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01 giugno 2017 - Esteri - Libia - Panorama
Tripoli bel suol d’orrore

La strage degli innocenti a Manchester, ondate di migranti, massacri nel sud, scontri a Tripoli e raid aerei egiziani fanno della Libia un «bel suol d’orrore» e di caos. A cominciare dal caso di Salman Abedi, il giovane kamikaze di origini libiche che ha ucciso 22 persone, compresi adolescenti e bambini, al concerto di Ariana Grande a Manchester. Era partito da Tripoli il 17 maggio. La sua intera famiglia era jihadista di lunga data. Il fratello minore Hashem, arrestato nella capitale libica, voleva farsi saltare in aria per uccidere l’inviato speciale Onu, il tedesco Martin Kobler (con il diplomatico viaggia il generale degli alpini Paolo Serra, consigliere per la sicurezza).
Ramadan, il padre dei kamikaze, pure lui dietro le sbarre a Tripoli, è un islamista puro e duro. Nel 1991 scappò in Inghilterra, chiedendo asilo politico come oppositore del regime di Muammar Gheddafi. Originario della zona di Derna, faceva parte del Gruppo combattente islamico libico, la formazione che aveva combattuto in Afghanistan con Osama bin Laden (nel 2003, circa 700 jihadisti di Derna andarono in Iraq ad alimentare la guerriglia contro gli Usa). Non a caso, nel 2011 Ramadan tornò in patria con i cosiddetti Manchester fighters, i combattenti libici che volevano rovesciare il colonnello Gheddafi. Molti facevano parte del Gruppo alleato ad Al Qaeda. Uno dei suoi contatti era nientemeno che Abu Anas al-Libi, con una taglia americana sulla testa di 25 milioni di dollari per gli attentati in Kenya
e Tanziana che nel 1998 avevano raso al suolo le ambasciate Usa. Samia, la madre del kamikaze di Manchester, è una cara amica della moglie di Al Libi, catturato a Tripoli nel 2015 con un blitz dei corpi speciali americani. «La famiglia del kamikaze era espressione degli oppositori più accaniti di Gheddafi, che gli inglesi (e pure noi) hanno aiutato a rovesciare. Il tragico paradosso è che il Regno Unito ha nutrito una serpe in seno, che in seguito l’ha colpito al cuore» sottolinea il generale Marco Bertolini, ex comandante dei corpi speciali italiani in congedo da pochi mesi.
Per l’intelligence americana, il cattivo maestro del giovane Salman era l’imam libico-canadese Abdul Basit Ghweila, direttore di Awqaf a Tripoli, l’ufficio statale che si occupa di moschee e donazioni religiose. Il predicatore è vicino al gran mufti di Tripoli, Sadiq al Ghariani, che considera il premier Fayez al Serraj, appoggiato da Roma, un «infedele lacchè dell’Occidente». E suo figlio è stato ucciso l’anno scorso mentre combatteva con le truppe jihadiste a Bengasi. Non a caso, Ghariani continua ad appoggiare il vecchio governo islamista «di salvezza nazionale» di Khalifa Ghwell, disarcionato da al Serraj. Il 26 maggio i suoi uomini hanno scatenato due giorni di furiosi scontri a Tripoli per riprendere il potere. Al suo fianco, le brigate islamiche delle milizie di Misurata, che hanno abbandonato l’alleanza di comodo con al Serraj. Sul terreno sono rimasti 78 combattenti, ma l’offensiva è stata respinta.
Il fallito colpo di mano era stato ordito cinque giorni prima in una riunione a Misurata con l’ex ministro della Difesa Al Mahdi al Barghouthi. Il premier al Serraj lo aveva destituito dopo lo spaventoso massacro a Sud di Tripoli del 18 maggio, dove infuriano i combattimenti fra le truppe del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, e la «terza forza» di Misurata. Ben 141 uomini di Haftar sono stati decapitati o uccisi a sangue freddo con un colpo di pistola alla nuca nella base di Brak al Shati, i cadaveri profanati per mano dei miliziani di Misurata e loro alleati ostili a un eventuale accordo fra al Serraj e Haftar.
Roma appoggia il riavvicinamento fra il premier e il generale iniziato il 2 maggio con un incontro ad Abu Dhabi. Il voltafaccia di Misurata, o di una parte delle sue milizie salafite, inquieta il mini contingente che garantisce la sicurezza del nostro ospedale militare nella città costiera. «Le divisioni interne non consentono alcuna pacificazione. L’anarchia andrà avanti a lungo. E se la Libia diventasse uno Stato fallito come la Somalia, per l’Italia sarebbe molto peggio, anche perché si trova dall’altra parte del Mediterraneo» spiega l’ex generale Bertolini.
In questo caos, i caccia egiziani hanno bombardato obiettivi jihadisti attorno a Derna, ultima grande città in mano a forze radicali vicine ad al Qaeda. I raid sono la rappresaglia per la strage del 26 maggio di 30 cristiani copti della regione egiziana di Minya. Il ministro degli Esteri del Cairo, Sameh Shoukry, ha detto che sono stati colpiti «i campi di addestramento dei terroristi» responsabili del massacro, rivendicato però dall’Isis, non da al Qaeda. L’Egitto appoggia le forze di Haftar con l’avallo di Mosca. Il 29 maggio i ministri degli Esteri e della Difesa della Federazione russa, Sergej Lavrov e Sergej Shoigu, in visita al Cairo, hanno ribadito la visione comune «nella lotta al terrorismo».
Dalla Libia intanto continuano a imbarcarsi ondate di migranti raccolti in mare soprattutto dalle ong. Il 25 maggio gli arrivi in Italia da inizio 2017 erano 50.959, il 33,7 per cento in più del 2016. Sono per lo più migranti economici, che transitano dal poroso confine lungo 5 mila chilometri con Niger e Ciad, in mezzo al Sahara. La Difesa ha smentito la notizia sulla missione Deserto rosso, che avrebbe coinvolto 500 militari italiani sul confine fra Niger e Libia, dove è già dislocato un contingente francese. «Per affrontare l’arrivo dei migranti dal sud della Libia, dove gli spazi sono enormi e il territorio difficilissimo, ci vorrebbero tanti uomini e importanti strumenti di sorveglianza come i droni a lungo raggio e la rete satellitare degli americani» dice Bertolini. «L’idea del ministro dell’Interno, Marco Minniti, di coinvolgere le tribù del Sud per arginare il traffico di esseri umani è intelligente. Peccato che ora si combatta proprio in quell’area e tutto diventa più difficile».

