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14 agosto 2019 - Interni - Italia - Panorama
A Trieste il passato divide ancora

Fausto Biloslavo

Dai tagli dei fondi regionali a chi nega le foibe alla guerra delle statue per Gabriele D’Annunzio fino alle onorificenze della Repubblica italiana al maresciallo Tito mai ritirate e alla riconsegna dell’ex hotel Balkan alla comunità slovena, che nel 1920 fu distrutto da un incendio in seguito alle sanguinose tensioni fra opposti nazionalismi. 

A Trieste la storia non passa e le sue ferite riemergono come un fiume carsico. L’ultima spruzzata di benzina sul fuoco arriva dal sindaco di Fiume, Rijeka in croato, che non ha digerito l’idea di una statua di Gabriele D’annunzio da inaugurare a Trieste il 12 settembre, centenario dell’impresa fiumana. “Se esiste l\'intenzione di erigere un monumento, allora il monumento deve essere eretto alle truppe partigiane che hanno liberato Trieste” ha scritto in luglio, Vojko Obersnel. Il riferimento è al IX Corpus di Tito, che ha occupato per 40 giorni la città nel maggio 1945, a guerra finita, deportando e infoibando tanti italiani. 

Il primo cittadino del capoluogo del Quarnaro rispondeva ad un appello che si oppone alla celebrazione di D’Annunzio del collettivo di Resistenza storica “per una Trieste plurale e multiculturale contro il neo irredentismo”. I promotori sono personaggi come Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan e Marco Barone noti “riduzionisti” della tragedia delle foibe. L’appello ha raccolto duecento firme compreso l\'ex senatore Giovanni Russo Spena, lo scrittore Giacomo Scotti, Moni Ovadia e Luigi Sabatti, presidente del Circolo della stampa triestino, che però ha firmato a titolo personale.

Il sindaco di Fiume, che il prossimo anno sarà capitale europea della Cultura ricevendo il testimone da Matera, ha pure annunciato “una mostra con il titolo D\'Annunzijeva Mučenica / L\'Olocausto di D\'Annunzio / D’Annunzio’s Martyr, nel Museo marittimo e storico del litorale croato, che come tema avrà D’Annunzio, la sua sanguinosa occupazione della nostra città e i suoi crimini”.

Una specie di “rappresaglia” all’esposizione “Disobbedisco”, inaugurata a Trieste sul centenario dell’impresa del Vate del 1919, che marciò su Fiume con i suoi legionari, come simbolo delle vittoria mutilata nella prima guerra mondiale, per venire alla fine cacciato dalle cannonate del Regno d’Italia. “A Fiume D’Annunzio ha condotto un’operazione rivoluzionaria che non andava nella direzione del fascismo, ma di uno società nuova, aperta e libertaria” spiega Giordano Bruno Guerri, curatore della mostra e presidente della fondazione Vittoriale.

Parole che a Trieste non sono servite a placare le polemiche dettate dal verbo antifascista più o meno mascherato facendo scoppiare una sorta di “guerra” delle statue. Una petizione contro il Vate in bronzo promossa da un nostalgico “di sinistra” della Mitteleuropa ai tempi dell’Austria Felix ha raccolto oltre 3mila firme. Un’altra propone di erigere al posto di quella di D’Annunzio, la statua all’inventore dell’elica navale, Josef Ressel, di origine boema, ma triestino di adozione. Il Pd locale non vuole il Vate, ma il pachistano Abdus Salam, premio nobel per la fisica, che a Trieste ha già il Centro internazionale di Miramare intitolato a suo nome. Contro la statua di D’Annunzio si sono schierati anche il giornalista viaggiatore Paolo Rumiz e lo scrittore tedesco che vive nel capoluogo giuliano Veit Heinechen. Fra gli intellettuali triestini di spicco solo Claudio Magris non si è scandalizzato.

Il risultato è che la statua del Vate seduto su una panchina mentre legge un libro, prevista in piazza della Borsa, zona centralissima di Trieste, verrà per il momento esposta alla mostra “Disobbedisco” e poi si deciderà la collocazione definitiva.

Lo scontro su D’Annunzio è solo un tassello della battaglia di retroguardia delle vestali del politicamente corretto, che vedono ovunque lo spauracchio fascista. Il fuoco alle polveri è stata la mozione del 7 febbraio approvata dal Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia, “per sospendere ogni contributo finanziario, patrocinio o concessione a beneficio di soggetti pubblici e privati che, direttamente o indirettamente, concorrano con qualunque mezzo a negare o ridurre il dramma delle Foibe e dell’Esodo”.

