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Fatti
26 gennaio 2017 - Esteri - Italia - Panorama |
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| Il manuale del perfetto rifugiato |
| “Va molto di moda, soprattutto tra i pachistani, spacciarsi per omosessuali nella richiesta di asilo politico. Poi ci sono i finti cristiani perseguitati, gli afghani minacciati dai talebani perché collaboravano con le truppe italiane, anche se non hanno mai avuto a che fare con i nostri soldati, e gli africani che s’inventano qualsiasi cosa». È disarmante il quadro dei richiedenti asilo nel nostro Paese tracciato da un prefetto in prima linea sul fronte dell’immigrazione, che parla con Panorama a patto che non venga scritto il suo nome. Grazie al tam tam fra i migranti, ai suggerimenti interessati dell’associazionismo che li ospita, a veri e propri manuali del perfetto rifugiato che si scaricano in rete, l’Italia è invasa da una valanga di domande di finti profughi. Nel 2016 sono stati più di 126 mila le richieste di asilo presentate, quasi 43 mila in più rispetto all’anno precedente e il doppio del 2014, mentre quelle esaminate sono state 90.473, secondo i dati del ministero dell’Interno. Molte vengono respinte (61,3 per cento), ma tutti hanno diritto al ricorso, che in primo grado viene presentato nella quasi totalità dei casi grazie a una rete di sostegno legale compiacente. Il giro d’affari stimato per gli avvocati è di 500-600 milioni di euro, dato che ogni ricorso vale una parcella tra i 650 e i 1.200 euro. Soldi pagati dallo Stato, che garantisce il patrocinio gratuito. E i magistrati, di manica larga, concedono nel 60-65 per cento dei casi una delle tre forme di protezione garantite in Italia. Panorama ha ricostruito il manuale del finto profugo interpellando gli addetti ai lavori. Il modulo C 3, a disposizione nelle questure, può essere compilato da qualsiasi extracomunitario per chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato secondo la Convenzione di Ginevra del 1951. I «motivi per i quali ha lasciato il suo Paese d’origine e/o motivi per i quali non intende o non può farvi ritorno» del punto 16 sono la chiave d’ingresso per restare in Italia a carico dello Stato, che sborsa 35 euro al giorno per ogni richiedente asilo. «Ne ho viste di tutti i colori. Potrebbero anche scrivere di essere Pinocchio e di venir minacciati da Geppetto, che automaticamente dobbiamo farli restare e mandare la pratica alla Commissione territoriale» spiega un graduato di polizia che ha passato migliaia di moduli C 3. «Alcuni omaccioni con il barbone si spacciano per minorenni mostrando improbabili documenti. Non parlano nessuna lingua internazionale, ma sanno pronunciare bene in italiano solo due paroline magiche: asilo politico» racconta un vice questore. Solitamente si va a ondate di versioni standard, tutte uguali, per singola nazionalità. «Sono gay e temo per la mia vita» è un classico dei pachistani, ma dopo che le Commissioni hanno cominciato a rigettare le domande, la bufala dell’omosessualità viene usata di meno. «Faccio parte del partito d’opposizione pachistano fondato da Zulfiqar Ali Bhutto e per questo sono scappato» è un’altra giustificazione. Grazie a un questionario distribuito in Friuli-Venezia Giulia si è scoperto che gran parte dei richiedenti asilo non sapeva neppure come si chiamasse il partito d’opposizione e chi fosse Benazir Bhutto, l’erede della dinastia, uccisa in un attentato dei talebani nel 2007. Le richieste dei pachistani nel 2016 sono state ben 13.848, nonostante il loro Paese non sia in guerra. Per questo molti pachistani di etnia pashtun si spacciano per afghani nella speranza di ottenere lo status di rifugiato. I finti profughi che arrivano dal Bangladesh