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16 giugno 2011 | Matrix | reportage
La "guerra" degli italiani nel golfo della Sirte
Da tre mesi l’Italia è in prima linea, in mezzo al mare, di fronte alle coste libiche. Assieme agli alleati della Nato ci siamo impegnati a difendere, con le bombe, i civili e la fetta di Libia che si è ribellata al colonnello Gheddafi. L’ammiraglia della flotta occidentale nel golfo della Sirte è la portaerei Garibaldi. La tv di Tripoli accusa la Nato di bombardare i civili, ma i piloti italiani hanno ordini draconiani: possono colpire solo obiettivi militari che si trovano al di fuori dalle zone abitate per evitare vittime innocenti. Le 19 navi della Nato al largo della Libia, sotto il comando della Garibaldi, garantiscono l’embargo contro il regime del colonnello. I fanti di marina del reggimento San Marco si calano dagli elicotteri per ispezionare i mercantili e controllare che non trasportino armi. Come rappresaglia alle bombe Tripoli ha spalancato le porte agli immigrati clandestini che partono dalla Libia occidentale. A bordo della Garibaldi vivono 800 marinai comprese 62 donne, che si ritrovano nelle mensa dell’equipaggio. Ma hanno pochi momenti di svago, a parte qualche partita a biliardino ed una palestra ricavata negli spazi angusti della nave. A dare conforto ai giovani di 20 anni e ai veterani delle missioni in mare ci pensa don Vincenzo Caiazzo, che parla dei marinai e della portaerei come se fosse una parrocchia In mezzo al mare la guerra in Libia sembra invisibile e lontana, ma nella Centrale operativa di combattimento, cuore pulsante della Garibaldi, non si dorme mai, come il sottotenente di vascello Chiara Camaioni, 24 anni, di Ortona.

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12 marzo 2016 | Tgcom24 | reportage
Bugie e reticenze sugli ostaggi ammazzati
Molti politici nostrani hanno fatto ancora una volta una figura meschina. Gli stessi che giocano al tiro al bersaglio con il regime egiziano sul caso Regeni difendono a spada tratta il governo italiano, che qualche peso sulla coscienza dovrebbe averlo per come è andata a finire la storia degli ostaggi. Nel caso di Failla e Piano non risulta che abbiano sollevato il problema dell’avallo del governo Renzi al raid americano a Sabrata, che ha rotto l’equilibrio locale facendo rischiare la pelle a tutti gli ostaggi, anche i due tornati a casa. E soprattutto provocando una reazione a catena sfociata nella morte di Failla e Piano. Non c’è da stupirsi se gli stessi giornaloni, che puntano, non a torto, il dito contro il presidente egiziano Al Sisi, non fanno lo stesso con Renzi chiedendo lumi sul fatto che lui ed il capo dello Stato erano informati del raid Usa, che ha dato inizio al disastro degli ostaggi di Sabrata. E non abbiano alzato un dito almeno per rinviare l’attacco. Ancora più disarmante la reticenza della politica e del governo sul ruolo jihadista dei tunisini delle bandiere nere vissuti pure da noi, nel rapimento degli ostaggi italiani.

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25 marzo 2011 | TG5 | reportage
Diario dalla Libia in fiamme
Diario dalla Libia in fiamme

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22 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
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08 marzo 2011 | Panorama | intervento
Libia
Diario dalla Libia
Diario dalla Libia

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26 aprile 2011 | Radio 101 | intervento
Libia
Con Luxuria bomba e non bomba
Il governo italiano, dopo una telefonata fra il presidente americano Barack Obama ed il premier Silvio Berlusconi, annuncia che cominciamo a colpire nuovi obiettivi di Gheddafi. I giornali titolano: "Bombardiamo la Libia". E prima cosa facevamo? Scherzavamo con 160 missioni aeree dal 17 marzo?

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26 agosto 2011 | Radio Città Futura | intervento
Libia
I giornalisti italiani rapiti a Tripoli


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18 marzo 2011 | Radio Capodistria | intervento
Libia
IL vaso di pandora
IL vaso di pandora

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