Nel testo si fa riferimento anche al Vademecum dell’Istituto per la storia della resistenza nel Friuli-Venezia Giulia “con cui si vuole diffondere una versione riduzionista della storia della pulizia etnica perpetrata dai partigiani titini”. Apriti cielo: l’intellighenzia si è mobilitata raccogliendo 200 firme inviate al capo dello Stato contro la Regione a guida leghista. Fra i primi a sottoscrivere la petizione Raoul Pupo, uno dei curatori del Vademecum ed ex segretario provinciale della Dc a Trieste, il rettore uscente dell’università locale, Maurizio Fermeglia, l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida e politici appartenenti soprattutto al centrosinistra.

Nel capoluogo giuliano, “capitale” morale degli esuli, ha sede l’Unione degli istriani, una delle associazioni rappresentative degli italiani che fuggirono in 250mila davanti alle violenze di Tito alla fine della seconda guerra mondiale. Il 6 agosto il presidente, Massimiliano Lacota, annuncia “una raccolta firme su scala nazionale a partire da ottobre per togliere le onorificenze italiane a Tito entro il 2020”. Cinquant’anni fa il maresciallo jugoslavo era stato nominato dal Quirinale “Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana” con l’aggiunta del Gran Cordone,  il più alto riconoscimento del nostro paese.

A Trieste, però, non mancano gli estimatori di Tito come il presidente dell’Associazione nazionale partigiani, Fabio Vallon, che il 12 maggio postava sulla sua pagina Facebook un selfie con la gigantografia del maresciallo a Brioni e la frase “dame el cinque!”.   

E nei prossimi mesi arriverà al pettine un altro nodo storico legato all’ex hotel Balkan, ovvero il Narodni dom, la casa del popolo degli sloveni a Trieste nel 1920. La storiografia ufficiale accusa i fascisti di avere assaltato e incendiato l’edificio al centro di Trieste, ma la destra sottolinea che dentro il Narodni dom c’era un deposito di armi dei nazionalisti jugoslavi, che avrebbero sparato anche dalle finestre. Nel luglio del 1920 gli animi erano infiammati dalle notizie di due marinai italiani uccisi a Spalato e negli scontri di piazza fra nazionalisti si registrò una vittima anche a Trieste. Il 13 luglio del prossimo anno per il centenario dell’incendio Lubiana auspica la restituzione dell’ex Balkan alla comunità slovena, che potrebbe costare 14 milioni di euro al governo italiano e una valanga di polemiche sulla storia che non passa. 

[continua]