si inventano le «minacce di potenti famiglie locali» per i più svariati motivi oppure che «insidiano le nostre figlie». Ma è l’Africa il più grande serbatoio d’immigrati. I nigeriani spiccano con 25.129 domande, ma non tutti scappano dalla limitata zona del nord del Paese dove ancora imperversa Boko Haram, costola del Califfato. Da Gambia, Senegal, Guinea, Costa d’Avorio arrivano soprattutto migranti per motivi economici, che presentano «domande strumentali». «Poche settimane fa un senegalese portato in questura da un avvocato voleva lo status di rifugiato perché nel suo Paese gli chiedono il pizzo per lavorare» rivela una fonte di Panorama. Lo scorso anno i richiedenti asilo afghani sono stati appena 2.879, «quasi tutti minacciati dai talebani perché hanno collaborato con gli italiani o in quanto dipendenti pubblici» spiega il prefetto in prima linea. «In alcuni casi abbiamo scoperto che sono analfabeti e difficilmente potevano accedere all’impiego governativo che millantavano o con le nostre truppe». Alla Commissione di Gorizia presentano domanda soprattutto pachistani e afghani. «È una barzelletta» sbotta il sindaco del capoluogo isontino Ettore Romoli. «Gli afghani continuano ad arrivare in aereo da altri Paesi europei, dove non hanno ottenuto il riconoscimento o dall’Austria in treno. Guai a generalizzare, naturalmente, ma molti di loro non sono affatto morti di fame in fuga dalla guerra, a cominciare dai pachistani». Uno degli aspetti più assurdi è che i richiedenti asilo provenienti dalla Siria, che scappano dal conflitto più spietato, sono appena 1.581 in tutto il 2016. Le beffe clamorose non sono mancate come l’eritreo Asghedom Ghermay, capo in Italia della rete dei trafficanti di uomini dalla Libia arrestato nel 2015, che aveva ottenuto il permesso di soggiorno come rifugiato raccontando una storiella di persecuzione. Ad Abdul Rahman Nauroz, condannato a sei anni, è stata garantita la «protezione sussidiaria» grazie a fantomatiche minacce di morte in Iraq da parte di Ansar al Islam, la stessa organizzazione del terrore di cui faceva parte. Altri terroristi islamici finiti dietro le sbarre in Italia, invece, si sono addirittura spacciati per «cristiani perseguitati dai talebani» ottenendo così lo status di rifugiati. Se la domanda viene respinta e il ricorso va male, resta sempre l’appello. Oppure l’aspirante rifugiato torna in questura pronunciando una frase magica pur non conoscendo bene l’italiano: «Voglio reiterare la domanda di protezione internazionale». E presenta nuove motivazioni fornite anche via mail o Facebook da parenti e amici rimasti nel Paese d’origine. A questo punto, come nel gioco dell’oca, si torna alla casella iniziale per ricominciare la trafila davanti alla Commissione. «Adesso i tempi si stanno riducendo, ma si arriva tranquillamente ai due anni con casi fino a tre anni a spese dello Stato» spiega un addetto ai lavori. Tutti «diritti» che sono elencati nel manuale del perfetto migrante di 53 pagine, disponibile in diverse lingue e intitolato Benvenuti in Italia, che si può scaricare da Internet. Una guida realizzata dagli attivisti che «lottano contro i confini, le discriminazioni e le politiche militari e repressive dell’Unione europea». Il manuale mette in guardia gli aspiranti rifugiati dal fatto che «le forze dell’ordine italiane (...) potrebbero farti delle domande trappola per classificarti come “migrante economico” e non “richiedente asilo”». Una delle schede di approfondimento spiega «come preparare la propria storia e il colloquio/audizione presso la Commissione territoriale» per ottenere lo status di rifugiato. E viene fornita una lunga lista di associazioni, che garantiscono assistenza legale ai richiedenti asilo veri o presunti.
