuperare i nostri uomini in Libia o in altri Paesi, e per evacuare civili sotto minaccia. Questi blitz, grazie alla nuova legge, non hanno bisogno dell’approvazione preventiva del Parlamento. L’unico obbligo previsto è quello di «informare il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della repubblica. Per la presenza dei corpi speciali in Libia è stato fatto, ma in maniera molto stringata e con l’obbligo del segreto. 

LA «NON PUNIBILITÀ» PER I CORPI SPECIALI

La stessa legge 198, al comma 3 dell’articolo 7 bis, sotto il titolo Disposizione in materia di intelligence, prevede che «al personale delle Forze armate (…) si applicano le disposizioni (…) ove ne ricorrano i presupposti, dell’articolo 17, comma 7, della legge 3 agosto 2007, n. 124». La norma prevede che nelle missioni come quella libica i corpi speciali operino sotto il cappello dell’intelligence. Le truppe scelte «sono equiparate (…) al personale dei servizi di informazione per la sicurezza». 

Di conseguenza, secondo la legge di riforma del 2007, i militari italiani non possono venir perseguiti per l’attività svolta. «Non è punibile il personale dei servizi di informazione per la sicurezza» stabilisce il comma 1 dell’art 17 «che ponga in essere condotte previste dalla legge come reato, legittimamente autorizzate di volta in volta». L’autorizzazione, anche in questo caso, spetta al presidente del Consiglio. Non si tratta di una licenza di uccidere, alla James Bond, ma a differenza dei due marò in missione anti-pirateria accusati della morte di due pescatori indiani o degli altri militari in missione all’estero, i corpi speciali in Libia sono molto più garantiti giuridicamente. Le regole di ingaggio rimangono le stesse di tutte le nostre missioni, ma le truppe scelte hanno mano libera se bisogna aprire il fuoco.

CHE COSA FACCIAMO IN LIBIA

«Il nostro ruolo è di supporto all’agenzia (cioè l’Aise, ndr). Poi ci sono le operazioni e i contatti sul territorio» spiega a Panorama una fonte militare che segue la missione dall’Italia. Fino a luglio avevamo in Libia appena 15 uomini, divisi in due squadre: una a Misurata, vicino al fronte di Sirte dove le bandiere nere stanno per capitolare; e l’altra a Tripoli. Sono veterani dell’Afghanistan, paracadutisti del 9° Reggimento Col Moschin, incursori dell’Aeronautica inviati in Libia per appoggiare l’intelligence nella raccolta d’informazioni e nella creazione di una rete di contatti e di alleati. In tutto, con gli agenti dell’Aise (tra di loro ci sono ex militari e carabinieri), la nostra presenza in Libia dovrebbe essere fra i 50 e 100 uomini. Il loro ruolo finora è stato partecipare alla «guerra segreta» contro le bandiere nere, ma in maniera meno aggressiva rispetto a inglesi, americani e francesi. Per garantirsi alleati o informatori in Libia, oltre a usare somme di denaro, i nostri uomini forniscono equipaggiamento militare di qualità. Hanno a disposizione dai visori notturni ai giubbotti antiproiettile fino a materiale e tecnologia per contrastare trappole esplosive o attacchi suicidi: sono strumenti molto richiesti dalle «katibe», le unità di miliziani anti-Isis che combattono a Sirte. I nostri forniscono poi kit medici di pronto soccorso, telefoni satellitari, Gps e sistemi di comunicazione militare avanzati.

ADDESTRAMENTO E MEDICI

I corpi speciali italiani in Libia non hanno il ruolo di veri e propri addestratori: sono piuttosto «consiglieri». Sono pronti i piani di addestramento della Guardia presidenziale del nuovo governo di Tripoli voluto dall’Onu, quello guidato da Fayez al-Sarraj, e per gli sminatori: prevedono l’invio di altro personale, carabinieri e artificieri specializzati nelle missioni all’estero, o una formazione condotta in Italia. 

I libici hanno chiesto da tempo una nave ospedale da ormeggiare a Misurata, o una struttura mobile a ridosso della prima linea, ma non sono mai arrivate. Fino a oggi abbiamo solo evacuato una cinquantina di feriti gravi con i C130 dell’Aeronautica, atterrati a Misurata. L’ultima volta il 26 giugno per trasportare 11 feriti della battaglia di Sirte all’ospedale militare del Celio, a Roma. 

Il presidente del Consiglio avrebbe inoltre deciso di inviare medici e infermieri militari, che su proposta libica potrebbero operare in una nuova ala del moderno ospedale di Misurata, che è stato rinnovato dopo la rivolta del 2011 contro Muammar Gheddafi. 

 

LE BOMBE DA SOLE NON BASTANO

La prima, vera sconfitta dell’Isis a Sirte non risolve i problemi 

del governo Serraj

Dopo la caduta di Sirte cosa accadrà in Libia? L’ex roccaforte del Califfato è stata un «bubbone» da estirpare, ma molti seguaci delle bandiere nere sono fuggiti. Lo Stato islamico ha ancora una forte presenza nel sud della Libia, lungo la rotta delle armi e dei migranti. E molte cellule disseminate nel Paese sono pronte a colpire con attacchi terroristici.

Per questo motivo la liberazione di Sirte deve essere il primo passo per risollevare la Libia da un caos in salsa somala. E per farlo c’è bisogno di un robusto impegno della comunità internazionale, non solo militare. Per motivi di sicurezza, la missione Onu che ha arruolato il generale degli alpini, Paolo Serra, è ancora a Tunisi e fa la spola con Tripoli. La sua creatura, il governo del premier Fayez Serraj, fortemente appoggiato dall’Italia, non riesce 

a unificare il paese. E il gradimento iniziale della popolazione si sta sgretolando per colpa di 12 ore di elettricità al giorno rispetto alle 20 precedenti, oltre che per il crollo del dinaro. Lo stesso Parlamento di Tobruk, appoggiato dall’Occidente, non ha ancora votato la fiducia al governo Serraj. Dietro a questo boicottaggio c’è l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Le sue truppe hanno cominciato a marciare sui bacini del petrolio di Sirte. Pozzi e terminal sono in mano al signore dell’olio nero, Ibrahim Jadran, che con la sua milizia ha appena chiuso un accordo (benedetto dall’inviato dell’Onu) per riportare il controllo delle risorse sotto il governo di Tripoli. Per ora solo il pronunciamento internazionale ha fermato Haftar. Di fatto la Cirenaica, a Est, è separata dalla Tripolitania, a Ovest. Misurata, che sta nel mezzo, esce vittoriosa dall’assedio di Sirte, ma la città è già pronta per il prossimo scontro con le truppe di Haftar, che avanzano da Est. Il rischio è che, vinta la battaglia di Sirte, governo Serraj e comunità internazionale perdano la guerra per far uscire la Libia dal caos. (F. B.)


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