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17 aprile 2019 - Esteri - Libia - Panorama
La Libia ha bisogno di un altro Gheddafi?
Fausto Biloslavo “Prima c’era il colonnello e adesso il caos. Un cittadino libico su due vuole il ritorno di Gheddafi attraverso suo figlio, Seif al Islam”. Non ha peli sulla lingua l’ex generale Leonardo Tricarico. “In Libia c’è un disperato bisogno di ordine rispetto al polverizzato potere attuale. Più che nostalgia del vecchio regime è l’esigenza di un uomo forte, possibilmente non sanguinario, che faccia uscire il paese dal baratro” ribadisce a Panorama l’ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della fondazione Icsa, che si occupa di intelligence, difesa e sicurezza. Alle porte di Tripoli, il maresciallo Haftar, un tempo generale di Gheddafi poi caduto in disgrazia, aspira a diventare Rais conquistando la capitale con il suo autoproclamato Esercito nazionale libico, ma forse non ha più l’età, la salute e la stoffa.  La grande città è governata dal premier Fayez al Serraj, appoggiato dall’Italia, che si affida alle milizie per contrastare l’avanzata dell’uomo forte della Cirenaica. “Nei caffè, nelle riunioni nelle case della borghesia impiegatizia umiliata dai ritardi del pagamento degli stipendi, dalle file estenuanti agli sportelli bancari, dalla scarsità di beni di consumo e soprattutto da un senso di insicurezza mai provata prima, si sta facendo strada - per ora a bassa voce - un senso di nostalgia che presto - come contraltare al caos e alla disgregazione - potrebbe trasformarsi in un progetto politico” spiega Salvatore Santangelo, del centro studi geopolitica.info, che era a Tripoli all’inizio dell’attacco. “Più di qualcuno mi ha confessato che: “Seif al Islam Gheddafi potrebbe essere l’uomo giusto” sostiene il giovane analista. E molti attenderebbero l’ingresso di Haftar stanchi dello strapotere delle milizie. Negli ultimi giorni si rincorrono voci incontrollabili sulla morte del figlio intelligente di Gheddafi, che si troverebbe da qualche parte in Libia. Classe 1972, delfino riformista del defunto regime, era stato catturato nel 2011, dopo il linciaggio del padre, dai ribelli di Zintan, che lo hanno tenuto dietro alle sbarre fino al 2016. Poi, un anno dopo, è stato definitivamente liberato con la scusa di un’amnistia generale. Sulla testa del figlio del colonello pende un mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini di guerra. I suoi sostenitori sostengono che si tratta “solo di un sistema di pressione”. E fanno notare che altri leader africani governano con accuse del genere, come Omar al Bashir in Sudan oppure l’incriminazione è caduta.  “Seif al Islam può giocare un ruolo importante nell’immediato futuro della Libia per fare uscire il paese dal caos. Non ha ancora annunciato ufficialmente la sua candidatura, ma è convinto che bisogna indire elezioni parlamentari e presidenziali corrette il prima possibile” dichiara Mohamed Gilushie a Panorama. In esilio in Germania fa parte della squadra politica voluta dalla “spada dell’Islam”, il nome scelto da Gheddafi per il suo secondogenito. Gli uomini di Seif hanno il compito di caldeggiare il suo ritorno sulla scena politica libica presso le cancellerie soprattutto europee. “Dopo il la scarcerazione ha ristabilito i contatti internazionali. La nostra squadra ha portato i suoi messaggi al presidente russo Vladimir Putin, al premier ungherese Viktor Orban. E siamo stati accolti anche al Quai d’Orsay a Parigi” conferma Gilushie, che era il capo gabinetto di Baghdadi Mahmoudi, l’ultimo primo ministro ai tempi del colonnello. La “missione” più recente della rete gheddafiana, a Lisbona, è del 26 marzo. Lo scorso ottobre a Parigi hanno incontrato il direttore per il Nord Africa del ministero degli Esteri, Jerome Bonnafont e l’inviato speciale per la Libia Frederic Desagneaux. L’obiettivo era consegnare una lettera del figlio del colonnello per il presidente francese Emmanuel Macron, nonostante fu il suo predecessore Nicholas Sarkozy a spingere l’intervento della Nato contro Gheddafi. “Messaggi di Seif sono stati inviati pure in Italia” rivela Gilushie senza fornire dettagli. La visita più importante è avvenuta