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11 novembre 2008 | Centenario della Federazione della stampa | reportage
A Trieste una targa per Almerigo Grilz e tutti i caduti sul fronte dell'informazione
Ci sono voluti 21 anni, epiche battaglie a colpi di articoli, proteste, un libro fotografico ed una mostra, ma alla fine anche la "casta" dei giornalisti triestini ricorda Almerigo Grilz. L'11 novembre, nella sala del Consiglio comunale del capoluogo giuliano, ha preso la parola il presidente dell'Ordine dei giornalisti del Friuli-Venezia Giulia, Pietro Villotta. Con un appassionato discorso ha spiegato la scelta di affiggere all'ingresso del palazzo della stampa a Trieste una grande targa in cristallo con i nomi di tutti i giornalisti italiani caduti in guerra, per mano della mafia o del terrorismo dal 1945 a oggi. In rigoroso ordine alfabetico c'era anche quello di Almerigo Grilz, che per anni è stato volutamente dimenticato dai giornalisti triestini, che ricordavano solo i colleghi del capoluogo giuliano uccisi a Mostar e a Mogadiscio. La targa è stata scoperta in occasione della celebrazione del centenario della Federazione nazionale della stampa italiana. Il sindacato unico ha aderito all'iniziativa senza dimostrare grande entusiasmo e non menzionando mai, negli interventi ufficiali, il nome di Grilz, ma va bene lo stesso. Vale la pena dire: "Meglio tardi che mai". E da adesso speriamo veramente di aver voltato pagina sul "buco nero" che ha avvolto per anni Almerigo Grilz, l'inviato ignoto.
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24 novembre 2015 | Rai 1 Storie vere | reportage
Terrorismo in Europa
Dopo gli attacchi di Parigi cosa dobbiamo fare per estirpare la minaccia in Siria, Iraq e a casa nostra
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05 aprile 2020 | Tg5 | reportage
Virus, il fronte che resiste in Friuli-Venezia Giulia
Fausto Biloslavo
TRIESTE - “Anche noi abbiamo paura. E’ un momento difficile per tutti, ma dobbiamo fare il nostro dovere con la maggiore dedizione possibile” spiega Demis Pizzolitto, veterano delle ambulanze del 118 nel capoluogo giuliano lanciate nella “guerra” contro il virus maledetto. La battaglia quotidiana inizia con la vestizione: tuta bianca, doppi guanti, visiera e mascherina per difendersi dal contagio. Il veterano è in coppia con Fabio Tripodi, una “recluta” arrivata da poco, ma subito spedita al fronte. Le due tute bianche si lanciano nella mischia armati di barella per i pazienti Covid. “Mi è rimasta impressa una signora anziana, positiva al virus, che abbiamo trasportato di notte - racconta l’infermiere Pizzolitto - In ambulanza mi ha raccontato del marito invalido rimasto a casa. E soffriva all’idea di averlo lasciato solo con la paura che nessuno si sarebbe occupato di lui”.
Bardati come due marziani spariscono nell’ospedale Maggiore di Trieste, dove sono ricoverati un centinaio di positivi, per trasferire un infetto che ha bisogno di maggiori cure. Quando tornano caricano dietro la barella e si chiudono dentro l’ambulanza con il paziente semi incosciente. Si vede solo il volto scavato che spunta dalle lenzuola bianche. Poi via a sirene spiegate verso l’ospedale di Cattinara, dove la terapia intensiva è l’ultima trincea per fermare il virus.
