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21 febbraio 2019 - Esteri - Siria - Grazia
Chi perdonerà le jihadiste pentite

“Mi sono pentita”, “voglio riabbracciare la mamma”, “sono pronta ad andare in carcere, ma nel mio paese”, le jihadiste sopravvissute al crollo dello Stato islamico sembrano agnellini in cerca di perdono. In questi giorni dall’ultima sacca delle bandiere nere in Siria sono fuggite, attraverso il corridoio umanitario, in 1800 fra donne e bambini. Un fiume umano di fantasmini neri con il velo integrale che le copre dalla testa ai piedi, che si  aggiungono ad altrettante famiglie dell’Isis catturate dai curdi dalla caduta nel 2017 di Raqqa, la storica “capitale” dello Stato islamico in Siria. 

Non tutte però sono arrendevoli. Le vedove dei combattenti ceceni e russi caduti in nome della guerra santa, considerano i curdi, che le trattano con umanità dei volgari “kufar”, infedeli. E squadrano gli odiati giornalisti con occhi bellissimi, ma gelidi, che spuntano a malapena da sotto il burqa. Nello sguardo si legge chiaramente che vorrebbero vederci sgozzare, come è capitato a tanti ostaggi occidentali. Altre donne velate speravano di raggiungere la Turchia, per poi ripresentarsi, come se nulla fosse, nei loro paesi di origine in Germania, Francia, Inghilterra, Italia. Quando chiedi com’era la vita nel Califfato se va bene ti rispondono “normale”, altrimenti fanno finta di non sapere cosa sia lo Stato islamico. Addirittura alcuni bambini, allevati con il lavaggio del cervello jihadista, tirano pietre ai fotografi. Un “leoncino” del Califfo ci punta addirittura contro il mitra giocattolo come se fosse vero e mima di farci secchi.

Le jihadiste come le due venete, Sonia Khediri e Meriem Rehaily, più che sinceramente pentite sono delle furbette. “Ho amato Daesh (lo Stato islamico nda) pensando di fare la scelta giusta ed invece ho perso la mia vita” ammetteva Sonia quando l’ho intervistata nel campo sorvegliato dai curdi di Heyn Issa. Alla richiesta di farmi vedere il volto, però, si è opposta in nome delle regole jihadiste che impongono alle donne di coprirsi completamente.

Meriem, che almeno faceva vedere la faccia incastonata nel velo, dovrebbe scontare una pena di 4 anni per terrorismo in Italia. Nessuno va a prenderla nonostante viva in un  campo circondato dal reticolato ad una manciata di chilometri dal confine con il nord dell’Iraq dove abbiamo 1500 soldati.

“Voglio tornare in Italia, anche se andrò in carcere” mi ha detto sapendo bene che con due figli piccoli ed il pentimento conclamato rimarrebbe molto poco, o niente, dietro le sbarre.

Il copione delle jihadiste furbette è sempre lo stesso: si sono innamorate della guerra santa grazie ad un aitante mujahed che le ha attirate via internet. Lo hanno raggiunto in Turchia e sposato per passare il confine e raggiungere Raqqa dove hanno aderito allo Stato islamico, ma giurano di non avere mai fatto nulla di male. 

Le bombe americane e soprattutto quelle russe hanno trasformato la scelta avventurosa di aderire al Califfato in un incubo. Il “pentimento” è avvenuto a suon di raid e missili. Piuttosto che consegnarsi, però, hanno pagato fino a 4000 dollari i trafficanti di uomini, che promettevano di portarle in Turchia territorio considerato sicuro. Solo quando sono state intercettate dai curdi hanno rinnegato, almeno in parte lo Stato islamico, con l’unico obiettivo di tornare a casa. Mai, però, hanno voltato le spalle all’Islam che le ha portate alla deriva.

Shamima Begum, la baby jihadista partita da Londra ancora minorenne, ha appena partorito il terzo figlio, dopo averne perso i primi due per stenti. Pur supplicando di volere tornare in Gran Bretagna ha detto chiaramente: “Non mi pento per quello che ho fatto”. Due canadesi e una tedesca fuggite dall’inizio di febbraio dall’ultima sacca nella Siria sud orientale davano per scontato che verranno rimpatriate per rifarsi una vita, come se l’adesione allo Stato islamico fosse stata una scampagnata. In molti in Siria e in Europa pensano che sia profondamente ingiusto fare finire tutto a tarallucci e vino. Qualcuno invoca per i furbetti jihadisti, lo stesso destino che riservavano ai prigionieri: uomini fatti a pezzi o bruciati vivi e donne ridotte a schiave. Ma loro sono la barbarie e noi, per fortuna, la civiltà.