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06 giugno 2017 | Sky TG 24 | reportage
Terrorismo da Bologna a Londra
Fausto Biloslavo "Vado a fare il terrorista” è l’incredibile affermazione di Youssef Zaghba, il terzo killer jihadista del ponte di Londra, quando era stato fermato il 15 marzo dello scorso anno all’aeroporto Marconi di Bologna. Il ragazzo nato nel 1995 a Fez, in Marocco, ma con il passaporto italiano grazie alla madre Khadija (Valeria) Collina, aveva in tasca un biglietto di sola andata per Istanbul e uno zainetto come bagaglio. Il futuro terrorista voleva raggiungere la Siria per arruolarsi nello Stato islamico. Gli agenti di polizia in servizio allo scalo Marconi lo hanno fermato proprio perché destava sospetti. Nonostante sul cellulare avesse materiale islamico di stampo integralista è stato lasciato andare ed il tribunale del riesame gli ha restituito il telefonino ed il computer sequestrato in casa, prima di un esame approfondito dei contenuti. Le autorità inglesi hanno rivelato ieri il nome del terzo uomo sostenendo che non “era di interesse” né da parte di Scotland Yard, né per l’MI5, il servizio segreto interno. Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, ha dichiarato a Radio 24, che "venne segnalato a Londra come possibile sospetto”. E sarebbero state informate anche le autorità marocchine, ma una fonte del Giornale, che ha accesso alle banche dati rivela “che non era inserito nella lista dei sospetti foreign fighter, unica per tutta Europa”. Non solo: Il Giornale è a conoscenza che Zaghba, ancora minorenne, era stato fermato nel 2013 da solo, a Bologna per un controllo delle forze dell’ordine senza esiti particolari. Il procuratore capo ha confermato che l’italo marocchino "in un anno e mezzo, è venuto 10 giorni in Italia ed è stato sempre seguito dalla Digos di Bologna. Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare, ma non c'erano gli elementi di prova che lui fosse un terrorista. Era un soggetto sospettato per alcune modalità di comportamento". Presentarsi come aspirante terrorista all’imbarco a Bologna per Istanbul non è poco, soprattutto se, come aveva rivelato la madre alla Digos “mi aveva detto che voleva andare a Roma”. Il 15 marzo dello scorso anno il procuratore aggiunto di Bologna, Valter Giovannini, che allora dirigeva il pool anti terrorismo si è occupato del caso disponendo un fermo per identificazione al fine di accertare l’identità del giovane. La Digos ha contattato la madre, che è venuta a prenderlo allo scalo ammettendo: "Non lo riconosco più, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer per vedere cose strane” ovvero filmati jihadisti. La procura ha ordinato la perquisizione in casa e sequestrato oltre al cellulare, alcune sim ed il pc. La madre si era convertita all’Islam quando ha sposato Mohammed il padre marocchino del terrorista che risiede a Casablanca. Prima del divorzio hanno vissuto a lungo in Marocco. Poi la donna è tornata casa nella frazione di Fagnano di Castello di Serravalle, in provincia di Bologna. Il figlio jihadista aveva trovato lavoro a Londra, ma nella capitale inglese era entrato in contatto con la cellula di radicali islamici, che faceva riferimento all’imam, oggi in carcere, Anjem Choudary. Il timore è che il giovane italo-marocchino possa essere stato convinto a partire per la Siria da Sajeel Shahid, luogotenente di Choudary, nella lista nera dell’ Fbi e sospettato di aver addestrato in Pakistan i terroristi dell’attacco alla metro di Londra del 2005. "Prima di conoscere quelle persone non si era mai comportato in maniera così strana” aveva detto la madre alla Digos. Il paradosso è che nessuna legge permetteva di trattenere a Bologna il sospetto foreign fighter ed il tribunale del riesame ha accolto l’istanza del suo avvocato di restituirgli il materiale elettronico sequestrato. “Nove su dieci, in questi casi, la richiesta non viene respinte” spiega una fonte del Giornale, che conosce bene la vicenda. Non esiste copia del materiale trovato, che secondo alcune fonti erano veri e propri proclami delle bandiere nere. E non è stato possibile fare un esame più approfondito per individuare i contatti del giovane. Il risultato è che l’italo-marocchino ha potuto partecipare alla mattanza del ponte di Londra. Parenti e vicini cadono dalle nuvole. La zia acquisita della madre, Franca Lambertini, non ha dubbi: “Era un bravo ragazzo, l'ultima volta che l'ho visto mi ha detto “ciao zia”. Non avrei mai pensato a una cosa del genere".

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24 novembre 2015 | Rai 1 Storie vere | reportage
Terrorismo in Europa
Dopo gli attacchi di Parigi cosa dobbiamo fare per estirpare la minaccia in Siria, Iraq e a casa nostra

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18 ottobre 2010 | La vita in diretta - Raiuno | reportage
L'Islam nelle carceri
Sono circa 10mila i detenuti musulmani nelle carceri italiane. Soprattutto marocchini, tunisini algerini, ma non manca qualche afghano o iracheno. Nella stragrande maggioranza delinquenti comuni che si aggrappano alla fede per sopravvivere dietro le sbarre. Ma il pericolo del radicalismo islamico è sempre in agguato. Circa 80 detenuti musulmani con reati di terrorismo sono stati concentrati in quattro carceri: Macomer, Asti, Benevento e Rossano. Queste immagini esclusive mostrano la preghiera verso la Mecca nella sezione di Alta sicurezza 2 del carcere sardo di Macomer. Dove sono isolati personaggi come il convertito francese Raphael Gendron arrestato a Bari nel 2008 e Adel Ben Mabrouk uno dei tre tunisini catturati in Afghanistan, internati a Guantanamo e mandati in Italia dalla Casa Bianca. “Ci insultano per provocare lo scontro dandoci dei fascisti, razzisti, servi degli americani. Una volta hanno esultato urlando Allah o Akbar, quando dei soldati italiani sono morti in un attentato in Afghanistan” denunciano gli agenti della polizia penitenziaria. Nel carcere penale di Padova sono un centinaio i detenuti comuni musulmani che seguono le regole islamiche guidati dall’Imam fai da te Enhaji Abderrahman Fra i detenuti comuni non mancano storie drammatiche di guerra come quella di un giovane iracheno raccontata dall’educatrice del carcere Cinzia Sattin, che ha l’incubo di saltare in aria come la sua famiglia a causa di un attacco suicida. L’amministrazione penitenziaria mette a disposizione degli spazi per la preghiera e fornisce il vitto halal, secondo le regole musulmane. La fede nell’Islam serve a sopportare la detenzione. Molti condannano il terrorismo, ma c’è anche dell’altro....

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03 giugno 2019 | Radio Scarp | intervento
Italia
Professione Reporter di Guerra


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