Il Friuli-Venezia Giulia è il fronte del Nord Est che resiste al virus grazie a restrizioni draconiane, anche se negli ultimi giorni la gente comincia ad uscire troppo di casa. Un decimo della popolazione rispetto alla Lombardia ha aiutato a evitare l’inferno di Bergamo e Brescia. Il 4 aprile i contagiati erano 1986, i decessi 145, le guarigioni 220 e 1103 persone si trovano in isolamento a casa. Anche in Friuli-Venezia Giulia, come in gran parte d’Italia, le protezioni individuali per chi combatte il virus non bastano mai. “Siamo messi molto male. Le stiamo centellinando. Più che con le mascherine abbiamo avuto grandi difficoltà con visiere, occhiali e tute” ammette Antonio Poggiana, direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste e Gorizia. Negli ultimi giorni sono arrivate nuove forniture, ma l’emergenza riguarda anche le residenze per anziani, flagellate dal virus. “Sono “bombe” virali innescate - spiega Alberto Peratoner responsabile del 118 - Muoiono molti più anziani di quelli certificati, anche 4-5 al giorno, ma non vengono fatti i tamponi”.
Nell’ospedale di Cattinara “la terapia intensiva è la prima linea di risposta contro il virus, il nemico invisibile che stiamo combattendo ogni giorno” spiega Umberto Lucangelo, direttore del dipartimento di emergenza. Borse sotto gli occhi vive in ospedale e da separato in casa con la moglie per evitare qualsiasi rischio. Nella trincea sanitaria l’emergenza si tocca con mano. Barbara si prepara con la tuta anti contagio che la copre dalla testa ai piedi. Un’altra infermiera chiude tutti i possibili spiragli delle cerniere con larghe strisce di cerotto, come nei film. Simile ad un “palombaro” le scrivono sulla schiena il nome e l’orario di ingresso con un pennarello nero. Poi Barbara procede in un’anticamera con una porta a vetri. E quando è completamente isolata allarga le braccia e si apre l’ingresso del campo di battaglia. Ventuno pazienti intubati lottano contro la morte grazie agli angeli in tuta bianca che non li mollano un secondo, giorno e notte. L’anziano con la chioma argento sembra solo addormentato se non fosse per l’infinità di cannule infilate nel corpo, sensori e macchinari che pulsano attorno. Una signora è coperta da un telo blu e come tutti i pazienti critici ripresa dalle telecamere a circuito chiuso.
Mara, occhioni neri, visiera e mascherina spunta da dietro la vetrata protettiva con uno sguardo di speranza. All’interfono racconta l’emozione “del primo ragazzo che sono riuscito a svegliare. Quando mi ha visto ha alzato entrambi i pollici in segno di ok”. E se qualcuno non ce la fa Mara spiega “che siamo preparati ad accompagnare le persone verso la morte nella maniera più dignitosa. Io le tengo per mano per non lasciarle sole fino all’ultimo momento”.
Erica Venier, la capo turno, vuole ringraziare “con tutto il cuore” i triestini che ogni giorno fanno arrivare dolci, frutta, generi di conforto ai combattenti della terapia intensiva. Graziano Di Gregorio, infermiere del turno mattutino, è un veterano: “Dopo 22 anni di esperienza non avrei mai pensato di trovarmi in una trincea del genere”. Il fiore all’occhiello della rianimazione di Cattinara è di non aver perso un solo paziente, ma Di Gregorio racconta: “Infermieri di altre terapie intensive hanno dovuto dare l’estrema unzione perchè i pazienti sono soli e non si può fare diversamente”.
L’azienda sanitaria sta acquistando una trentina di tablet per cercare di mantenere un contatto con i familiari e permettere l’estremo saluto. Prima di venire intubati, l’ultima spiaggia, i contagiati che hanno difficoltà a respirare sono aiutati con maschere o caschi in un altro reparto. Il direttore, Marco Confalonieri, racconta: “Mio nonno era un ragazzo del ’99, che ha combattuto sul Piave durante il primo conflitto mondiale. Ho lanciato nella mischia 13 giovani appena assunti. Sono i ragazzi del ’99 di questa guerra”.
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20 giugno 2017 | WDR | intervento |
Italia
Più cittadini italiani con lo ius soli
Estendere la cittadinanza italiana ai bambini figli di stranieri? È la proposta di legge in discussione in Senato in questi giorni. Abbiamo sentito favorevoli e contrari.
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