a Mosca lo scorso dicembre, dove gli uomini Gheddafi junior hanno incontrato il viceministro degli Esteri, Mikhail Bogdanov consegnandogli la lettera di Seif per Putin. Lo stesso Bogdanov ha dato luce verde alla candidatura alle presidenziali libiche dell’erede del colonnello sostenendo che “dipenderà dalla sua volontà politica”. Anche oltreoceano sulla rivista Foreign policy era comparsa un’analisi che fin dal sommario non lascia dubbi: “Il presidente americano Donald Trump ha un’occasione unica per risolvere il caos in Libia appoggiando Saif al Islam come capo dello stato”. Da Tripoli in guerra una fonte di Panorama che monitorizza la situazione conferma: “Seif ha un consenso popolare perchè la gente si rende conto del grande errore del 2011. Alle urne potrebbe prendere una valanga di voti, ma poi? Non ha una forza armata alle spalle per governare”. Haftar è già riuscito a riciclare tanti ex ufficiali di Gheddafi, ma è improbabile che appoggi il figlio del colonnello. Secondo alcune stime 2 milioni di libici potrebbero votare per Seif e i gheddafiani contano su una tv satellitare, Al Jamahirya dal nome del vecchio stato del Rais, seguita a Tripoli,  che trasmette dall’Egitto. “Il programma di Seif non si basa sulla forza delle armi, ma sulla riconciliazione nazionale. Bisogna indire un forum nazionale senza alcuna esclusione e decidere la tempistica per le elezioni e dopo il varo di una nuova Costituzione” sostiene Gilushie, il suo uomo in Europa.  L’invisibile “Spada” dell’Islam non compare mai in pubblico. Si è collegato in video con i suoi contatti ad alto livello a Mosca e lo scorso anno via audio con una riunione dei Tuareg, a Ghat nel sud del paese, che lo hanno sempre appoggiato. Il 22 febbraio la tribù Msallata ha invitato, nero su bianco, il figlio intelligente di Gheddafi a farsi carico “della riconciliazione in Libia”. I gheddafiani speravano nell’invito alla conferenza di pace dell’Onu, che doveva tenersi a Ghadames fra il 14 e 16 aprile, alla fine cancellata a causa dei combattimenti. “Seif è un attore influente, ma dietro le quinte con fondi familiari depositati chissà dove - sottolinea Arturo Varvelli dell’Ispi, centro studi di Milano - Indubbiamente c’è la nostalgia del passato quando uscivi di casa e non avevi paura di venire derubato o rapito dai miliziani di turno. Il figlio di Gheddafi, però, non ha chance reali. Haftar gli ha rovinato la piazza assorbendo gli ex gheddafiani, ma pure lui a più di 70 anni per quanto riuscirebbe a fare l’uomo forte anche se prendesse il potere?”. Non è d’accordo Paolo Quercia, fondatore di un altro think tank, il Cenass. “Più la situazione libica si fa confusa, più l’opzione di un ritorno del figlio di Gheddafi si fa credibile - sostiene l’esperto di geopolitica - Deve però uscire allo scoperto ed iniziare a trattare con i vari attori”. Il resto della famiglia del colonnello ha pagato un duro prezzo. Tre figli maschi sono stai uccisi dai ribelli o dalla Nato durante la caduta del regime nel 2011. Saadi, che grazie ai soldi di papà, aveva tentato un impossibile carriera nel calcio con Sampdoria, Udinese e Cagliari è ancora rinchiuso nel carcere Al Hadabah di Tripoli. Il figlio scemo, Hannibal, che in Europa combinò un sacco di guai per la sua arroganza è dietro le sbarre in Libano, dopo avere cercato rifugio in Siria. Il primogenito del colonnello, Muhammad, che non ha mai avuto un ruolo preminente è in esilio in Oman assieme alla seconda e vera moglie di Gheddafi, Safia Farkash. E l’unica figlia, Aisha, bella e battagliera che difese come avvocato internazionale Saddam Hussein.   Il generale Mario Mori, che ha guidato i nostri servizi segreti, non pensa “che Seif o Haftar possano essere i salvatori della Libia. O si trova un altro colonello Gheddafi, ma i tempi sono cambiati oppure temo che il destino del paese sarà una spartizione in stati diversi”. Un ex rivoluzionario, che ha combattuto contro il regime a Misurata, ammette sconsolato: “Forse si stava meglio quando si stava peggio. Ai tempi di Gheddafi c’era un solo dittatore. Adesso ce ne sono 6 milioni: chiunque abbia un’arma pensa di poter comandare”.

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