Fausto Biloslavo  

 


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10 settembre 2013 | Tg5 | reportage
L'inferno di Jobar alle porte di Damasco
Alle porte della capitale siriana il nostro inviato racconta il sobborgo ridotto a un cumulo di macerie, nella zona dove sono state usate le armi chimiche.

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18 febbraio 2016 | Terra! | reportage
La guerra dei russi in Siria
Chi l’avrebbe mai pensato di ritrovarmi faccia a faccia con i russi in Siria. Negli anni ottanta, durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan, il faccia a faccia con l’Armata rossa mi costò sette mesi di galera a Kabul. Gli inviati Fausto Biloslavo, Sandra Magliani, Lorena Bari e Anna Migotto documentano la guerra in Siria, l’immigrazione, i profughi, i morti ed i bombardamenti L’immigrazione, la guerra in Siria, i morti, i profughi che premono alle frontiere della Turchia cercando un varco per l’Europa, i bombardamenti.

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25 gennaio 2016 | Tg5 | reportage
In Siria con i russi
La guerra dei russi in Siria dura da 4 mesi. I piloti di Mosca hanno già compiuto 5700 missioni bombardando diecimila obiettivi. In queste immagini si vedono le bombe da 500 o 1000 chili sganciate sui bersagli che colpiscono l’obiettivo. Un carro armato della bandiere nere cerca di dileguarsi, ma viene centrato in pieno e prende fuoco. In Siria sono impegnati circa 4mila militari russi. La base aerea a 30 chilometri dalla città siriana di Latakia è sorvolata dagli elicotteri per evitare sorprese. Le bombe vengono agganciate sotto le ali a ritmo continuo. I piloti non parlano con i giornalisti, ma si fanno filmare con la visiera del casco abbassato per evitare rappresaglie dei terroristi. Il generale Igor Konashenkov parla chiaro: “Abbiamo strappato i denti ai terroristi infliggendo pesanti perdite - sostiene - Adesso dobbiamo compiere il prossimo passo: spezzare le reni alla bestia”. Per la guerra in Siria i russi hanno mobilitato una dozzina di navi come il cacciatorpediniere “Vice ammiraglio Kulakov”. Una dimostrazione di forza in appoggio all’offensiva aerea, che serve a scoraggiare potenziali interferenze occidentali. La nave da guerra garantisce la sicurezza del porto di Tartus, base di appoggio fin dai tempi dell’Urss. I soldati russi ci scortano nell’entroterra dilaniato dai combattimenti. Negli ultimi tre anni la cittadina era una roccaforte del Fronte al Nusra, la costola siriana di Al Qaida. Le bombe russe hanno permesso ai governativi, che stavano perdendo, di riguadagnare terreno. Sul fronte siriano i militari di Mosca usano il blindato italiano Lince. Lo stesso dei nostri soldati in missione in Afghanistan.

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radio

02 dicembre 2015 | Radio uno Tra poco in edicola | intervento
Siria
Tensione fra Turchia e Russia
In collegamento con Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa. In studio conduce Stefano Mensurati.

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23 gennaio 2014 | Radio Città Futura | intervento
Siria
La guerra continua


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02 luglio 2015 | Radio24 | intervento
Siria
La famiglia jihadista
"Cosa gradita per i fedeli!!! Dio è grande! Due dei mujaheddin hanno assassinato i fumettisti, quelli che hanno offeso il Profeta dell'Islam, in Francia. Preghiamo Dio di salvarli”. E’ uno dei messaggi intercettati sulla strage di Charlie Hebdo scritto da Maria Giulia Sergio arruolata in Siria nel Califfato. Da ieri, la prima Lady Jihad italiana, è ricercata per il reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale. La procura di Milano ha richiesto dieci mandati di cattura per sgominare una cellula “familiare” dello Stato islamico sotto indagine da ottobre, come ha scritto ieri il Giornale, quando Maria Giulia è arrivata in Siria. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli ha spiegato, che si tratta della “prima indagine sullo Stato Islamico in Italia, tra le prime in Europa”.

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